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Lunedì 21 FEBBRAIO 2022
Covid. In due anni di pandemia spesi (solo per la sanità) 19 miliardi di euro tra spese mediche e assistenziali, Dpi, farmaci e vaccini. Contagiato 1 italiano su 5 ma letalità è scesa dal 15% della prima ondata a poco più dell’1%

L'analisi nel report speciale di Altems: 11,5 miliardi sono legati all’incremento della spesa sanitaria delle Regioni, 4,3 miliardi per l’acquisto di dispositivi di protezione (DPI), anticorpi monoclonali, fiale remdesivir, gel, siringhe, tamponi, ventilatori, monitor, software, voli, (acquisti direttamente gestiti dalla struttura commissariale dell’emergenza Covid)e, infine 3,2 miliardi di euro per l’acquisto dei vaccini. Nel dossier anche un'analisi sui ricoveri, i test e la campagna vaccinale.

Due anni di pandemia, dal primo paziente italiano a oggi, hanno determinato in Italia una spesa di 19 miliardi di euro; 11,5 miliardi di questi legati all’incremento della spesa sanitaria delle Regioni, 4,3 miliardi per l’acquisto di dispositivi di protezione (DPI), anticorpi monoclonali, fiale remdesivir, gel, siringhe, tamponi, ventilatori, monitor, software, voli, (acquisti direttamente gestiti dalla struttura commissariale dell’emergenza Covid), infine 3,2 miliardi di euro per l’acquisto dei vaccini.
 
È la stima della spesa che ha dovuto sostenere il Paese in due anni di Covid, dal paziente “1” di Codogno, ottenuta dagli esperti dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (ALTEMS) della Facoltà di Economia dell’Università Cattolica, che ha voluto elaborare un report di sintesi della risposta alla diffusione del virus, soffermandosi sui modelli istituzionali e organizzativi adottati dalle Regioni italiane.
 
Dal rapporto si vede anche che in totale, indicativamente una persona su cinque (20,05%) in Italia è stata contagiata (il dato non tiene conto delle reinfezioni), con un valore massimo registrato dalla PA di Bolzano (33,9%), una persona su tre, e un valore minimo registrato in Sardegna (9,7%), una persona su dieci.
 
Inoltre si vede come si è passati da una letalità (percentuale di vittime sul totale dei casi) del 15% (circa un paziente COVID-19 su 7) nella prima ondata pandemica; a una, riscontrata tra ottobre e novembre 2020, più bassa che si assestava intorno al 3%. Dall’inizio di gennaio 2022 si assiste ad un’ulteriore diminuzione nei valori di letalità grezza apparente, che la porta poco sopra l’1%.
 
Quanto alla mortalità (percentuale di deceduti sul totale della popolazione), era di 4,83 per 100 mila abitanti nella prima ondata, contro una mortalità di 1,29 per 100.000 nell’ultima.
 
Mentre nella prima ondata, un paziente su due veniva gestito in ospedale (45% a livello nazionale), per le ondate successive, tutte le Regioni hanno notevolmente ridotto la quota dei pazienti ospedalizzati, optando per un modello di gestione prevalentemente territoriale (integrato dall’ospedale). Per la quarta ondata, la quota degli ospedalizzati nei casi (peraltro molto più numerosi rispetto a tutte le ondate precedenti) si è attestata poco sopra il 2,5%. Infatti, mentre nella prima ondata la quota degli isolati a domicilio si muove circa tra il 35-85% dei casi, dalla fine della prima ondata in poi la quota degli isolati a domicilio si assesta intorno al 95% dei casi.
 
“La nostra serie settimanale - che aveva già visto una Edizione Speciale dell’Instant Report a fine anno 2020 in prossimità dell’avvio della campagna vaccinale - viene presentata in forma diversa rispetto agli 85 report precedenti, afferma il professor Americo Cicchetti, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi sanitari dell’Università Cattolica (ALTEMS). Il presente Report è stato strutturato per fornire una sintesi di quanto accaduto negli ultimi 24 mesi fornendo una lettura complessiva degli eventi e delle modalità di risposta adottate dalle Regioni, continua Cicchetti, e beneficia delle analisi effettuate negli ultimi due anni dal gruppo di lavoro grazie a tre diversi set di indicatori che corrispondono al sistema di analisi applicato alle quattro ondate dell’epidemia”.
 
Quadro epidemiologico
L’andamento dei contagi è stato monitorato soprattutto calcolando l’incidenza e la prevalenza dei casi grazie ai dati pubblicati quotidianamente dalla Protezione Civile. Per riepilogare gli andamenti generali dei valori registrati – che hanno subito delle fisiologiche oscillazioni legate essenzialmente al flusso dei dati – il calcolo è stato raffinato tramite una media mobile.
 
Dai dati disponibili, si può ricostruire l’andamento della prevalenza puntuale del contagio in Italia, identificando le diverse ondate epidemiche che si sono succedute a livello nazionale, con i relativi picchi.
• Prima ondata: dal 27 febbraio al 28 giugno 2020
 
• Seconda ondata: 1° ottobre 2020 – 5 luglio 2021
- 1° ottobre 2020 – 2 febbraio 2021: prima fase
- 26 febbraio – 5 luglio 2021: seconda fase

 
• Terza ondata: 14 luglio – 11 ottobre 2021
 
• Quarta ondata: dal 23 ottobre 2021 (in corso).
 
La prima ondata ha avuto una ampiezza e una durata inferiore rispetto alle altre, pur essendosi trattato dell’ondata che ha portato l’Italia in lockdown e che ha maggiormente stressato i servizi sanitari. Tra l’autunno del 2020 e la primavera del 2021 si è avuta una grande e lunga ondata con due picchi, mentre a partire dagli ultimi mesi del 2021 si sta assistendo ad un’ondata imponente, che ha raggiunto valori di prevalenza del contagio mai verificatisi in precedenza in Italia.
 
Analizzando i valori della prevalenza periodale, si può vedere in che misura il COVID-19 ha raggiunto la popolazione italiana dall’inizio dell’epidemia ad oggi: in totale, indicativamente una persona su cinque (20,05%) in Italia è stata contagiata (il dato non tiene conto delle reinfezioni), con un valore massimo registrato dalla PA di Bolzano (33,9%), una persona su tre, e un valore minimo registrato in Sardegna (9,7%), una persona su dieci.
 
Le diverse ondate hanno visto incidenze di nuovi casi molto differenti, sia sul piano nazionale che nelle singole Regioni. In generale, a conferma di quanto già visto per l’andamento della prevalenza puntuale, l’ultima ondata è stata quella con la maggiore incidenza di nuovi casi, seguita dalla seconda ondata (nelle sue due fasi). Si può notare come la prima ondata abbia avuto un’incidenza maggiore nelle Regioni del Nord rispetto alle Regioni del Sud. A livello nazionale, il valore dell’incidenza nelle quattro ondate ha segnato: nella prima ondata 36,25 nuovi casi ogni 100.000 ab., nella seconda ondata 222,48 nuovi casi ogni 100.000 ab. nella prima fase e 220,46 nuovi casi ogni 100.000 ab. nella seconda fase; nella terza ondata 57,13 nuovi casi ogni 100.000 ab. e nella quarta ondata 565,10 nuovi casi ogni 100.000 ab.
 
Riguardo ai valori di mortalità nelle diverse ondate nelle Regioni italiane, si può osservare come le prime ondate siano state quelle più drammatiche per il numero di deceduti con diagnosi di COVID-19: in particolare, la prima ondata ha fatto registrare valori di mortalità particolarmente alti in tutto il gruppo delle Regioni del Nord maggiormente investite dall’epidemia. In seguito, pur essendo aumentato consistentemente il numero di casi a livello nazionale, la mortalità è rimasta relativamente contenuta: questo è particolarmente evidente per la quarta ondata, che pur registrando i massimi valori di incidenza in tutte le Regioni, non vede valori di mortalità conseguentemente alti.
 
Dall’inizio dell’epidemia, sono deceduti in Italia circa 2,5 persone ogni 1.000 abitanti; nelle differenze Regionali si può sommariamente seguire un gradiente nord-sud nei valori di mortalità, con la Valle d’Aosta che segna il valore massimo a 4,1 persone ogni 1.000 abitanti e la Calabria con 1,1 persone ogni 1.00 abitanti.
 
La maggiore parte dei decessi per Covid (circa il 65%) è avvenuta nel primo anno di pandemia e soprattutto nelle Regioni del Nord, in coerenza con le dinamiche epidemiche già esaminate.
 
Nel secondo anno di pandemia (dati su circa 51 settimane), si può vedere come i valori di mortalità si modifichino nel progressivo processo di “mimesi” tra le diverse Regioni; il gradiente Nord-Sud diventa peraltro molto meno evidente, con numerose regioni del Nord al di sotto del valore medio nazionale.
 
L’andamento dei valori della letalità grezza apparente del COVID-19 mostra un andamento peculiare: nel primo periodo dell’epidemia, corrispondente alla prima ondata, quando anche i protocolli ed i processi di gestione dell’emergenza erano in divenire e il sistema sanitario si è trovato a fronteggiare una crisi inattesa, la letalità della malattia è arrivata a sfiorare il 15% (circa un paziente COVID-19 su 7 andava incontro all’esito); questi valori, particolarmente alti, si mantengono fino all’autunno del 2020, sostenuti dall’onda lunga della prima ondata.
 
Tra ottobre e novembre 2020, la letalità grezza apparente della malattia si abbatte fino ad assestarsi intorno al 3% (per quasi tutto il 2021); i fattori principali a cui questo crollo può essere imputato sono in primis una più efficace ricerca dei casi (individuando più spesso casi asintomatici o paucisintomatici rispetto alla prima ondata) e il perfezionamento dei modelli di gestione clinico-organizzativa; a questi due fattori si aggiunge, da un certo punto del 2021 in poi, l’efficacia della campagna vaccinale. Dall’inizio di gennaio 2022 si assiste ad un ulteriore diminuzione nei valori di letalità grezza apparente, che la porta poco sopra l’1%. A questa ulteriore diminuzione contribuiscono tutti i fattori già citati, ai quali auspicabilmente aggiungere l’emergere di varianti meno aggressive.
 
Anche la letalità grezza apparente ha visto importanti differenze a livello regionale: ormai attestata all’1,2% su base nazionale, si può notare come, dai dati disponibili, la letalità grezza apparente vede alcune Regioni con valori sensibilmente più alti di altre (Lombardia 1,7% segnando il valore massimo e la PA di Bolzano con la Campania a 0,8% segnando il valore minimo): questo si può imputare soprattutto ad una ricerca inefficace dei casi e a modelli di gestione clinico-organizzativa non ancora perfezionati (sia sul piano della preparedness che su quello della responsiveness).
 
Risposta organizzativa a livello nazionale e regionale
 
La rete ospedaliera
Durante la prima fase dell’emergenza, le Regioni si sono trovate di fronte alla necessità di ridisegnare la propria rete ospedaliera per fronteggiare adeguatamente l’emergenza sanitaria. La nostra analisi, già pubblicate, hanno rilevato che durante la prima fase dell’epidemia la maggior parte delle regioni aveva adottato provvedimenti di riorganizzazione della rete ospedaliera.
 
A valle del DL 34/2020, poi, le Regioni hanno progressivamente definito e inviato al Ministero della Salute il piano di riorganizzazione della rete ospedaliera (Cicchetti A., Di Brino E., 2020). La nostra analisi aveva consentito di identificare i diversi approcci introdotti dalle Regioni nella riprogettazione della rete ospedaliera, ed in particolare nella riorganizzazione della rete delle terapie intensive, come previsto dall’ articolo 2 del decreto 34 del 19 maggio 2020.
 
In particolare, avevamo rilevato che la maggior parte delle Regioni (12) aveva optato per il modello hub and spoke. Uniche eccezioni: la Toscana, il Piemonte e la Valle d’Aosta. La prima di queste tre Regioni, aveva optato per un modello a rete, prevedendo una quota di posti letto dedicati nelle strutture ospedaliera ma senza identificare ospedali dedicati. Quest’ultima soluzione è stata, invece, prevista dal Piemonte e dalla Valle d’Aosta, anche se in questo caso, la scelta del modello è dovuta alla presenza di un unico presidio ospedaliero.
 
Le scelte di programmazione delle Regioni fatte alla luce del DL34 risultano particolarmente interessanti se confrontate con le scelte operate in fase di picco dell’emergenza. Come rilevato nelle nostre analisi, abbiamo assistito ad un progressivo abbandono del modello dei Covid hospital, largamente diffuso durante i primi mesi dell’emergenza, in favore del modello hub and spoke.
Tuttavia, questi due anni di pandemia hanno spinto le governance regionali a intervenire ulteriormente sui propri sistemi sanitari.
 
Ricoverati/casi (%)
Analizzando la quota dei pazienti ospedalizzati (in %) all’interno dei casi positivi, con le dovute approssimazioni, si può sostenere che, in media, circa il 45% dei pazienti della prima ondata è stato ospedalizzato. Il valore massimo è stato raggiunto in Lombardia, con circa il 55% dei pazienti ospedalizzati nella prima ondata, secondo un modello di gestione dell’emergenza prevalentemente ospedaliero, all’opposto di un modello di gestione prevalentemente territoriale: in quest’ultimo (rappresentato soprattutto dalla Regione Veneto) l’organizzazione dei sistemi sanitari non solo consente di cercare efficacemente anche i casi asintomatici e paucisintomatici e di bloccare così le catene di trasmissione, ma anche di gestire i casi a domicilio, ove possibile, sfruttando le strutture e le funzioni già collaudate per l’assistenza territoriale in epoca ante-COVID-19 (Specchia et al., 2021).
 
Casi per setting assistenziale
Mentre nella prima ondata, 1 paziente su 2 veniva gestito in ospedale (45% a livello nazionale), per le ondate successive, tutte le Regioni hanno notevolmente ridotto la quota dei pazienti ospedalizzati, optando per un modello di gestione prevalentemente territoriale (integrato dall’ospedale). Per la quarta ondata, la quota degli ospedalizzati nei casi (peraltro molto più numerosi rispetto a tutte le ondate precedenti) si è attestata poco sopra il 2,5%. Infatti, mentre nella prima ondata la quota degli isolati a domicilio si muove circa tra il 35-85% dei casi, dalla fine della prima ondata in poi la quota degli isolati a domicilio si assesta intorno al 95% dei casi.
 
Posti letto in Area Critica (Terapia intensiva)
Analizzando l’incremento percentuale dei posti letto in terapia intensiva tra il 2020 e il 2022, in media, in questi due anni di pandemia le Regioni hanno aumentato la dotazione di posti letto di terapia intensiva del 78%. Tuttavia, si rileva una certa variabilità regionale: la Regione che ha sostenuto il maggior incremento percentuale è la Valle d’Aosta con il 230% di incremento, seguita dalla Provincia Autonoma di Bolzano con un incremento del 181% e dalla Provincia Autonoma di Trento con un incremento del 170%. Al contrario, Liguria (+22%) e Umbria (+23) sono quelle Regioni che hanno registrato l’incremento minore.
 
Tuttavia, è interessante notare come le Regioni abbiano adottato strategie diverse per incrementare i propri posti letto di terapia intensiva. Alcune Regioni hanno fin da subito provveduto ad aumentarne la dotazione: è il caso del Veneto, del Piemonte, della P.A. di Trento, del Lazio e del Friuli-Venezia Giulia. In Umbria, Basilicata e Abruzzo l’incremento di posti letto di terapia registrato nel primo anno è stato seguito da un decremento nel secondo anno. Le altre Regioni italiane, invece, rivelano un incremento continuo nei due anni di covid-19. Possiamo però notare due approcci diversi: se nella maggior parte delle Regioni l’incremento maggiore si rileva per il primo anno di pandemia, in Calabria e Molise l’incremento maggiore nella dotazione dei posti letto di terapia intensiva è ascrivibile al secondo anno di pandemia.
 
Rapporto posti per 1.000 abitanti e standard da DL 34
Prima della pandemia, infatti, il rapporto tra posti letto di terapia intensiva e mille abitanti variava enormemente tra le Regioni italiane. Se la Liguria poteva contare su 0,12 posti letto di terapia intensiva, in Campania il suddetto rapporto si fermava allo 0,06. Tale condizione di partenza potrebbe aver influenzato il tempo che le Regioni stesse hanno impiegato per raggiungere lo standard di 0,14 posti letto di terapia intensiva ogni 1.000 abitanti imposto dal DL 34 del 19 maggio 2020. Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Valle d’Aosta e Veneto sono state le regioni che più velocemente hanno raggiunto il target previsto, incrementato la propria dotazione di posti letto in 148 giorni, mentre la Campania ha impiegato 360 giorni per rinforzare le proprie terapie intensive. Si segnala che Calabria, Molise e Sardegna non hanno ancora raggiunto il target previsto. A livello nazionale si partiva con una dotazione media di posti letto di terapia intensiva pari a 0,09 per 1.000 abitanti e lo standard del DL34 è stato raggiunto in 226 giorni.
 
Posti letto in Area Medica
È stato calcolato l’incremento percentuale di posti letto in area non critica tra il 2020 e il 2022. Il valore di riferimento 2020 è costituito dalla somma dei posti letto di malattie infettive, pneumologia e medicina interna a disposizione delle regioni prima della pandemia. L’incremento percentuale maggiore si registra in Emilia- Romagna (+147%) e Piemonte (+116%), seguite dal Veneto con il 93% e dal Lazio con l’87%. Al contrario l’incremento di dotazione di posti letto di area non critica sembra essere modesto in Friuli-Venezia Giulia (+7%), Umbria (+4%) e Marche (+0,4).
 
Analogamente a quanto osservato per i posti letto di terapia intensiva, possiamo apprezzare diverse strategie introdotte dalle Regioni in relazione alla propria disponibilità di posti letto per pazienti no-covid in Area Medica (non critica). Veneto, Lazio e Toscana hanno concentrato l’aumento di posti letto di Area Medica nel primo anno della pandemia. Per altre Regioni è, invece, possibile notare come l’incremento di posti letto sia stato spalmato tra i due anni di pandemia: è il caso dell’Emilia-Romagna, Provincia Autonoma di Bolzano e Calabria. Infine, una quota importante di Regioni ha implementato una quota rilevante di posti letto di area non critica nel primo anno, procedendo poi ad un altrettanto consistente riduzione nel secondo anno della pandemia.
 
Tassi di saturazione in Terapia Intensiva e Area non Critica registrati nei picchi delle quattro ondate
È stato analizzato il tasso di saturazione delle terapie intensive e dei posti letto di area per pazienti Covid-19 durante i picchi delle quattro ondate. Al picco della prima ondata in 6 Regioni italiane si registrava un tasso di saturazione delle terapie intensive superiore alla media (21,32%). Si tratta prevalentemente di Regioni del centro-nord: Lombardia, Provincia Autonoma di Trento, Emilia – Romagna, Provincia Autonoma di Bolzano, Piemonte e Marche.
 
Al primo picco della seconda ondata, il tasso di saturazione delle terapie intensive registrato è stato poco più del doppio della prima (43,45%). I valori più alti si sono registrati in Lombardia e Piemonte, con quasi 2/3 dei posti occupati, mentre – all’opposto – il 24,44% dei posti letto di terapia intensiva era occupato in Basilicata. Invece, circa il 50% dei posti letto di Area non critica era occupato al picco della seconda ondata con il valore massimo del 95,88% della PA di Bolzano.
 
Durante il secondo picco della seconda ondata, il valore medio di occupazione delle terapie intensive nel nostro paese era leggermente inferiore: 40,89%. I valori più alti si sono registrati in Lombardia (61,44%) e nelle Marche (60,40) mentre il tasso di saturazione delle terapie più basso spetta nuovamente alla Basilicata (13,64%). Per quanto attiene ai posti letto di area non critica, il tasso di occupazione medio registrato è stato del 43,80% e massimo in Piemonte (65,88) e minimo in Valle d’Aosta (16,74). La terza ondata ha numeri assolutamente modesti se comparati con le precedenti due, riportati comunque nella tabella.
 
Infine, i dati rivelano che al picco della quarta ondata, la saturazione media dei letti di terapia intensiva si attestava al 17,44% mentre quella dei posti letto di area non critica al 30,40%. Anche in questa ondata, i tassi mostrano una decisa variabilità regionale. Se nella provincia autonoma di Trento i posti di terapia intensiva e rianimazione occupati erano poco meno del 27% in Molise soltanto il 5% risultava occupata da pazienti Covid. Per quanto concerne invece l’area non critica il valore minimo si è registrato sempre in Molise (10,80%) mentre quello massimo in Valle d’Aosta (56.64%).
 
Personale sanitario
Durante la pandemia da Covid-19 le Regioni hanno avuto, grazie a strumenti normativi ad hoc, la possibilità di incrementare la propria dotazione di personale. L’analisi del nostro gruppo di ricerca ha evidenziato che in questi 2 anni di pandemia sono stati messi a disposizione complessivamente 13.489 posti per personale medico a tempo determinato, indeterminato e contratti libero professionali. Tale valore rappresenta un aumento teorico del 13% del personale medico delle strutture pubbliche rispetto all’ultimo dato pre-pandemia (2018). Emerge una forte eterogeneità nei comportamenti, con Regioni più attive nelle prime fasi della pandemia e Regioni, invece, più attive nella seconda fase.
 
Incremento personale sanitario con specializzazione covid-19
Durante la prima ondata la quasi totalità delle regioni che hanno avuto un incremento maggiore di personale, ha anche acquisito più del 50% personale medico con specializzazioni legate al covid-19. Al contrario la Lombardia, il Molise, la Provincia Autonoma di Trento e l’Umbria hanno acquisito maggiormente personale con altre specializzazioni. Durante la seconda ondata l’Umbria è la regione che ha acquisto personale medico con specializzazioni covid-19 per la percentuale maggiore pari al 90% rispetto al totale di personale medico acquisto. Al contrario la Provincia autonoma di Bolzano ha acquisito personale medico covid-19 solo per l’11%, seguita dalla Sicilia con il 23%. I dati sulla terza ondata mostrano che il Lazio è la regione che registra la percentuale maggiore di personale covid-19 pari al 94%. Al contrario il Friuli-Venezia Giulia ha acquisto solo per il 7% di personale covid-19. Dall’inizio della quarta ondata ad oggi l’Umbria registra la minor percentuale (3%) di personale medico covid-19 acquisito. Al contrario Veneto e Molise riscontrano la percentuale maggiore di personale covid-19 acquisto pare rispettivamente a 78% e 71%.
 
Incremento personale sanitario con specializzazione NO covid-19
Nella prima ondata la Provincia autonoma di Trento ha acquisito personale medico con specializzazioni esclusivamente no covid-19, al contrario dell’Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia che ne acquisiscono esclusivamente per il 12% e per il 15%. Tra luglio e settembre la Valle d’Aosta ha acquisito per il 100% personale con specializzazioni non legate al coronavirus seguita dalla Sicilia con il 94%. Durante la seconda ondata l’Umbria è stata la regione che ha acquisito con la percentuale minore personale no covid-19. Durante la terza ondata, invece, il Friuli-Venezia Giulia seguita dal Veneto ha acquisito per quasi la totalità di unità personale con specializzazioni no covid-19, al contrario il Lazio esclusivamente per il 6%. Ad oggi dall’inizio della quarta ondata l’Umbria, la Provincia Autonoma di Bolzano e l’Abruzzo hanno le percentuali maggiori di personale con specializzazioni no covid-19.
 
Anestesisti e rianimatori su Posti letto di terapia intensiva
È stato monitorato il rapporto tra il numero di anestesisti e rianimatori sui posti letto di terapia intensiva durante i picchi delle relative ondate. A livello nazionale, il valore di questo rapporto nelle quattro ondate è stato il seguente: 1,59 nella prima, 1,63 nella seconda, 1,68 nella terza e 1,59 nella quarta.
 
Regioni del Nord
I dati del picco relativo alla prima ondata mostrano che il Friuli-Venezia Giulia è la Regione con il valore più alto 1.71, al contrario la Valle d’Aosta risulta la regione con il valore più basso 1.06. I dati relativi ai picchi successi mostrano che il valore dell’indicatore in Friuli-Venezia Giulia e Liguria supera le 2 unità di anestesisti e rianimatori per posto letto di terapia intensiva. I valori più bassi sono registrati in Veneto, Valle d’Aosta, ed Emilia-Romagna e le due province autonome.
 
Regioni del Centro
Durante il picco della prima ondata il Lazio e l’Umbria sono le Regioni con il valore dell’indicatore più alto tra le Regioni del centro pari a 1.80. al contrario il valore più basso è registrato nelle Marche (1.30). Durante il primo picco della seconda ondata l’Umbria è la regione con il valore più elevato (1.70) seguita dal Lazio (1.62), il valore più basso è registrato in Toscana. I dati del secondo picco della seconda ondata mostrano che il Lazio è la regione con il valore più elevato al contrario il valore più basso si è registrato nelle Marche. Durante il picco della terza e della quarta ondata l’Umbria è la regione con il valore più alto superando le 2 unità di anestesisti e rianimatori per posto letto di terapia intensiva. Il valore più basso per entrambi i picchi si registra nelle Marche.
 
Regioni del Sud e Isole
Durante il picco della prima ondata tra le Regioni del sud il valore più alto si è registrato in Campania (2.10) superando le due unità di personale per posto letto. Il valore più basso, invece, si è registrato in puglia (1.59). Durante il primo e il secondo picco della seconda ondata e il picco della terza ondata sono tre le Regioni del sud a superare le 2 unità di anestesisti e rianimatori per posto letto, la Calabria, il Molise e la Campania. Il valore più basso si è registrato in Basilicata con 1.37 durante il primo picco e 1.29 durante il secondo e 1.58 durante il picco della terza ondata. I valori del picco della quarta ondata mostrano che solamente il Molise supera le 2 unità di personale, al contrario il valore più basso è rilevato in Campania con 1.58.
I valori per la Sardegna durante tutti i picchi registrati, superano le due unità di personale. La Sicilia al contrario registra i valori più bassi durante i picchi della seconda ondata ed il picco della quarta ondata rispettivamente con valori di 1.46 e 1.44.
 
Bandi Medici Vaccinatori per la campagna vaccinale anti Covid-19
È stato analizzato il numero di bandi regionali per personale medico da destinare all’attività di vaccinazione. Tale dato, certamente da confrontare con i dati sul personale per vaccinazioni messo a disposizione dalla Protezione Civile, mostrano che diverse Regioni si sono mosse per proprio conto, al fine – molto probabilmente – di implementare ulteriormente il personale per accelerare la campagna di vaccinazione. Al 10 febbraio 2022 la Lombardia è la regione che ha emesso il maggior numero di bandi per medici vaccinatori (35) seguita dal Piemonte con 28 bandi, dal Lazio con 13 bandi ed Emilia-Romagna con 12 bandi. Al contrario sono quattro le Regioni a non aver ancora emesso alcun bando per le attività vaccinali (Basilicata, Molise, Toscana e Veneto).
 
Telemedicina
Già dal marzo 2020 si è assistito ad un continuo incremento delle soluzioni implementate autonomamente dalle aziende, insieme a delibere regionali indipendenti tese a formalizzare le modalità di erogazione delle prestazioni in telemedicina, fino a giungere, il 17 dicembre 2020 alle “Indicazioni Nazionali sull’erogazione delle prestazioni in telemedicina” (Conferenza Stato-Regioni 17 dicembre 2020) che definiscono il quadro di riferimento nazionale secondo il quale organizzare, erogare e rendicontare le prestazioni effettuate.
 
In questa ottica, ALTEMS ha condotto una survey sulle soluzioni esistenti e sulla rilevanza della telemedicina per le aziende sanitarie, a cui hanno partecipato 128 aziende, distribuite in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale e rappresentative di circa 327 presidi ospedalieri, che hanno descritto, sotto le diverse prospettive, 284 soluzioni. Comprensibilmente, visto il periodo emergenziale, l’interazione con il paziente (televisita, telemonitoraggio, teleassistenza) ha costituito fino adesso il principale ambito di applicazione.
 
Relativamente al contesto del sistema informativo delle aziende, nel quale le soluzioni di telemedicina devono essere integrate per consentire la continuità dei processi clinico-organizzativi emerge che:
- nel sistema informativo complessivo di oltre la metà delle aziende viene gestito in forma digitale meno del 50% dei dati dei pazienti; questo rende ovviamente complesso il processo di digitalizzazione nel suo insieme, all’interno del quale la telemedicina dovrebbe integrarsi;
 
- in oltre il 60% dei casi i sistemi informatici di telemedicina realizzati (incluse le piattaforme regionali) sono separati e non collegati con le cartelle cliniche già esistenti aziendali, con la conseguente ulteriore frammentazione dei dati e del processo di cura fra diversi contesti, ed i conseguenti rischi. (nonostante, come evidenziato in precedenza, la frammentazione dei dati sia considerata la maggiore criticità);
 
- anche per quanto riguarda la continuità del processo organizzativo, l’interazione con gli altri sistemi aziendali è in solo poco più della metà dei casi, e scende al 15% rispetto ai sistemi regionali. Il collegamento con il Fascicolo sanitario è principalmente prerogativa dei sistemi regionali, per essere in massima parte limitato alla sola interrogazione visiva nel 32% dei casi.
 
Come è ovvio, la diversità delle patologie, dei percorsi e modelli assistenziali e delle tipologie di pazienti, determina esigenze differenti, sia dal punto di vista clinico che organizzativo. Questo si traduce nella impossibilità di una soluzione unica, ma nella presenza, all’interno della stessa azienda, di più soluzioni di telemedicina implementate con strumenti diversi.
 
Test diagnostici
La diagnostica ha rappresentato un fattore cruciale nell’emergenza Covid. Per diagnosticare un’infezione da SARS-CoV-2, sono a disposizione una serie di strumenti volti ad identificare il virus. Questi differiscono tra di loro in termini di affidabilità diagnostica, tempi e complessità di esecuzione, ma presentano caratteristiche complementari ai fini del loro impiego in sanità pubblica.
 
I test RT-PCR (Real Time-PCR, successivamente “test molecolari”) eseguiti su tampone oro-naso-faringeo sono il gold standard per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2.
Nella prima fase della pandemia, oltre ai test molecolari, sono stati utilizzati test sierologici come strumento di screening su popolazioni a rischio (tra cui forze dell’ordine, operatori sanitari e comunità chiuse come RSA e carceri).
 
I Test Diagnostici Antigenici Rapidi (successivamente “test antigenici”), introdotti in seguito, forniscono una risposta qualitativa (sì/no) in tempi molto rapidi (30 minuti), senza necessità di apparecchiature laboratoristiche, permettendo un’esecuzione al punto di assistenza. I test antigenici hanno una sensibilità inferiore rispetto ai test molecolari (29-93,9%, maggiore se utilizzati su soggetti sintomatici e su campioni con elevata carica virale), a fronte di una buona specificità (80,2-100%). Per questo motivo, i test molecolari rimangono il gold standard per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, ma la semplicità d’uso e la distribuzione capillare dei test antigenici permettono la pianificazione di un’attività di sorveglianza con ripetizione del test, garantendo la possibilità di rilevare quanti più soggetti positivi nella reale finestra di contagiosità.
I test salivari (ovvero i test antigenici o molecolari effettuati su un campione di saliva) si sono affermati nel corso del tempo come una valida alternativa ai test antigenici effettuati su campione nasofaringeo.
 
Le varianti del virus
Per stabilire una mappatura della diffusione delle varianti di SARS-CoV-2 in Italia, sono state realizzate delle indagini coordinate dall’Istituto Superiore di Sanità. Il procedimento di queste indagini prevedeva un’analisi a campione sui casi di infezione da virus SARS-CoV-2 confermata con RT-PCR, con sequenziamento genomico e successiva elaborazione di una stima di prevalenza delle varie varianti. Nell’arco del tempo, le varianti di SARS-CoV-2 si sono diffuse sul territorio nazionale con velocità diversa.
 
Nello specifico:
- La variante Alpha, che era la variante più diffusa nell’indagine del 18 febbraio 2021 con una prevalenza del 54%, ha raggiunto la sua massima diffusione nell’indagine del 20 aprile 2021, con una prevalenza del 91,6%. In seguito, la sua prevalenza è andata gradualmente diminuendo, fino a non essere più identificata a partire dall’indagine del 6 dicembre 2021;
 
- La variante Beta ha avuto una diffusione marginale sul territorio nazionale: il suo valore maggiore di prevalenza è stato nell’indagine del 18 febbraio 2021 con lo 0,4%, fino a non essere più rilevata a partire dal 20 luglio 2021;
 
- La variante Gamma ha raggiunto la sua massima prevalenza dell’11,8% nell’indagine del 22 giugno 2021 dopo una lenta ma costante crescita, ma non è più stata identificata a partire dall’indagine del 24 agosto 2021;
 
- La variante Delta presentava un singolo caso nell’indagine del 20 aprile 2021 e nell’analisi dell’11 giugno 2021 veniva indicato come fossero presenti “rari casi ma in aumento” con una prevalenza < 1%; successivamente è stata di gran lunga la variante dominante fino al 6 dicembre 2021, mentre nell’ultima indagine del 17 gennaio la sua prevalenza stimata è del 4,2%;
 
- La variante Omicron, al momento oggetto di grandi attenzioni per le sue caratteristiche di contagiosità e virulenza, veniva identificata per la prima volta nell’indagine del 6 dicembre 2021, mostrando una rapida diffusione fino a diventare prevalente nell’indagine del 3 gennaio 2022 con una prevalenza dell’80,75%, fino a rappresentare la variante dominante nell’indagine del 17 gennaio 2022 con una prevalenza stimata del 95,8%. Nell’indagine del 31/01/2022, rappresentava la pressoché totalità dei casi testati (99,1%).
 
Campagna vaccinale anti covid-19
Il 27 dicembre 2020 è iniziata in Italia la campagna vaccinale anti-COVID-19; con una latenza di circa 20 giorni (dovuta alla schedula del ciclo vaccinale) inizia anche la somministrazione delle seconde dosi, che segue a distanza l’andamento della somministrazione delle prime dosi. Dopo uno stallo alla fine di gennaio, la somministrazione dei vaccini cresce fino all’estate del 2021, arrivando a dei picchi nei mesi di giugno e luglio 2021 e aggiungendo poi a settembre la somministrazione delle terze dosi.
 
Considerando la soglia delle 500.000 somministrazioni/die, notiamo come dall’inizio della campagna vaccinale ci sono state due ondate: la prima da fine aprile 2021 a fine luglio 2021, la seconda più breve da inizio dicembre 2021 a fine gennaio 2022, quest’ultima più corta ma con picchi maggiori, ricordiamo lo sforamento delle 700.000 somministrazioni/die per ben 4 volte.
 
Allo stato attuale, la copertura sulla prima dose riguarda oltre l’80% della popolazione ed i valori relativi alla terza dose sono in rapida crescita.
Sono stati analizzati, inoltre, i principali punti di somministrazione (sono inclusi i punti di somministrazione ospedalieri e territoriali; non sono inclusi i punti di somministrazione temporanei; non sono definiti i punti relativi alla PA di Trento) differenziandoli in due: punti ospedalieri e punti territoriali.
 
Analizzando i punti di somministrazione ospedalieri attivati, la Regione Toscana è quella che ne ha di più (185) rispetto a Valle d’Aosta che ne ha 0 oppure la Provincia Autonoma di Bolzano che ne ha 1, l’Emilia-Romagna ne ha 4. Esaminando i punti di somministrazione territoriali, invece, la Regione che ne ha avviati di più risulta essere la Puglia con 272, rispetto alla Calabria che ne ha attivati 0, così come il Molise e la Lombardia.
 
Impatto economico
 
L’evoluzione del finanziamento e della spesa (2020-2021) del SSN
In merito al primo aspetto, l’effetto finanziario della pandemia coincide con la variazione dei trasferimenti effettuati dallo Stato alle Regioni attraverso lo strumento del Fondo Sanitario Nazionale (ex D.lgs. n. 56/2000 e seguenti).
 
Questa analisi è possibile grazie all’analisi di due diverse fonti informative. La prima è il Rapporto di Monitoraggio sulla Spesa Sanitaria redatto dalla RGS-MEF e pubblicato annualmente. Al momento in cui scriviamo il rapporto è disponibile per l’anno 2020 ma è ancora in fase di elaborazione per l’anno 2021. Al fine di comprendere il potenziale impatto della pandemia nei due anni (2020 e 2021) utilizzeremo i dati prodotti dall’ISTAT per la stima della spesa per il 2021 e l’impostazione del Fondo sanitario per il 2021 a cura del MEF (NADEF 2021).
 
Emerge un balzo della spesa (+11,5% in due anni, pari a +11,5 miliardi) superiore alla crescita prevista per il finanziamento (+7,4%). Questo implica una spesa pro-capite in crescita del 12,4%, che porta ad una crescita da 1934 € nel 2019 ai 2.070 € nell’anno 2020 fino a 2.177€ nel 2021 (stima). Alla luce della dinamica del PIL nei due anni l’impegno dell’economia italiana per finanzi9are la spesa sanitari passa dal 6,4% del 2019 al 7,5% del 2021.
Questi dati fanno emergere che l’impegno previsto dal Governo per gestire la pandemia nel 2020 e nel 2021 – soprattutto – non ha portato ad impostare risorse sufficienti per gestire la situazione pandemica dovendo quindi ricorrere a spese ulteriori rispetto al previsto.
 
Spese direttamente sostenute dal Governo per il mezzo della protezione civile nazionale e del Commissario all’emergenza covid-19
Negli anni 2020 e 2021, il Servizio sanitario nazionale è stato sostenuto grazie a finanziamenti straordinari provenienti da diversi provvedimenti che hanno riguardato fondamentalmente 5 ambiti:
- le dotazioni di personale delle strutture, con riferimento al reclutamento di medici, infermieri, assistenti sociali e la loro incentivazione;
 
- la disponibilità di strutture di ricovero in termini di posti letto di terapia intensiva e semi intensiva;
 
- il rafforzamento delle strutture territoriali e l’implementazione di nuove forme organizzative (vedi le USCA, Unità Speciali di continuità assistenziale) e il potenziamento delle prestazioni acquisite in convenzione con medici di famiglia, pediatri di libera scelta, specialisti ambulatoriali (Sumai), strutture private accreditate;
 
- interventi per il recupero rapido di attività assistenziali sospese o rallentate durante il periodo di lock down (anche attraverso l’estensione della convenzione con specialisti ambulatoriali (Sumai);
 
- il piano nazionale per la vaccinazione anti-Covid 19.
 
A queste cifre certamente vanno aggiunte le spese effettuate direttamente dalla protezione civile nazionale e dalla struttura del Commissario per l’emergenza Covid-19 prima e dopo il 1° marzo 2021, che ha segnato l’avvicendamento tra Domenico Arcuri e il Generale Figliuolo.
 
In totale al 21 febbraio 2022 le spese complessive sono ammontate a €4.360.967.532 articolate nelle categorie qui descritte:
- DPI (mascherine, camici, guanti, ecc.): vale circa il 90% della spesa per un valore di circa 3,9 miliardi;
- Anticorpi monoclonali: vale il 2% della spesa per un valore poco superiore ai € 90 milioni;
- Fiale Remdesivir: vale il 2% della spesa per un valore di circa € 90 milioni;
- Materiale sanitario (gel, siringhe, ecc): vale il 2% della spesa per un valore poco superiore ai € 100 milioni;
- Tamponi: vale circa il 2% della spesa per un valore di circa € 80 milioni;
- Dispositivi medici (es. termometro, ventilatori, monitor, ecc.): vale il 2% della spesa per un valore di circa € 100 milioni;
- Altro (es. software, voli aerei, ecc.): vale il 2% della spesa per un valore di circa €80 milioni;
 
Al 21 febbraio, sono stati stimati come costi di acquisto dei vaccini (i costi di acquisto sono sottostimati in quanto i contratti siglati da UE dovrebbero prevedere un aumento dei costi di acquisto) €3.153.577.839,26 per 133.199.430 somministrazioni di dosi vaccinali così divisi:
- Pfizer: € 2.082.183.000,00, pari a circa il 65% dei vaccini somministrati;
- Moderna: € 1.017.025.258,56, pari a circa il 25% dei vaccini somministrati;
- Astrazeneca: € 43.325.748,24, pari a circa il 9% dei vaccini somministrati;
- J&J: € 11.043.832,46, pari a circa il 1% dei vaccini somministrati;
 
L’effetto economico derivante dalla sospensione di molte attività di diagnosi e cura nel periodo del lock down
Partendo dai dati del Ministero della Salute 2018 relativi al totale dei ricoveri programmati annui, era stato calcolato il numero medio di ricoveri mensile. Per valorizzare i ricoveri non-COVID «persi» (n= 860,749) durante i 4 mesi dall’inizio dell’emergenza (Marzo-Giugno 2020), considerando il DRG medio (2018) pari a € 3.866,56, si giungeva a stimare un valore per la «perdita» di ricoveri superiore a € 3,3 miliardi.
 
Ora, grazie a dati messi a disposizione dall’AGENAS in merito ai ricoveri Marzo-Giugno 2019 vs. Marzo-Giugno 2020 e ai dati SDO 2019, per quanto riguarda il DRG medio, le stime sono stati aggiornate e dettagliate a livello regionale. In totale, nel periodo Marzo-Giugno 2020 è stato effettuato oltre 1.1 milione in meno di ricoveri rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
 
Con i dati ad oggi disponibili (Aprile 2021), si giunge a stimare un valore (perdita) complessivo dovuto ai minori ricoveri (urgenti, ordinari programmati, DH) effettuati, nel periodo Marzo-Giugno 2020, pari a oltre € 3,5 miliardi. La «perdita» maggiore è legata ai ricoveri ordinari programmati (-€ 2 027 427 931, a seguito di -514 775 ricoveri). Sebbene la variazione % maggiore nei due periodi temporali si è osservata per i ricoveri in DH (-60.09%).
 
La «perdita» totale per ricoveri non effettuati nel periodo Marzo-Giugno, in valore assoluto, si riscontra per la regione Lombardia (-€ 632 238 568). Nel dettaglio, la «perdita» maggiori per i ricoveri urgenti risulta per la regione Campania e Puglia, mentre per i ricoveri ordinari programmati e in DH risulta confermata la maggiore perdita in Lombardia.
 
Extra spese derivanti dall’esitanza vaccinale durante l’anno 2021
Per avere un quadro ampio sull’impatto economico per il Servizio sanitario nazionale (Ssn) dell’emergenza COVID-19, si è elaborata una stima del costo indotto sulle spese del Ssn per via all’esitazione vaccinale. Il concetto di impatto economico viene indagato con riferimento ai volumi di ricoveri e alle giornate di terapia intensiva per COVID-19, correlate alle mancate vaccinazioni (doppia dose/dose unica e dose addizionale/booster), considerando un’efficacia del vaccino inferiore al 100%.
 
Sulla base quindi del numero di ospedalizzati evitabili se vaccinati con doppia dose/dose unica, possiamo stimare l’impatto economico sul servizio sanitario nazionale nel periodo tra il 4 agosto 2021 e il 09 febbraio 2022 delle mancate vaccinazioni.
 
Il totale dei costi delle ospedalizzazioni in Area Medica varia da un minimo di € 15.891.471 a un massimo di € 99.019.683, mentre il totale dei costi delle ospedalizzazioni in Area Critica (Terapia Intensiva) varia da un minimo di € 3.968.221 a un massimo di € 41.413.061. Il totale delle due spese di voci (Area Medica + Area Critica) va anch’esso da un minimo di € 19.859.692 ad un massimo di € 140.401.862.
 
Per fornire un quadro complessivo sulle vaccinazioni, si è voluto analizzare la campagna vaccinale in Italia andando ad elaborare anche una stima delle mancate vaccinazioni in Italia di terza dose.
 
Sulla base quindi del numero di ospedalizzati evitabili se vaccinati con dose addizionale/booster, possiamo stimare l’impatto economico sul servizio sanitario nazionale nel periodo tra il 17 novembre 2021 e il 09 febbraio 2022 delle mancate vaccinazioni.
 
Il totale dei costi delle ospedalizzazioni in Area Medica varia da un minimo di € 3.687.941 a un massimo di € 83.638.548, mentre Il totale dei costi delle ospedalizzazioni in Area Critica (Terapia Intensiva) varia da un minimo di € 413.904 a un massimo di € 15.550.210. Il totale delle due spese di voci (Area Medica + Area Critica) va anch’esso da un minimo di € 4.101.844 ad un massimo di € 99.188.758.
Considerando i 14 mesi della campagna vaccinale, si stimano costi legati alle ospedalizzazioni evitabili pari a poco più di 1 miliardo di euro.

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