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Lunedì 04 APRILE 2022
A proposito di Ospedale “flessibile”  

I tempi che stiamo vivendo richiedono di essere audaci e razionali: è necessario superare le barriere di categoria e uscire dall’isolamento per andare in spazi comuni, lavorare insieme, in multidisciplinarietà e multi professionalità, con il coinvolgimento dei cittadini/pazienti che dovranno essere responsabilizzati e consapevoli di essere al centro del processo di cura

La lettura, sul QS del 16 febbraio c.a., dell’articolo “Il Covid, il PNRR e l’ospedale “flessibilemi ha indotto ad alcune analisi e riflessioni aggiuntive sui temi di sanità pubblica da noi finora esaminati e approfonditi in un proficuo confronto finalizzato a individuare le numerose criticità, soprattutto organizzative, che affliggono il nostro sistema sanitario, tutte note agli addetti ai lavori e che la pandemia da Covid 19 ha reso tragicamente evidente all’intera collettività nazionale.
 
In siffatta occasione, oggi come ieri, si è voluto fronteggiare tale evento prevalentemente con un fiume di norme e di decreti e con affidamenti operativi di varia natura a soggetti spesso privi di comprovata esperienza.
 
Leggi e norme che si sono aggiunte a una copiosa produzione di linee di indirizzo, di piani sanitari, di atti spesso disattesi per problemi oggettivi (carenza di personale e tecnologica) ma anche per scarsa attenzione/resistenza alla riorganizzazione, insufficiente applicazione dei programmi nazionali e regionali di misurazione delle performances e degli esiti raggiungibili, con inapprezzabile ricaduta meritocratica a tutti i livelli dirigenziali.
 
I miglioramenti organizzativi attuati e le criticità risolte a livello locale, nella singola azienda piuttosto che a livello regionale (in poche regioni e sempre le stesse!) sono da attribuire soprattutto a capacità e volere delle singole direzioni strategiche, per cui tale gestione del sistema sanitario, non sempre virtuosa ed encomiabile, e relativamente coadiuvata da specifici supporti professionali da parte degli Enti preposti, non poteva non comportare la vasta disomogeneità che caratterizza il nostro SSN con i suoi 21 sistemi regionali.
 
Analisi organizzazione odierna
In Italia, la gran parte dei nostri attuali nosocomi risale agli anni 30 del ‘900, anni in cui gli ospedali furono costruiti a Padiglioni allo scopo di poter meglio limitare il diffondersi delle malattie infettive, all’epoca ancora preponderanti nei confronti delle malattie cronico degenerative.
 
Tale separazione logistico strutturale, se da una parte è servita a ostacolare il diffondersi delle malattie infettive, dall’altra ha contribuito ad accentuare la frammentazione, lo sviluppo a canne d’organo della Medicina, determinato dal contemporaneo progresso delle varie branche specialistiche e super specialistiche che man mano negli anni hanno caratterizzato l’evoluzione medico chirurgica.
Dunque, le attuali strutture ospedaliere a padiglioni possono risultare ancora oggi valide ai fini del contenimento infettivo, ma non lo sono altrettanto ai fini gestionali.
 
Negli anni, a tale gestione per specialità e super specialità, che ha comportato la perdita della visione olistica del paziente,si è tentato di porre rimedio con vari provvedimenti e strumenti di “Clinical governance”, correttivi in grado di agire sia a livello professionale che organizzativo.
 
Tra questi:
1. i PDTA (Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali) con i quali si è cercato di realizzare quella necessaria integrazione multi professionale e multidisciplinare, sia in ambito ospedaliero che Ospedale-Territorio, per consentire il passaggio dalla gestione per specialità alla gestione per processo di cura, al fine di ottenere i migliori esiti di salute possibili (Efficacia) sulla base delle conoscenze scientifiche esistenti (Linee Guida), favorendo l’utilizzo al meglio delle risorse disponibili (Efficienza).
 
La costruzione dei PDTA, tuttavia, presenta alcuni punti di debolezza:
a. è impegnativa in termini di tempo e di energie per i componenti del gruppo di lavoro;
b. la loro implementazione può trovare una certa resistenza alla eventuale necessità di cambiamenti organizzativi o di revisioni assistenziali consolidate;
c. è necessario un costante aggiornamento in funzione delle revisioni delle evidenze scientifiche individuate;
d. la definizione di indicatori in grado di monitorare l’applicazione e gli esiti dei PDTA e quindi la misurabilità dei risultati, non è ancora sufficientemente adottata;
e. il mancato adeguato sviluppo di idonei sistemi informativi può rappresentare una ulteriore rilevante criticità.  
 
2. Analogo obiettivo di integrazione tra più “setting” assistenziali e di coordinamento tra professionisti si è cercato di perseguire attraverso le RETI CLINICHE, tra cui: le Reti Oncologiche Regionali; le Reti tempo dipendenti per il Trauma, per l’Ictus e per l’IMA; le Reti a integrazione verticale “Hub e Spoke”.
 
Anche per le RETI CLINICHE, così come per i PDTA, gli obiettivi perseguiti sono quelli di: creare un più facile accesso alle cure; garantire la necessaria continuità assistenziale; migliorare l’efficienza delle risorse e la qualità professionale degli operatori. Il tutto attraverso una rete di poche strutture a elevata complessità assistenziale attorno alle quali si articolano strutture ospedaliere di minore complessità e presidi territoriali, tutti altrettanto necessari per migliorare i servizi offerti al cittadino.
 
Attraverso le reti cliniche i risultati sono stati più soddisfacenti. Esse hanno spesso contribuito alla reale presa in carico del paziente e al miglioramento degli esiti.
 
3. Un’altra metodologia volta a superare la frammentazione esistente tra le varie Unità operative, è stata quella dipartimentale, ossia un’organizzazione composta da Unità Operative omogenee, affini o complementari, sia a livello territoriale che ospedaliero, nonché interaziendale, per ottenere maggiore integrazione ed efficienza. La gestione comune di personale, attrezzature e spazi ha sicuramente favorito l’utilizzo flessibile degli stessi, ma i DIPARTIMENTI non hanno dato gli esiti sperati in quanto è mancato quello spirito di squadra basato su un comune rafforzamento culturale e una condivisa crescita professionale, fondamentali per una forte integrazione operativa e gestionale.
 
4. Nel corso degli anni, essendosi man mano reso evidente che l’organizzazione ospedaliera per Reparti accentuava il fenomeno della frammentarietà delle cure e la mancanza di una complessiva presa in carico del paziente, si è provveduto (a modello di quanto realizzato negli ospedali americani negli anni ’60 del secolo scorso) a effettuare il ricovero dei malati sulla base della gravità delle condizioni cliniche.
 
Con l’OSPEDALE PER INTENSITÀ DI CURA si è infatti posta l’attenzione sui bisogni assistenziali del paziente nell’assunto che le risorse tecniche e professionali non mediche non sono più “proprietà” dell’Unità Operativa, ma messe a disposizione di aree dove anche i letti diventano funzionali in ragione delle caratteristiche assistenziali dei malati. 
 
Con l’ospedale per intensità di cura, per la prima volta in Italia, si esce dagli schemi rigidi dei letti di reparto - peraltro non sempre assegnati ai singoli Direttori sulla base delle contingenti effettive necessità - per dare una più facile e adeguata risposta organizzativa alle reali e diverse esigenze di ricovero e per dare una risposta articolata ed esaustiva a pazienti polipatologici che necessitano di consulenze di numerosi medici appartenenti alle diverse discipline.
 
Prospettive future
La rivoluzione apportata dall’Ospedale per intensità di cura sta nella effettiva centralità del paziente che viene ricoverato in base alla sua instabilità clinica e alla complessità assistenziale richiesta; si riducono le inappropriatezze organizzative (pazienti in appoggio, letto aggiunto, aumento della degenza media) in quanto tale organizzazione risponde ai criteri di una maggiore flessibilità dei posti letto in funzione delle necessarie esigenze di ricovero.
 
L’Ospedale per intensità di cura, pianificato su tre livelli assistenziali, a bassa, media e alta intensità, pur potendo nettamente migliorare l’efficacia e l’efficienza delle cure, soprattutto per l’attività chirurgica programmata con le conseguenti positive ricadute che potrebbe avere sull’annoso, irrisolto problema delle liste d’attesa, di fatto, in Italia si è sviluppato a macchia di leopardo.
 
E’ presumibile che la scarsa adesione degli ospedali (e ancor prima delle Regioni, ad eccezione della Toscana, dell’Emilia Romagna e poche altre) a siffatta organizzazione dipenda da vari fattori che andrebbero affrontati di pari passo, a cominciare dalla revisione dell’attuale normativa nazionale, ancora orientata ai reparti per specialità, per arrivare al personale del comparto, forse non ancora totalmente pronto a gestire in autonomia l’assistenza, ma sicuramente non supportato e incoraggiato nelle innovazioni assistenziali; passando attraverso una nuova concezione della “presa in carico dei pazienti” che potrebbe avvenire mediante una nuova figura professionale.
 
Ovvero un medico che deve avere competenze sui vari campi della medicina, anche se non necessariamente ultra specialistiche, deve possedere capacità di leadership e di coordinamento degli interventi multidisciplinari e multi professionali, essere di collegamento con il medico di medicina generale all’inizio e alla fine della degenza.  
 
Quel medico hospitalist (presente negli USA da oltre 40 anni) il cui focus primario professionale è la “care” complessiva del paziente ospedalizzato, che prende direttamente in carico il paziente, programma il piano di cura, attiva le consulenze dei consultant ritenute necessarie, è il responsabile della terapia, del percorso di degenza e della dimissione, divenendo il trait d’union con il MMG.
 
Ruolo strategico nell’ospedale per intensità di cura lo riveste il DEA che ha un importante ruolo di filtro e di stratificazione del paziente che deve essere ricoverato.
 
Occorre tuttavia tenere presente che la percentuale di pazienti che accede al PS il cui esito è il ricovero ordinario va in genere dall’11 al 18%. Se a questa quota aggiungiamo le basse percentuali di pazienti che rifiutano il ricovero, di coloro che si allontanano spontaneamente o che vengono dimessi a strutture ambulatoriali, la percentuale maggiore resta quella dei pazienti dimessi dal Pronto Soccorso che tornano al proprio domicilio.
 
Ecco perché, se vogliamo garantire la presa in carico del paziente, il DEA deve poter contare oltre che sull’ospedale flessibile, anche su un “Distretto forte”, un territorio organizzato che sia in grado di assicurare la continuità assistenziale a coloro che non necessitano di ricovero ordinario e soprattutto a quei pazienti fragili e complessi, sempre più numerosi.
 
E dunque, oltre all’ospedale flessibile, occorre pensare a una “rete sociosanitaria” che parta dal riassetto delle Cure Primarie che debbono favorire lo sviluppo della Sanità d’iniziativa, con una nuova organizzazione basata su team multi professionali all’interno delle Case della Comunità, con una forte vocazione al self management, con una significativa integrazione tra Cure primarie e cure intermedie (Ospedale di Comunità, Hospice, ADI, RSA, Riabilitazione) al fine di consolidare la capacità di filtro verso l’accesso all’ospedale, ma anche di sostenere la fase della dimissione, l’assistenza domiciliare, in un approccio di “disease management”.
 
Quanto sopra, supportato dalla Telemedicina e dal FSE (Fascicolo Sanitario Elettronico) unico e condiviso sistema informatico cui tutti, cittadini e operatori, debbono poter accedere, nel rispetto della privacy, per conoscere dati e storia clinica di ciascun cittadino, condividere informazioni sanitarie, facilitare l’accesso ai servizi sociosanitari, evitando sprechi e disagi.
 
La capacità di filtro verso l’ospedale diviene ancor più indispensabile in caso di “maxi emergenze” e di situazioni straordinarie come lo è stata la pandemia da Covid 19. In tali casi, pensare alla flessibilità ospedaliera in termini strutturali, logistici, è plausibile, e anche di relativa facile soluzione in quanto si possono predisporre e attrezzare spazi dedicati da attivare su repentine esigenze.
 
Ma la vera criticità sta nelle risorse umane, che sono più difficili da reperire e anche qualora siano disponibili, potrebbero non essere adeguatamente formate per le specifiche criticità del momento. Ecco perché il problema emergenziale, più che ogni altro, va spalmato sull’intero servizio sanitario e sull’intera società, per essere affrontato e gestito nella massima multi professionalità e multidisciplinarietà, potenziando il contributo di psicologi, assistenti sociali e associazioni di volontariato, con il sostegno di professionisti normalmente poco presenti nel mondo sanitario, come per esempio esperti della comunicazione e ingegneri gestionali, avvalendosi di varie tipologie di professionisti che possano dare, di volta in volta, il proprio qualificato e specifico contributo.
 
Tutto ciò va accuratamente e preventivamente pianificato, sia a livello nazionale che in ambito regionale, definendo chiaramente quali debbono essere le strutture da coinvolgere e il ruolo delle stesse, specificando i ruoli di coordinamento e quelli operativi, predisponendo registri nazionali che identificano i vari professionisti accreditati da attivare nelle varie tipologie emergenziali. Piani operativi snelli da sottoporre a costanti aggiornamenti e alla loro conseguente diffusione.
 
Conclusioni
Se vogliamo migliorare “outcome” e “performance” del nostro SSN dobbiamo essere in grado di agire a più livelli:
1. provvedere sia all’efficientamento degli ospedali, ai quali ricorrere il minimo indispensabile, che alla totale riorganizzazione del territorio che deve essere in grado di consolidare la prevenzione e far fronte alle cure primarie e a tutti i bisogni socio assistenziali dei cittadini, garantendo all’utente/paziente qualità delle cure e continuità assistenziale il più precocemente possibile;
 
2. il sistema deve essere in grado di preparare i pazienti, soprattutto quelli fragili con malattie croniche, a gestire la loro salute e la loro assistenza, mediante un trasferimento di competenze dal curante al paziente, talché la dipendenza del malato possa cedere il passo alla sua responsabilizzazione e alla collaborazione attiva con l’equipe curante per raggiungere l’obiettivo dell’autocura;
 
3. tutto il sistema va rivisto e riorganizzato, adottando nuovi strumenti gestionali, in primis la cartella clinica informatizzata, integrata medici infermieri, per la massima razionalizzazione e condivisione multi professionale;
 
4. è fondamentale potenziare il FSE quale unico strumento di conoscenza e condivisione della storia clinica del paziente;
 
5. puntare sulla formazione degli operatori, pilastro fondamentale per ottenere il cambiamento.
 
Tutti gli ambiti della società odierna, compreso il nostro SSN, sono contraddistinti da un comune denominatore che può essere definito “individualismo”, che, nella fattispecie, può essere declinato in esclusivismo che caratterizza il reparto ospedaliero e lo studio specialistico; in “soggettivismo” che possiamo trovare nell’ambulatorio del MMG; in personalismo dei servizi erogati….
 
I tempi che stiamo vivendo richiedono di essere audaci e razionali: è necessario superare le barriere di categoria e uscire dall’isolamento per andare in spazi comuni, lavorare insieme, in multidisciplinarietà e multi professionalità, con il coinvolgimento dei cittadini/pazienti che dovranno essere responsabilizzati e consapevoli di essere al centro del processo di cura.
 
Confronto, crescita professionale, comprensione dei ruoli e delle singole responsabilità, sono le parole d’ordine che dovranno far muovere la macchina del rinnovamento verso una sanità aperta a tutti, anche a professionisti non tipicamente appartenenti al mondo sociosanitario.
 
Partecipazione degli utenti, “empowerment”, educazione terapeutica, abilità di auto-cura sono le azioni da attivare per favorire il passaggio dei cittadini/pazienti da fruitori passivi dei servizi sociosanitari a partecipanti attivi del rinnovamento, attori del proprio benessere.
 
Caterina Elisabetta Amoddeo
Vice Presidente Nazionale ASIQUAS

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