quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Mercoledì 13 APRILE 2022
In Italia non esiste il diritto all'aborto



Gentile Direttore,
tema delle interruzioni volontarie di gravidanza affiora spesso nel dibattito  pubblico a causa di un continuo “rimodellamento” legislativo - trasversale nel mondo - spesso e volentieri affrontato dalla politica in maniera ideologica. La recente notizia della decisione dello Stato dell’Oklahoma di vietare l’aborto a meno di utilizzarlo come strumento per salvare la vita della donna nel corso di un’emergenza medica, ha riacceso la discussione.

La divisione tra realtà in cui è o non è giuridicamente possibile eseguire un’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è fin troppo semplicistica, non tenendo, infatti, conto della reale applicazione del diritto.

In Italia - dove tale diritto è regolamentato dalla legge 194/78 - una donna che decide di accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza ha, quasi sette possibilità su dieci (67%) di vedersi negato da un ginecologo/a tale accesso in virtù del diritto all’obiezione di coscienza individuale riconosciuto dall’art. 9 della legge 194/1978 che ha contestualmente sancito la non punibilità delle IVG.

Se analizziamo poi, i singoli casi regionali, emerge il preoccupante dato per cui regioni come il Molise non hanno più alcuna disponibilità di ginecologi non obiettori disposti ad esercitare la pratica.

Da ciò ne deriva che le donne interessate ad abortire e che risiedono in regioni con tassi elevatissimi di obiezione di coscienza saranno inevitabilmente costrette a peregrinare per il resto del Paese alla ricerca di ginecologi non obiettori disposti a completare l’IVG, facendo spesso i conti come, ad esempio, nel caso del Molise o della Basilicata, con infrastrutture carenti.

Non sancisce, però, la stessa legge 194/1978 che per garantire l’accesso ai servizi abortivi deve essere organizzata una adeguata mobilità regionale del personale medico non obiettore? E che quindi dovrebbero essere i medici a spostarsi, e non le donne? Questo è solo uno dei diversi e ormai più che evidenti cortocircuiti interni ad una legge che 44 anni fa poneva un vittorioso freno al fenomeno degli aborti clandestini, ma che oggi si dimostra apertamente insufficiente e lacunosa sul fronte dell’autodeterminazione delle donne. All’obiezione del personale ginecologico si è aggiunta quella degli anestesisti, infermieri, ostetrici e persino - pur essendo fuori da ogni limite legislativo - dei farmacisti per quanto concerne la contraccezione d’emergenza.

Addirittura intere strutture si rifiutano di erogare il servizio, in violazione di una legge che non sembra materialmente più esistere.

I problemi riguardano peraltro anche il lato medico. Essendo, infatti, i ginecologi obiettori la maggioranza del totale, la decisione di performare IVG implica inevitabilmente - nel contesto di una branca specialistica così ampia, che va all’ostetricia alla chirurgia passando per la procreazione medicalmente assistita - una dedizione totale del personale a discapito di attività non meno importanti per la propria carriera professionale.
Secondo la comparativista Susanna Mancini il problema sta al cuore della legge 194/1978: una legge che, decriminalizzando l’aborto, non lo ha contestualmente trasformato in un diritto della donna e che ha mantenuto come perno il divieto di abortire. L’Italia, infatti, si inserisce in un contesto europeo dove le leggi sulle interruzioni di gravidanza sono costruite per ‘casistiche’ e ‘circostanze’ entro cui è permesso abortire.
Per questo vengono riconosciute come circostanze legittime per le quali ‘la prosecuzione della gravidanza comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica’ e non sembra, purtroppo, concepibile che una donna scelga, entro le prime 12 settimane di gestazione, di interrompere la gravidanza perché semplicemente ne è convinta per delle ragioni personali che non devono incastrarsi con casistiche predeterminate.
Fermo restando che, come in ogni atto medico, debbano essere spiegate alla donna le eventuali complicazioni   a cui va incontro soprattutto in una reiterazione della procedura chirurgica, ed in ragione di una eventuale futura scelta di genitorialità, è forse la propria convinzione meno importante?
Secondo alcuni giuristi, sebbene la legge 194 non abbia fatto dell’aborto un diritto, è il suo riconoscimento in qualità di LEA (livello essenziale di assistenza) a permettere di parlare di “diritto all’aborto”, anche in Italia. Ma come possiamo parlare di diritto a fronte di inchieste come quella condotta dal settimanale “L’Espresso” nel 2020 che ha avuto il merito di denunciare pubblicamente le molteplici violenze psicofisiche vissute da donne che hanno cercato di abortire nel nostro Paese?

La politicizzazione estrema dell’aborto e la negazione di riconoscere interruzioni volontarie e terapeutiche di gravidanza come semplici pratiche mediche ha portato a conseguenze globali anche sul fronte dell’aborto clandestino - creduto ‘sconfitto’ dall’ondata di leggi sull’aborto degli anni ‘70. Secondo i più recenti dati UNFPA - il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione il 45% degli aborti praticati a livello globale sono clandestini. Un dato che non stupisce, se consideriamo che solo durante l’anno, in Italia, per poter accedere ai servizi di IVG, 473 donne si sono ritrovate nella condizione - per poter accedere all’aborto farmacologico senza ostacoli di doversi rivolgere a Women on Web, un’organizzazione canadese senza scopo di lucro che aiuta le donne ad accedere in modo sicuro all’aborto quando le circostanze esterne non lo permettono.

Federico Bennardo
Medico specializzando in ginecologia ed ostetricia 

Vittoria Loffi
“Libere di abortire”

© RIPRODUZIONE RISERVATA