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Martedì 14 MARZO 2023
Analisi dei dati sulla libera professione intramoenia

L’analisi della serie storica dei ricavi complessivi della LPI conferma sostanzialmente il trend in diminuzione a decorrere dal 2010. Qualcuno dovrebbe spiegare su quali dati poggia l’assunto secondo cui il prolungamento dei tempi di attesa, che attualmente si misurano in anni, favorisca l’incremento dell’attività libero professionale intramoenia, assunto contraddetto anche dal trend in discesa del numero di medici che la esercitano. Occorre battere una politica “tafazziana” in cui a vincere sarà solo chi sta fuori dal sistema pubblico, che già oggi raccoglie un fiume di denaro

I dati sulla libera professione intramoenia (LPI) dei medici dipendenti del SSN, recentemente pubblicati (Relazione del Ministero della Salute al Parlamento, 2022) e riferiti agli anni 2019, 2020 e 2021, hanno il grande merito di fare piazza pulita delle tante leggende metropolitane messe artatamente in giro al solo scopo di impedire a medici dotati di elevate conoscenze professionali e sofisticate capacità tecniche di stare su un mercato, quello della spesa ”out of pocket” in campo sanitario, che evidentemente qualcuno vuole riservare solo al privato, “puro” o “sociale” esso sia, ovvero all’intermediazione assicurativa.

L’analisi della serie storica dei ricavi complessivi della LPI conferma sostanzialmente il trend in diminuzione a decorrere dal 2010. I ricavi passano da 1,264 miliardi di € del 2010 a 1,152 miliardi del 2019, crollano nel 2020 a 816 milioni, per risalire a 1,087 miliardi nel 2021, corrispondenti ad una spesa pro-capite, calcolata sulla popolazione residente, di 21 €/anno per il 2010 e di 18,4 nel 2021. Qualcuno dovrebbe spiegare su quali dati poggia l’assunto secondo cui il prolungamento dei tempi di attesa, che attualmente si misurano in anni, favorisca l’incremento dell’attività libero professionale intramoenia, assunto contraddetto anche dal trend in discesa del numero di medici che la esercitano, arrivato nel 2021 al 38,6% del totale.

È evidente come la crisi economica che ha attanagliato dal 2009 al 2017 il nostro Paese e la crisi pandemica abbiano progressivamente eroso il mercato della LPI. Solo nel 2019 si è avuta una lieve ripresa dell’attività LPI (+ 3% rispetto al 2018), poi crollata del 28% nel 2020 con gli ospedali impegnati a combattere la Covid-19. Anche la gestione approssimativa del settore da parte delle aziende sanitarie con incrementi ingiustificati dei costi sostenuti, gli oneri aggiuntivi previsti dalla Legge Balduzzi, la tassazione Irpef elevata, l’Irap scaricata sul cittadino alla fine rappresentano un mix che ha portato fuori mercato la LPI rendendola non competitiva rispetto all’offerta del privato orientata sempre di più verso il low cost.

Eppure stiamo parlando di un settore che in tutta evidenza rappresenta un valore aggiunto per le aziende sanitarie. Queste, infatti, traggono dalla LPI una apprezzabile fonte di finanziamento in un’epoca di vacche magre. La quota incassata dalle aziende è passata da 164 milioni di € nel 2010 a 235 milioni nel 2021 (+ 43%). Sulla quota rimanente, 852 milioni di €, versata dalle aziende ai professionisti con ritardi che spesso superano i 6 mesi, lo Stato incassa per la tassazione Irpef circa 366 milioni di € e altri 50 milioni sono devoluti a progetti di riduzione delle liste di attesa.

In sintesi, questo canale di entrate alimenta i flussi di cassa aziendali con denaro fresco, contribuisce all’ammortamento degli investimenti effettuati attraverso un maggiore utilizzo delle strutture e delle tecnologie, anche con orari prolungati serali, determina possibili utili aziendali e rappresenta una attività a imposizione fiscale certa. Ci si aspetterebbe una agevolazione della LPI attraverso processi di sburocratizzazione, di riduzione dei costi generali e vantaggi fiscali come la flat tax concessa ai privati. Così non è, e così non sarà. E molti medici ospedalieri oggi incominciano a preferire il rapporto di lavoro non esclusivo per la ridotta imposizione fiscale sui proventi annuali fino a 85.000 € (15% invece del 43% di chi lavora in esclusiva per il SSN), che arriva a compensare ampiamente la rinuncia all’indennità di esclusività.

Quanto alla vexata questio del presunto rapporto negativo tra LPI e liste di attese, i ricoveri in regime di libera professione sono stati nel 2020 circa 16.600 a fronte di 6.104.000 in regime ordinario o di day hospital e, nel 2021, 13.908 verso i 4.863.817 istituzionali. Pertanto, in libera professione è stato effettuato meno dello 0,30% di tutti i ricoveri in strutture pubbliche nel periodo 2020-2021. Per quante elucubrazioni uno possa fare, non si capisce come un numero così piccolo possa influenzare le importanti attese presenti attualmente nel nostro sistema sanitario, per esempio in tutta la chirurgia di bassa complessità o per l’impianto di protesi in campo ortopedico. Se passiamo, poi, all’analisi dei DRG più richiesti in regime di LPI nel 2020, ai primi posti troviamo il parto cesareo (1.656 ricoveri in LPI) e il parto per via vaginale (1.199 ricoveri in LPI) e ancora una volta riesce arduo comprendere come si possano determinare attese con queste particolari prestazioni.

L’unica attesa percepibile in tali contesti è quella dei genitori, fratellini e nonni per il nascituro. Sul versante delle attività ambulatoriali, il rapporto tra regime libero professionale e istituzionale è del 7,3 % con oltre 57 milioni di prestazioni in regime istituzionale a fronte di circa 4,2 milioni in libera professione per le 34 tipologie oggetto di monitoraggio, tra visite e indagini diagnostiche. La visita LPI più richiesta è quella cardiologica con 541.820 prestazioni. Seguono la visita ginecologica (463.667), la visita ortopedica (397.709) e quella oculistica (300.916). Se consideriamo il rapporto attività istituzionale/Alpi per le singole visite o prestazioni diagnostiche in vetta troviamo l’ecografia ginecologica (40%) e la visita ginecologica (30%) e anche in questo caso è la scelta della donna per un professionista di fiducia che porta a preferire il regime libero professionale con percentuali superiori alla media.

Il rilevante taglio delle risorse destinate al finanziamento del SSN dal 2009 al 2019, oltre 30 miliardi secondo le Regioni, sostanzialmente confermati dalla Corte dei Conti e Il taglio del personale (- 6.000 medici e - 50.000 infermieri dal 2009 al 2019, senza contare gravidanze e malattie di lunga durata non sostituite, non degradano l'organizzazione dei servizi e non prolungano le liste d'attesa? E quale ruolo gioca la falcidia dei posti letto (- 85.000 negli ultimi 20 anni)?

La non corrispondenza tra bisogni crescenti dei cittadini e flussi finanziari centrali (nel 2025 si delinea un risicato e temutissimo anche dalle Regioni 6% nel rapporto Finanziamento SSN/PIL ) si traduce nelle singole aziende sanitarie in fatti molto concreti che tutti incidono sull’offerta delle prestazioni sanitarie: blocco del turn over, limitazioni degli acquisti di beni e servizi (farmaci, protesi, device, kit diagnostici, kit chirurgici....), obsolescenza delle tecnologie mediche, degrado delle strutture, ridotti investimenti in formazione del personale. Nessuno ha mai sentito parlare di taglio delle sedute operatorie a fine anno per mantenere in equilibrio i bilanci aziendali riducendo le spese?

Quanto pesa tutto ciò sui tempi d'attesa? Meno della libera professione? Ovviamente, solo per carità di patria, trascuriamo l’enorme impatto avuto dalla pandemia sugli accessi in ospedale e sull’erogazione di prestazioni diagnostiche agli utenti esterni in regime istituzionale. L’argomentare diventerebbe troppo facile considerando le poderose trasformazioni organizzative, con sequestro delle sale operatorie e del personale destinato alle prestazioni ambulatoriali, adottate negli ospedali per far fronte alle necessità di cure intensive e sub-intensive dei pazienti affetti da Covid-19.

Il SSN offre i servizi, la singola prestazione chirurgica o diagnostica, ma non può sempre garantire quale medico la eseguirà, per ovvi motivi organizzativi, resi ancora più critici dal sistematico de-finanziamento del SSN che ha caratterizzato il decennio 2009/2019 e dalla epidemia da Sars-CoV-2. La libera professione permette questa scelta, e sono le donne che in particolare accedono a questo canale, in una cornice di leggi, contratti, regolamenti e sentenze della Corte costituzionale (sentenza n. 371 del 2008) che fanno dell’istituto il più “normato” all’interno della pubblica amministrazione e non possono essere stracciate con una semplice “intesa” Stato/Regione, come è stato fatto con il “Piano nazionale per il governo delle liste d’attesa 2019/2021”. Senza nemmeno preoccuparsi di rapportare l’eventuale prolungamento dei tempi istituzionali massimi alla dotazione organica e alle condizioni organizzative in essere, riferendosi in modo assolutamente aspecifico e volutamente ambiguo ai soli volumi di attività.

I dati illustrati dimostrano ancora una volta come l’attività istituzionale sia ampiamente prevalente su quella libero-professionale con rapporti lontani anni luce dai limiti massimi (LPI =100% dei volumi prestazionali istituzionali di équipe) indicati dalle leggi e dai contratti. Un dato che recenti isolate eccezioni, su un numero di circa 250 aziende sanitarie, non sono sufficienti a smentire. La LPI, piuttosto, contribuisce a contenere il fenomeno delle liste d'attesa permettendo l'accesso a un canale sostenuto dal lavoro aggiuntivo dei professionisti, spesso a costi calmierati e a imposizione fiscale certa. Non solo, la LPI rappresenta per le aziende sanitarie una delle possibilità per acquisire con il proprio personale prestazioni aggiuntive a quelle istituzionali, anche in regime di ricovero, intercettando e introitando denaro che altrimenti andrebbe ad alimentare il settore privato e offrendo agli utenti la possibilità di accedere a prestazioni diagnostiche e terapeutiche sicure e di qualità, poiché garantite dal SSN.

La percezione dei cittadini che attendono mesi, se non anni, per accedere ad una prestazione sanitaria, in diverse realtà del nostro Paese, di un diritto negato rende necessario lavorare per rimuovere i fattori determinanti le attese e non per spingere per l’abolizione della LPI. Rimaniamo convinti che i determinanti maggiori dei tempi d’attesa vadano ricercati nel pesante sotto finanziamento del SSN, nella carenza di organici che produce, nei ritardi del sistema di organizzazione ed erogazione delle prestazioni in regime istituzionale nonchè nei cambiamenti demografici, epidemiologici e sociologici dei nostri tempi che spingono la domanda di prestazioni sanitarie.

Infine una proposta: utilizzare quanto Stato e Regioni incassano ogni anno dalla LPI, circa 600 milioni di €, e quanto statuito dai recenti provvedimenti legislativi, per finanziare un ampio e duraturo programma di riduzione delle attese attraverso un incremento delle assunzioni e dell’utilizzo orario degli ambulatori specialistici, delle attrezzature tecnologiche e delle sale operatorie. Lo strumento contrattuale è quello della libera professione in favore dell’azienda. La defiscalizzazione della remunerazione dei professionisti, come già fatto per il settore privato e per parte di quello pubblico, incentiverebbe questa forma di produttività aggiuntiva portando, oltre che alla riduzione dei tempi di attesa, a un recupero della fuga di pazienti e di risorse economiche verso il privato.

Occorre battere una politica “tafazziana” in cui a vincere sarà solo chi sta fuori dal sistema pubblico, che già oggi raccoglie un fiume di denaro. In fondo al tunnel c’è solo il buio di un SSN povero per i poveri, per il quale molti stanno lavorando. I ricchi potranno sempre rivolgersi a una sanità privata ricca di risorse e professionalità. Quelle fuggite dal sistema pubblico.

Carlo Palermo, Presidente Nazionale Anaao Assomed
Costantino Troise, Responsabile Centro Studi Nazionale Anaao Assomed

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