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Venerdì 14 APRILE 2023
Salute e lavoro: Ordinanza storica della Cassazione



Gentile direttore,
una recente ordinanza della Corte di Cassazione sezione lavoro ha recentemente accolto il ricorso di un lavoratore (nel caso, un medico) che, a causa dello stress correlato a lavoro in Pronto Soccorso in carenza di personale (cioè, anche, a causa di frequenti aggressioni fisiche e verbali), ha contratto un infarto cardiaco. Per questa lesione è stata riconosciuta al medico una causa dipendente dal servizio. La “causa di servizio” veniva prodotta dal lavoratore in giudizio per ottenere “risarcimento” dalla A.S.L., intesa come “datore di lavoro”. Sia in primo grado sia in Appello il lavoratore vedeva respinta l’istanza di risarcimento. Da ciò il suo ricorso in Cassazione, che accoglieva il ricorso del lavoratore, “cassando” la sentenza di appello e rinviando con ordinanza ad altra Corte in diversa composizione.

Importanti le ricadute pratiche di questa ordinanza della Corte di Cassazione. Chiariamo che, in Italia, parlando di indennizzo e risarcimento delle malattie professionali, vige il cosiddetto “sistema misto” dal 1988. Infatti, a seguito di sentenza della Corte Costituzionale del 1988, una malattia viene riconosciuta professionale non solo se è presente nella tabella delle malattie professionali periodicamente aggiornata dal Ministero, ma anche se, pur non presente nella tabella, possa essere correlabile ai rischi occupazionali propri della mansione specifica del lavoratore. Sistema “misto”, appunto. Ma, chiariva la Corte Costituzionale, il cosiddetto “onere della prova” restava a carico del lavoratore denunciante la malattia. In pratica: lo Stato prendeva atto di malattia potenzialmente causata da lavoro, ma assente dalla tabella ministeriale, e comunicava al malato (cioè, mediamente, all’operaio/lavoratore con evidenti limiti di reddito) che spettava a lui dimostrare il nesso tra causa (lavoro svolto in condizioni tossico nocive o, comunque, rischiose) ed effetto (la malattia accertata).

Deve essere sottolineato il fatto che l’operaio/ lavoratore malato, in tribunale, si trova di fronte a datori di lavoro/imprese mediamente in grado di pagare i migliori esperti, oltre a INAIL (Istituto Nazionale di Assicurazione Infortuni sul Lavoro), dotato, tradizionalmente, di ottimi avvocati. A questo si aggiunga che, in caso di soccombenza, l’operaio/lavoratore rischiava di doversi pagare le spese processuali (cifre nell’ordine di diverse migliaia di euro). La conseguenza di questa situazione è concretizzata nel fatto che le cause di questo tipo sono praticamente scomparse dall’orizzonte dei tribunali per evidente grave squilibrio nei “rapporti di forza” tra lavoratore ricorrente e datore di lavoro/impresa che si opponeva al ricorso.
Questa ordinanza della Cassazione diventa una notizia per il fatto che, nelle sue motivazioni, “inverte l’onere della prova”. Principio giuridico non banale. Infatti non sarà più il lavoratore, certamente malato, ma svantaggiato, a dover dimostrare il nesso tra causa lavorativa (condizioni di lavoro nocive/rischiose) ed effetto (la malattia acclarata), bensì, al contrario, il datore di lavoro/impresa che dovrà dimostrare di avere effettuato la “valutazione del rischio occupazionale per la salute e la sicurezza” e di avere messo in atto le precauzioni e le misure organizzative per “la gestione, intesa come riduzione e/o abbattimento, di quel rischio occupazionale per la salute e la sicurezza”, come previsto, peraltro, da numerose leggi in materia di salute e sicurezza sul lavoro nel tempo succedutesi (D.Lgs 626/94 e D.Lgs 81/2008 – Testo Unico). Nasce la medicina legale occupazionale, cioè la valutazione del nesso causa - effetto nelle malattie da lavoro.

Indichiamo almeno un paio dei (numerosi) argomenti “scottanti” sui quali questa ordinanza avrà degli effetti concreti:

la questione emergente (QS 12.02.2020) dei malati di tumori occupazionali a Bassa Frazione Attribuibile (NdR: ad esposizione a cancerogeni occupazionali) che causano la morte, stimata, di novemila lavoratori all’anno.

Lo stress lavoro correlato, nel caso specifico nel settore sanitario. Il dato curioso, parlando di stress lavoro correlato, sta nel fatto che, stando almeno alle (ormai migliaia) valutazioni del rischio specifico occupazionale per la salute e per la sicurezza, tale rischio risultava praticamente inesistente. Salvo poi trovarsi, nella realtà, di fronte a centinaia di casi di operatori sanitari malati: malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni, malattie psichiche (ansia, depressione). Guarda caso malattie spesso correlabili (come asseverato, ormai, da ampia letteratura scientifica) a stress lavoro correlato non gestito (definizione di fornita da ICD dell’OMS dal 2019 per il Burn Out inteso come rischio occupazionale). Per non parlare della (mancata) sicurezza che, in questi ultimi anni, si è concretizzata in un aumento notevole delle aggressioni verbali e fisiche (molti operatori feriti, in diversi casi gravemente, ma anche aggressioni con esiti mortali).

Prima di questa ordinanza della Cassazione il portatore della malattia, cioè l’operaio/operatore sanitario/lavoratore doveva dimostrare che la sua malattia era causata “proprio” dal lavoro (nesso causa effetto). Da oggi (si inverte l’onere della prova) è il datore di lavoro che deve dimostrare, in forma e sostanza, di avere rispettato e messo in pratica le norme sulla sicurezza e la salute sul lavoro per ridurre o abbattere il rischio, cioè la probabilità, che la malattia si manifestasse. Un radicale cambio di prospettiva e di approccio nella trattazione del nesso di causa effetto sui danni alla salute in occasione di lavoro.

Riccardo Falcetta
Medico del lavoro, Torino

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