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Mercoledì 03 MAGGIO 2023
Ad impossibilia psichiatra tenetur: le contraddizioni della salute mentale



Gentile direttore,
la tragica vicenda che ha colpito la collega Barbara Capovani ha aperto in questi giorni un dibattito sulle tante criticità e contraddizioni che la salute mentale presenta in Italia. Vi sono all’interno della nostra società istanze contrastanti e disomogenee che solo grazie a giochi di equilibrismo i professionisti della salute mentale provano a tenere assieme, compiendo conciliazioni sempre più impossibili.

Una delle principali antitesi che ci si trova ad affrontare è quella tra la vocazione che si sono date le strutture residenziali psichiatriche e le richieste che provengono da istituzioni e cittadini. Le prime si propongono di riabilitare, di mettere in atto un processo di cura in grado di restituire alla società un individuo recuperato sul piano personale e relazionale. Le conseguenze che tale approccio porta con sé sono almeno due: 1) la riabilitazione è volontaria, è una scelta della persona, per cui vanno debellate le coercizioni sia nell’accettazione del percorso sia garantendo la possibilità di fuoriuscirne in qualunque momento, libertà di cura sancita e sul piano giuridico-formale e su quello architettonico-strutturale; 2) la riabilitazione ha una durata limitata, è vero che essa si prefigge degli obiettivi, ma anche qualora questi non fossero raggiunti, il paziente al massimo nel giro di un paio di anni deve rientrare nella vita comunitaria.

Ora le richieste che quotidianamente la società fa ai servizi di psichiatria sono spesso incompatibili con tale modello. Infatti famigliari, forze dell’ordine, privati cittadini demandano alla psichiatria ancora compiti di controllo sociale, chiedendole di intervenire in maniera risoluta e risolutiva non solo in caso di condotte violente, ma anche di problemi di decoro, di igiene, di aperta conflittualità. Spesso, purtroppo, tali problemi sono presenti in persone che non hanno consapevolezza dei loro disturbi e nessun interesse o desiderio di essere inseriti in una struttura residenziale. Inoltre molto frequentemente parliamo di disturbi cronici e resistenti ai trattamenti riabilitativi, per i quali il pieno recupero funzionale diventa un obiettivo non realistico.

Purtroppo la riflessione in questo campo appare minata da una retorica in base alla quale obiettivi ideali e di principio, quali il pieno recupero umano e sociale di tutti i pazienti affetti da patologia psichica o il completo accordo tra quanto si propone lo psichiatra e quanto si propone il paziente, sono già raggiunti o comunque raggiungibili, mettendo in campo le “buone pratiche cliniche” attualmente a disposizione. È come se, in ambito oncologico, chiudessimo gli hospices, in quanto l’oncologia si propone il compito di guarire tutte le patologie tumorali e di portare, idealmente, a zero la mortalità per tali patologie.

Oppure non prevedessimo più controlli oftalmologici, renali o neurologici per i pazienti diabetici, in quanto per essi ci prefiggiamo di trattarli efficacemente prima che siano insorti danni a carico di tali apparati. Tale retorica, come detto, ha nettamente prevalso negli ultimi anni, determinando l’attuale impostazione dell’organizzazione della rete assistenziale psichiatrica.

È una retorica che presta bene il fianco a ragioni economiche di taglio della spesa. Nei piani progettuali regionali infatti i posti-letto per ospitare pazienti a lungo termine, con finalità principalmente assistenziali, sono del tutto insufficienti, come se i pazienti psichiatrici cronici non autosufficienti fossero una minoranza sparuta, una rara eccezione.

La risposta che la psichiatria attualmente può fornire passa dunque esclusivamente tramite percorsi residenziali brevi (e volontari) o interventi non residenziali (assistenza a domicilio, borse-lavoro, inserimenti in centri diurni …), di molto meno onerosi rispetto ai primi. Se le ragioni di contenimento della spesa sono comprensibili, esse però dovrebbero trovare nella psichiatria un interlocutore forte, in grado di esporre con chiarezza la propria condizione ed i propri bisogni. Per riprendere un’espressione in voga, in medicina si deve andare verso una risposta personalizzata ai bisogni del paziente, il che è possibile solo avendo a disposizione un ventaglio di possibilità d’intervento. In psichiatria all’interno di tale ventaglio andrebbe prevista la possibilità che in alcuni casi, purtroppo, non sia raggiungibile un accordo tra clinico e paziente o che per i pazienti più gravemente colpiti sia necessaria una permanenza a lungo termine all’interno di luoghi assistenziali.

La legge Basaglia fa dell’Italia un unicum nel mondo, in questo percependosi la nostra nazione come all’avanguardia, prima fra tutti nella giusta direzione, scrollandosi di dosso, una volta tanto, il complesso d’inferiorità e il desiderio di uniformazione agli altri Paesi sviluppati. Negli ultimi anni ci si è spinti ancora oltre con la chiusura degli OPG, sostituiti dalle REMS.

Quest’ultime sono strutture che in maniera drammatica hanno però mostrato la loro inadeguatezza. In primis in termini di capacità recettiva, in quanto i tempi per entrare in esse, ad oggi, non sono calcolabili. Si viene inseriti in liste d’attesa che non si sa se e in quanto tempo scorreranno. Stiamo parlando di persone autrici di reato e valutate come socialmente pericolose che non si sa dove inserire e che per un tempo indefinito possono rimanere in libertà o, al massimo, in strutture non concepite per questa tipologia di pazienti. In secondo luogo risultano inadeguate, in quanto di frequente a seguito delle problematiche comportamentali presentate, bisogna far ricorso agli SPDC, che risultano ulteriormente sovraccaricati. Infine, spesso invocando i risultati terapeutici raggiunti o l’insofferenza alla permanenza in struttura che potrebbe così divenire contro-terapeutica, vi è una naturale tendenza al reinserimento sociale e alla ricerca di soluzioni alternative, in alcuni casi anche laddove non ve ne siano realmente i presupposti.

Una delle verità che ha mostrato l’emergenza COVID-19 è la necessità e l’importanza di luoghi che potremmo definire “luoghi ultimi”. Mi riferisco alle terapie intensive, la cui centralità e crucialità sono emerse come mai prima.

Le sorti di un’intera nazione nei mesi dell’emergenza pandemica (provvedimenti governativi, restrizioni delle libertà personali, limitazioni alle attività produttive e commerciali e così via) sono ruotate intorno alla disponibilità e alle limitate capacità di recepimento di tali strutture, poste al termine di una catena di eventi (contagio, sviluppo e progressione della patologia) che, nonostante tutti gli sforzi per bloccare i singoli passaggi, non sempre è stato possibile scongiurare. Esse si configurano come luoghi altamente specializzati e non sostituibili, la cui funzione non può essere vicariata da strutture alternative.

Tali caratteristiche formali, di alta specializzazione ed insostituibilità, sono condivise anche dalle strutture psichiatriche, semplici e per autori di reato. Di esse sempre ci auguriamo di poter fare a meno e, laddove necessaria, auspichiamo una permanenza al loro interno quanto più breve possibile, ma comunque, come “luoghi ultimi”, devono esistere e funzionare al meglio. Altrimenti le persone che hanno bisogno di questo tipo di risposte, semplicemente non l’avranno, facendo un grave danno a loro stessi ed alla società circostante.

Tiziano Acciavatti
Psichiatra, dirigente medico ASL Pescara

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