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Problemi respiratori, cardiaci, circolatori, disfunzioni tiroidee e dermatologiche: le conseguenze dell’inquinamento dell’aria che respiriamo si riverberano su ogni parte del nostro corpo. Ma l’epilogo che sta preoccupando ulteriormente scienziati e ricercatori è quello che vede un collegamento diretto tra inquinamento e patologie neurodegenerative come Alzheimer e demenza. Solo a causa dell’invecchiamento della popolazione mondiale, si prevede che il numero di persone affette da demenza passerà dai 50 milioni del 2020 a 150 milioni nel 2050, con costi economici e sociali insostenibili. Se l’inquinamento fornisse un’ulteriore accelerazione a questi numeri, come reagirebbe la popolazione? La stessa situazione si ripropone con l’Alzheimer, che solo oggi conta 600 mila casi in Italia. L’epidemiologo Prisco Piscitelli, medico specialista in Sanità Pubblica e vicepresidente della Società italiana di Medicina Ambientale (SIMA), chiarisce a Quotidiano Sanità che le evidenze scientifiche che collegano queste patologie all’inquinamento atmosferico sono ormai troppe per essere ignorate. “Al pari delle patologie oncologiche e dei disturbi del neurosviluppo o del sistema endocrino e immunitario – spiega il professore – dobbiamo chiederci anche il perché l’incidenza del morbo di Alzheimer sia in continua crescita. Appellarsi solo alle nostre aumentate capacità diagnostiche non è una spiegazione convincente, quando non rappresenta addirittura una comoda via d’uscita per evitare di affrontare il problema delle cause delle moderne epidemie non infettive a cui riserviamo indifferenza, perché non creano emergenze immediate come il Covid”. Le evidenze scientifiche su inquinamento e patologie neurodegenerative “Un’importante novità ci viene dal numero di Luglio 2022 della rivista Science. Infatti, i ricercatori del Krembil Brain Institute di Toronto hanno proposto una nuova teoria sullo sviluppo della malattia di Alzheimer, secondo cui non saremmo di fronte a una patologia cerebrale ma ad un disturbo auto-immunitario all’interno del cervello”. Gli studiosi canadesi, diretti dal Prof. Donald Weaver, propongono di considerare la proteina beta-amiloide come parte della risposta immunitaria cerebrale nei confronti di agenti esterni. “Il problema s’innescherebbe – prosegue – nel momento in cui la beta-amiloide non sarebbe più in grado di discriminare tra gli agenti esogeni e le cellule cerebrali, generando un danno per queste ultime. Le implicazioni di questo tipo di ricerche sono ovviamente di enorme impatto perché non si può escludere che ad innescare possibili risposte auto-immuni siano i contaminanti ambientali, proprio come è stato proposto per altre patologie”. Una recentissima metanalisi condotta da Elissa H. Wilker e pubblicata dal British Medical Journal nello scorso mese di aprile 2023 ha documentato una associazione (sebbene sfiorando la significatività statistica) tra esposizione a inquinanti atmosferici e incidenza di demenza, con un aumento del rischio del 4% ad ogni incremento di appena 2 microgrammi per metro cubo delle concentrazioni medie annuali di PM 2.5 e del 5% per ogni aumento di 10 microgrammi per metro cubo nelle medie annuali di ossidi di azoto. Già nel 2016 un fondamentale studio coordinato dalle Università di Lancaster ed Oxford ha dimostrato la presenza di milioni di nano-particelle ferrose per grammo di tessuto cerebrale in 37 persone decedute a Manchester e Città del Messico. “Si tratta – spiega Piscitelli – di microsfere di magnetite identificate alla spettroscopia, con diametro fino a 150 nanometri, che per la loro forma sono indubbiamente di produzione antropica (per la maggior parte ascrivibile ad inquinamento industriale ed emissioni veicolari, specie da freni o motori diesel) e si associano a incremento di radicali liberi nel cervello e involuzioni neurodegenerative”. Alle sfere di magnetite si accompagnavano anche nanoparticelle di altri metalli come il platino, il nickel e cobalto, “certamente non riconducibili al fisiologico funzionamento del sistema nervoso”. Le particelle riscontrate per la prima volta nel cervello umano sono esattamente simili a quelle riscontrabili nei contesti urbani, specialmente in prossimità di strade trafficate. Le particelle di dimensioni inferiori ai 200 nanometri sono abbastanza piccole da superare la lamina cribrosa posta al di là delle cavità nasali ed entrare direttamente nel cervello senza passare per il circolo sanguigno come avviene invece per quelle inspirate nei polmoni, che danno luogo a infiammazione cardio-vascolare e sistemica dopo l’assorbimento da parte degli alveoli. La stessa autrice dello studio professoressa Barbara Maher della Lancaster University si è detta da subito convinta della correlazione tra questa scoperta relativa alla penetrazione degli inquinanti atmosferici nel cervello umano e la diffusione della malattia di Alzheimer. Gli effetti di PM2.5 e il biossido di azoto Il Prof. Piscitelli segnala per conto di SIMA una sequela di studi, in aumento negli ultimi anni, che sottolineano chiaramente questo legame. Si parte da una ricerca pubblicata nel 2018 su BMJ-Open che ha coinvolto 130.978 adulti di età compresa tra 50 e 79 anni senza storia di demenze pregresse, seguiti fino al 2014. Per i 2181 pazienti che hanno sviluppato una demenza, è stato possibile dimostrare il ruolo dei biossidi di azoto (NO2) e del particolato atmosferico (PM 2.5) come fattori che aumentavano il rischio di malattia fino al 40% in più. Una ricerca del National Institute of Ageing americano, edita da The Lancet nel 2020, ha coinvolto tutti i 63 milioni di cittadini USA assistiti dal Programma federale Medicare - inclusi 3,4 milioni di casi di Alzheimer - riscontrando che ad ogni aumento di appena 5 μg/m3 nella concentrazione media annuale di PM 2.5 si accompagnava una crescita del 13% dei nuovi ricoveri per Alzheimer, con una correlazione lineare anche per concentrazioni inferiori a 16 μg/m3 ovvero sotto la soglia dei limiti legali vigenti. Uno studio californiano condotto su 18.178 persone (tra cui oltre 3.600 donne anziane) pubblicato su JAMA Neurology nel 2021, in cui i residenti nelle aree più inquinate avevano il 10% di probabilità in più di avere placche amiloidi alla PET rispetto a chi viveva in zone meno inquinate. Passando dalle PET alle Risonanze Magnetiche, una ricerca della professoressa Diana Younan della University of Southern California di Los Angeles su 1365 donne ultra-settantacinquenni, pubblicata su Neurology nel 2020, ha riscontrato atrofia cerebrale non solo nelle donne esposte ad elevati livelli di inquinamento atmosferico da PM2.5 ma anche al di sotto delle soglie fissate come limiti di legge. Infine, il legame tra esposizione al PM2.5 e maggiore incidenza di Alzheimer è stato confermato da un recentissimo studio del Karolinska Institutet di Stoccolma, pubblicato nel 2022, che ha studiato un gruppo di 2.594 individui e successivamente uno di 1.987, valutandone l’esposizione residenziale a lungo termine al particolato (PM2.5 e PM10) e agli ossidi di azoto. Piscitelli: “Non ci interroghiamo abbastanza su possibili cause o concause di queste malattie” “La ricerca scientifica – prosegue Piscitelli - ha potuto finora appurare solo il meccanismo della degenerazione cerebrale, attribuibile alla deposizione di placche di una sostanza proteica anomala, detta beta-amiloide, e di grovigli neurofibrillari della proteina Tau dentro e intorno ai neuroni. Ne risulta un danno neuronale esteso che compromette la capacità di neurotrasmissione e origina la demenza. Ma nel mentre si aprono nuove frontiere terapeutiche grazie alla sperimentazione di farmaci innovativi, non ci si interroga abbastanza sulle possibili cause o concause ambientali di queste malattie”. “Per l’Alzheimer, in particolare, - conclude Piscitelli - il Rapporto OMS 2020 fornisce una fotografia ferma a dodici anni fa, quantificando in 35,6 milioni le persone che risultavano affette da questo tipo di demenza, con una stima di raddoppio al 2030, fino a triplicare nel 2050. I nuovi casi sarebbero 7,7 milioni l'anno (1 ogni 4-7 secondi), mostrando una sopravvivenza media dopo la diagnosi pari a 4-8-anni. La stima dei costi è di 604 miliardi di dollari all'anno con incremento progressivo per i sistemi sanitari. Per questo motivo, secondo l’OMS, tutti i Paesi dovrebbero includere le demenze come priorità nei loro programmi di sanità pubblica". La richiesta dell’esperto è quella che gli Stati prendano atto di quello che sta accadendo, senza nascondere la testa sotto la sabbia. “Adeguiamo le teorie eziologiche ai dati epidemiologici e alle osservazioni scientifiche, solo così si potrà avere la lucidità per mettere in campo le misure di prevenzione corrette”, è l’invito dell’epidemiologo. Gloria Frezza
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Venerdì 26 MAGGIO 2023
Inquinamento dell’aria e Alzheimer. Piscitelli (Sima): “Non si possono ignorare i dati scientifici che segnalano il collegamento”
Con l’epidemiologo analizziamo le più recenti ricerche scientifiche che mostrano un collegamento chiaro tra rischio di sviluppare patologie neurodegenerative come Alzheimer e demenza ed elevate concentrazioni di particolato fine nell’aria. Dati troppo spesso ignorati nelle proiezioni realizzate su queste malattie
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