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Lunedì 20 MAGGIO 2013
I Tsrm e il caso Marlia. Non si può parlare di esercizio abusivo di professione medica



Gentile direttore,
intervengo sul caso di esercizio abusivo della professione medica contestato a Marlia (Lucca) ad alcuni tecnici sanitari di radiologia medica e, a quanto e dato capire, a due medici – direttore sanitario e dirigente radiologo – perché in concorso tra di loro permettevano l’atto abusivo. Per i medici – attingo sempre a notizie di stampa – si contesterebbe anche il rifiuto di atti d’ufficio.
 
Leggo che intervengono a difesa dei tecnici le rappresentanze professionali nella persona del presidente della Federazione nazionale dott. Alessandro Beaux e leggo che alcune società professionali di medici specialisti in radiologia intervengono, con una certa soddisfazione, con un comunicato di adesione alle ragioni della magistratura inquirente.
Credo di avere qualche titolo a intervenire sul punto dato che sono numerosi anni che mi occupo della materia, del rapporto tra professioni sanitarie con pubblicazioni e consulenze.
 
Il punto di partenza è l’equivoco che si genera tra la normativa di abilitazione all’esercizio professionale e la normativa sulla radioprotezione.
La normativa abilitante è costituita – questo è largamente pacifico e noto – in particolare dalla legge 26 febbraio 199, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie” che definisce il campo “proprio di attività e di responsabilità” delle professioni sanitarie  - e quindi anche del tecnico di radiologia – su tre criteri cardine rappresentati dal profilo professionale, dal codice deontologico e dalla formazione ricevuta con l’unico limite delle competenze previste per la professione medica.
 
Il profilo professionale, ex D.M. 26 settembre 1994, n. 746, con una certa chiarezza stabilisce che il tecnico sanitario di radiologia medica è l’operatore sanitario abilitato  - espressione che non si ritrova in altri profili professionali – a svolgere in via autonoma o in collaborazione con altre figure sanitarie, su prescrizione medica, “tutti gli interventi che richiedono l’uso di sorgenti di radiazioni ionizzanti, sia artificiali che naturali, di energie termiche, ultrasoniche, di risonanza magnetica nucleare nonché gli interventi per la protezionistica fisica o dosimetrica”.
 
Questa, in estrema sintesi, la normativa abilitante.
Esiste poi – in ossequio a obblighi comunitari – la normativa radioprotezionistica recepita con il D.Lgs 26 maggio 2000, n. 187 “Attuazione della direttiva 97/43/Euratom in materia di protezione sanitaria delle persone contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti connesse ad esposizioni mediche”. La finalità della normativa, oltre a essere contenuta nella sua epigrafe, è precisata con nettezza dall’art. 1, rubricato, non a caso, “campo di applicazione” e specifica che tutto il complesso normativo “definisce i principi generali della radioprotezione” delle persone che si espongono a radiazioni ionizzanti. E’ normativa generale sulla radioprotezione che, solo incidentalmente, contiene norme trattano anche di esercizio professionale collidendo – con una interpretazione invero fortemente restrittiva -  con la normativa italiana di abilitazione che abbiamo sopra riportato.

Citiamo testualmente in primo luogo il punto a) dell’articolo 2, comma 1 che definisce gli “aspetti pratici” definendoli come “le azioni connesse ad una qualsiasi delle esposizioni di cui all'articolo 1, comma 2, quale la manovra e l'impiego di attrezzature radiologiche, e la valutazione di parametri tecnici e fisici, comprese le dosi di radiazione, la calibrazione e la manutenzione dell'attrezzatura, la preparazione e la somministrazione di radiofarmaci e lo sviluppo di pellicole”.
 
Riportiamo anche l’articolo 5, terzo comma, del decreto sulla radioprotezione:
“Gli aspetti pratici per l'esecuzione della procedura o di parte di essa possono essere delegati dallo specialista al tecnico sanitario di radiologia medica o all'infermiere o all'infermiere pediatrico, ciascuno nell'àmbito delle rispettive competenze professionali”.
 
Ci sono quindi, apparentemente, due norme in conflitto: le norme italiane sull’esercizio professionale che definiscono, come abbiamo riportato, il tecnico sanitario di radiologia medica come l’operatore sanitario abilitato a porre in essere le attività connesse all’uso di apparecchiature radiologiche come espressione del “proprio campo di attività e responsabilità” con il solo limite della prescrizione medica.
Dall’altro lato, una norma di recepimento di una direttiva comunitaria sulla radioprotezione recepita nel nostro paese, come di consueto, con alcune modifiche “interessate”, come vedremo, che avventatamente introduce un curioso caso di “delega di funzioni” di attività che si assumerebbero come mediche.
 
E’ largamente noto, in dottrina e in giurisprudenza, che la delega di funzioni non sia in alcun modo applicabile all’esercizio professionale. Espressioni che venivano usate negli anni novanta dello scorso secolo, soprattutto nel campo dell’emergenza sanitaria, che configuravano la inesistente e giuridicamente impossibile categoria degli “atti medici delegati” si pensavano dimenticate per sempre.
Il nostro ordinamento professionale non le contempla e non le può contemplare. La giurisprudenza sull’articolo 348 del codice penale sull’esercizio abusivo di professione, copiosa e lunga come gli ottantatre anni di vigenza della nostra normativa codicistica, è chiara.
 
Se riteniamo un atto rientrante nella esclusiva competenza medica non possono esistere atti di delega verso chi medico non è.
Quando un atto “è tipico e esclusivo” di una certa professione è da considerarsi “riservato” e non estendibile ad altra professione pena l’abusività dell’agire professionale.

Questa considerazione porta ad affermare che  - mi si perdoni la citazione ma essa calza a pennello – Lex specialis derogat Lex generalis. Questo è il tradizionale brocardo che ci proviene dal diritto romano proprio per risolvere le tradizionali antinomie normative. In questo caso la speciale legge sull’esercizio professionale deroga la norma sulla radioprotezione che si occupa, giustappunto, di radioprotezione e non di esercizio professionale. Essa continua ad avere effetto sugli altri campi ma non su quelli inerenti all’esercizio professionale in quanto esistente una normativa specifica.
Per altro la direttiva europea 97/43 Euratom è stata recepita in Italia con curiose modificazioni relative ai rapporti tra medici, tecnici e infermieri improntati, come abbiamo visto, all’illegittimo rapporto di delega di funzioni se rapportato all’esercizio professionale. Riportiamo testualmente l’articolo 5 comma 3 della direttiva europea:
“Gli aspetti pratici per la procedura o parte di essa possono essere delegati dal titolare dell'impianto radiologico o dal medico specialista, se del caso, ad uno o più soggetti, abilitati ad operare nella fattispecie in un campo di specializzazione riconosciuto”.
 
Non vi è alcun cenno ai tecnici di radiologia e agli infermieri come compare nella normativa italiana ma sembra piuttosto riferirsi al rapporto tra medici specialisti ed altre specialità per le attività radiodiagnostiche complementari per quanto concerne le attività di radioprotezione. Questo in Europa!
In conclusione non si può parlare di esercizio abusivo di professione medica per un tecnico sanitario di radiologia medica che in ossequio alla normativa di esercizio professionale utilizzi apparecchiature dietro prescrizione e in assenza del medico specialista.
Sembra sovrabbondante doverlo specificare ma i fatti di cronaca lo impongono. Piuttosto stupisce il comunicato delle associazioni mediche che di fatto plaudono alle vicende giudiziarie di Marlia che potrebbero fare correre il rischio di paralizzare l’attività radiologica in tutta Italia, bloccare i piccoli presidi, bloccare l’innovazione (teleradiologia), la prevenzione come gli screening mammografici e quant’altro in nome di una aprioristica difesa di una centralità di ruolo basata, come sembra di capire, sulla pura presenza del medico specialista all’interno della struttura.
La normativa di radioprotezione può e deve in sede processuale, laddove si arrivi a tale evenienza, essere – come in genere viene fatto in casi consimili - disapplicata  dal giudice competente.
 
Luca Benci
Giurista – Firenze
www.lucabenci.it

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