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Venerdì 06 SETTEMBRE 2013
Professioni e differenza di genere. Una nuova società e una nuova medicina

Dire che le donne di per sé non sono un valore aggiunto in un determinato contesto lavorativo, si basa dull'ambigua traduzione del concetto di “parità tra i sessi” in quello di “uguaglianza di genere”. E la “rivendicazione sindacale” di diritti professionali da parte delle donne è giustificata dal fatto che questi diritti non sono stati ancora pienamente raggiunti

L’istanza sindacale come fondamento della parità professionale tra i sessi
Il fenomeno della presenza femminile nell’ambito delle professioni intellettuali come quella medica, un tempo precluse alle donne, è relativamente recente. Così come non è poi molto lontana nel tempo la nascita dei movimenti in materia di emancipazione femminile, che per la prima volta nella storia dell’umanità hanno visto le donne protagoniste nella lotta per sconfiggere vecchi pregiudizi, secolari soprusi, profonde ingiustizie. Negli ultimi 150 anni le nostre società hanno assistito a una sofferta rivoluzione civile, che ha condotto a modifiche strutturali, attraverso la maturazione di una diversa mentalità collettiva e connesse evoluzioni di tipo giuridico.
Tuttavia vi sono ancora passi da compiere in questa direzione e gli atteggiamenti discriminatori restano latenti, manifestandosi sotto antiche e nuove forme. Tra queste, diffusa e radicata permane l’idea che le donne siano inadeguate, per qualche motivo, al contesto lavorativo nel quale aspirano a operare, soprattutto se mosse da ambizione carrieristica. Per tale ragione, molte donne sono ancora impegnate nel rivendicare pari opportunità e diritti professionali. Tutto questo non “riduce” il “discorso sulla femminilizzazione” di un’attività lavorativa a un complesso di richieste sindacali, ma anzi pone in luce i suoi aspetti problematici secondo una prospettiva migliorativa orientata a una realtà sociale giusta e attenta all’emergere di nuove esigenze da parte dei cittadini. Inoltre, la rivendicazione sindacale di diritti, siano essi civili, politici o professionali, da parte di un gruppo, di una categoria o anche di un singolo individuo, costituisce la base culturale necessaria sulla quale costruire una comunità moderna e rispettosa di tutti i suoi componenti. Quindi, non può mai essergli attribuito un carattere riduttivo rispetto al fenomeno specifico di cui si fa portavoce, soprattutto se anzi ne costituisce l’istanza fondamentale.

La differenza di genere come valore aggiunto a priori
La “rivendicazione sindacale” di diritti professionali da parte delle donne è giustificata dal fatto che questi diritti non sono stati ancora pienamente raggiunti, ed è legittimata dall’appartenenza delle donne alla stessa razza degli uomini, quella umana. Uomini e donne anelano quindi ai medesimi riconoscimenti, all’uguaglianza o parità sul piano istituzionale. Ma ciò non significa che uomini e donne siano “uguali”.
L’insinuazione che le donne di per sé non siano un valore aggiunto in un determinato contesto lavorativo, ad esempio quello medico, nasce dall’ambigua (e forse inconsapevole) traduzione del concetto di “parità tra i sessi” in quello di “uguaglianza di genere”.
Uomini e donne sono diversi, così come lo sono le diverse etnie, e come in fondo è unico e irripetibile ogni singolo essere umano. Ma è proprio tale differenza, che sia di genere sessuale, di etnia o cultura, a costituire quel valore aggiunto che, a prescindere dagli apporti specifici, permette l’aumento delle possibilità di confronto, articolazione di dinamiche relazionali, crescita reciproca. Un arricchimento che non passa necessariamente dall’elaborazione di nuove e originali idee o strategie professionali. Semplicemente esserci, aprendo la porta alle differenze che ognuno custodisce nel proprio bagaglio esperienziale. Vivere in modo diverso la professione medica significa anzitutto viverla insieme, donne e uomini.  
 
Sara Patuzzo
Assegnista di Ricerca in Bioetica e Deontologia medica, Università di Verona
Esperta Consulta Deontologica Nazionale, FNOMCeO

 

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