quotidianosanità.it
stampa | chiudi
Sabato 28 MARZO 2015
Corte di Cassazione. Il medico non può fare terapia riabilitativa. Essa spetta a chi detiene “specifico diploma universitario”
Ribaltata una precedente sentenza del 2003 che sanciva una sorta di competenza universale per il medico. Ma oggi la Corte afferma che la “laurea in medicina consente l'espletamento di attività ausiliarie ma non anche di attività, quale la terapia riabilitativa, che non hanno tale carattere ed il cui svolgimento postula uno specifico diploma universitario”. LA SENTENZA
La Corte di cassazione torna, dopo molti anni, sulla problematica relativa al corretto titolo per esercitare una professione sanitaria. Nel 2003 affermò che qualunque esercente la professione medica poteva esercitare la professione di fisioterapista in quanto la limitazione posta dai profili professionali si riferiva “ai non laureati (fisioterapisti, infermieri, logopedisti ecc.) e non al medico, che in quanto titolare della laurea in medicina e chirurgia è abilitato ad esplicare assistenza sanitaria in funzione di prevenzione, diagnosi, e cura, di guisa che il diploma di specializzazione nella riabilitazione non può essere previsto tra i requisiti, la cui mancanza impedisca a qualsivoglia medico di esercitare la terapia della riabilitazione”. Concludeva la Corte (Corte di cassazione, VI sezione penale, sentenza 25 novembre 2003, n. 49116) che il medico, in quanto iscritto a un ordine professionale poteva esercitare “lecitamente attività professionale, la quale è caratterizzata dall'autonomia sia nella scelta dell'area di intervento, sia nell'accettazione o meno delle domande di assistenza rivoltegli”. (Nel caso di specie il medico esercitava di fatto l’attività di fisioterapista).
La Corte aveva quindi sposato la classica interpretazione dell’attività medica senza alcuna distinzione con l’attività sanitaria. Da questo punto di vista perdeva di ogni significato il pur disposto testuale della legge 42/99 che riconosce a ogni professione sanitaria “un campo proprio di attività e di responsabilità”. L’attività medica non aveva quindi confini, quanto meno, “verso il basso”.
Ma ora ci torna sopra la sezione lavoro della Suprema Corte addivenendo, con una nuova sentenza, a una interpretazione più avanzata e contrapposta. Nella causa di lavoro legata a un licenziamento di un operatore sanitario, in possesso del diploma di laurea in medicina e chirurgia, e che esercitava l’attività di terapista della riabilitazione (rectius fisioterapista) motivata con il rischio della perdita dell’accreditamento regionale la sezione lavoro ha affermato il principio di diritto secondo il quale la “laurea in medicina consente l'espletamento di attività ausiliarie ma non anche di attività, quale la terapia riabilitativa, che non hanno tale carattere ed il cui svolgimento postula uno specifico diploma universitario”. Questo l’innovativo principio di diritto che cambia l’antico orientamento della giurisprudenza penale della stessa Corte. Al di là delle peculiarità del caso di specie che ha dato luogo alla sentenza, l’innovazione non è di poco conto in quanto determina l’esclusività dell’esercizio professionale per tutte le professioni. Vi saranno le solite difficoltà nell’individuazione dell’esclusività, ma il principio è tracciato.
Ancora una volta, al netto delle polemiche di questi mesi sul “comma 566”, la giurisprudenza agisce in via di supplenza rispetto alla litigiosa politica, determinando un limite che viene posto proprio dalle leggi sulle professioni sanitarie. Ad oggi, curiosamente, le uniche norme di carattere generale che riguardano la professione medica sono contenute proprio nelle leggi di abilitazione all’esercizio professionale delle professioni sanitarie e i tentativi, di costruirne una, sulla pura attività medica, sono parsi fino ad ora goffi, impacciati e disorganici.
Luca Benci
Giurista
© RIPRODUZIONE RISERVATA