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Mercoledì 03 GIUGNO 2015
Sui rapporti tra legge e deontologia



Gentile direttore,
il mio ultimo intervento su Quotidiano sanitàCosa cambia se passa la legge sull’atto medico” è stato ampiamente ripreso da due commentatori: il dott. Roberto Polillo e il dott. Alessandro Vergallo. Entrambi pongono la questione della definizione dell’atto medico seppure con accenti diversi. Alessandro Vergallo mi accusa di dare ai codici deontologici delle professioni sanitarie un valore diverso dal codice di deontologia medica. Non credo di avere mai fatto questo tipo di affermazione. Vero è, invece, che nel diritto positivo vigente – la legge 42/99 – si ancora l’esercizio professionale – “il campo proprio di attività e di responsabilità” – a “tre criteri guida”, tra cui il codice deontologico. Non esiste una norma similare che richiami il codice di deontologia medica.
 
Era la prima volta – non seguita da altre – che il legislatore richiamava un codice deontologico in un testo di legge, per così dire – a scatola chiusa. Il codice della privacy, per i giornalisti, aveva previsto l’approvazione di un codice ma sotto la supervisione del Garante. In questo caso invece non era  e non è previsto alcun controllo esterno. Da un lato vi è quindi un riconoscimento ampio di autonomia dall’altro una grande responsabilità sull’utilizzo dei codici deontologici la cui normazione deve rimanere nell’alveo che le è proprio.
 
I codici deontologici hanno talvolta anticipato tematiche a valenza etica (e anche giuridica ma sempre collegate all’etica) che non sono mai regolamentate per legge. Penso all’insostituibile ruolo che, soprattutto anni orsono, ha avuto proprio il codice di deontologia medica sulla materia del consenso informato, sulle direttive anticipate, sulla procreazione assistita. Tutte materie – ad eccezione di quest’ultima – mai regolamentate da leggi ordinarie. Il codice di deontologia medica si è posto come un faro – anche se non sempre del tutto coraggioso – nel riferimento alla materia.
 
La materia deontologica è da maneggiare con estrema cautela in quanto rappresenta comunque un atto di autoregolamentazione proprio di una categoria professionale e non una normazione di carattere generale.
 
Diverso è se la normazione deontologica esce da questo ambito occupando spazi che sono giuridici e non strettamente deontologici. Nell’ultimo codice di deontologia medica si è tentato di fare proprio questa operazione.  Una sorta di operazione – mi si perdoni l’autocitazione – “paralegislativa” che veramente esorbita i compiti tipici di un codice deontologico, anche laddove, fosse richiamato da una norma di legislazione ordinaria (e abbiamo visto che non è questo il caso).
 
Nelle sue infinite contraddizioni il “comma 566” pone alcuni aspetti che non possono essere elusi: una riflessione sulle “relazioni professionali” e sulla “responsabilità di equipe” che non può essere rinviata. Il tutto affidandolo alla concertazione: strumento discutibile quanto si vuole ma almeno il contrario dell’autoregolamentazione deontologica che rischia di essere l’ennesimo strumento autoreferenziale.
 
Le richieste di una definizione legislativa di “atto medico” si vanno moltiplicando e, di fatto, ricalcano lo schema della legge 42/99 dedicato alle “altre” professioni sanitarie. Vi è da realmente domandarsi se la professione medica oggi abbia bisogno, nel suo agire quotidiano, di una sorta di “profilo professionale” del medico o se questa sia una necessità politico-sindacale.
 
Polillo, in un altro intervento, parla di progressivo “demansionamento” del medico rimproverando alla Fnomceo un atteggiamento eccessivamente possibilista sul “comma 566”. Quello che non si comprende è quale rapporto possa intercorrere tra una disposizione legislativa non ancora entrata in vigore – nella seconda parte – e che non ha dispiegato, al momento, alcun effetto nella prima parte con il denunciato demansionamento dei medici. Posto che corrisponda a verità il demansionamento medico, il comma 566, anche applicato, non ha alcuna correlazione con il fenomeno del demansionamento. 
 
Semmai può verificarsi il contrario: il “comma 566” spinge il medico verso le attività “alte” e non certo verso il “basso”. Il dimagrimento delle attività esclusive operato dalla legge di stabilità opera con un effetto radicalmente opposto al demansionamento che, come è noto, si caratterizza per l’essere la privazione parziale o totale delle mansioni proprie e l’adibizione a mansioni inferiori. Su tutte le critiche che possono essere mosse sulla disposizione normativa più criticata in sanità, questa è verosimilmente l’unica a non avere diritto di cittadinanza.
 
Su un argomento, infine, mi trovo d’accordo con Vergallo che scopro, essere mio attento, ma non attentissimo lettore. Vergallo mi rimprovera il giudizio negativo sulla pasticciata e confusa legge D’Incecco sulla definizione dell’atto medico (e confermo il mio giudizio negativo sulla proposta di legge mal scritta, sgrammaticata giuridicamente e contraddittoria) e tacere sulle contraddizioni delle varie normative che riguardano le professioni sanitarie negli ultimi quindici anni (leggi 42/99, 251/2000, 43/2006 e comma 566). Questo non corrisponde al vero visto che già da tempo ho ravvisato la necessità di arrivare a un “testo unico” che elimini contraddizioni e aporie.
 
Non so e non spetta a me sapere se questo sia il momento giusto per una simile operazione. Ho l’impressione che il crescente appoggio alla proposta di legge D’Incecco nasconda una malcelata volontà revanscista di cui francamente non si sentiva il bisogno.
Serve, al contrario, un confronto ampio, partecipato, interprofessionale e interdisciplinare per addivenire a nuovi condivisi rapporti.
 
Luca Benci
Giurista

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