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Martedì 05 GENNAIO 2016
Morti materne. “Un cortocircuito mediatico come nel 2010. Evitiamo allarmismi e strumentalizzazioni”. Parla Riccardo Tartaglia, uno dei ‘commissari’ di Lorenzin

Impegnato in questi giorni con gli altri dell'Unità di crisi istituita dal ministro della Salute, non si scopre sulle indagini in corso sui cinque casi morti di donne in sala parto. Ma al tiro al piccione non ci sta: "Prima di attribuire la morte di una donna a un errore umano bisogna indagare con attenzione. La gestione del rischio clinico non è materia da avvocati o assicuratori. Non può che spettare a medici e infermieri e a tutti gli operatori sanitari occuparsene”

“Un corto circuito mediatico. Una sfortunata concentrazione di casi che, per le loro caratteristiche, sembrano presentare cause diverse. La distribuzione dei decessi nel corso dell’anno non è uniforme e non risulta ci siano incrementi significativi nel tempo. Inoltre oggi gli operatori sanitari per una cresciuta cultura della sicurezza tendono a segnalare questi eventi molto di più che in passato e questo ha delle chiare ripercussioni sui media”.
 
Getta acqua sul fuoco Riccardo Tartaglia, direttore del Centro di gestione del rischio clinico della Toscana e componente delle Regioni nell’Unità di crisi istituita dal ministro Beatrice Lorenzin, per ridurre il rischio di eventi avversi. 
 
Sui casi delle cinque donne decedute durante il parto in diverse strutture negli ultimi sette giorni non si vuole pronunciare, visto il suo ruolo e dato che le indagini sono ancora in corso, ma il messaggio che lancia è quello di “evitare allarmismi e soprattutto ciniche strumentalizzazioni”.
 
I numeri sono noti da tempo, e in questi giorni sono rimbalzati su tutte le pagine dei giornali. Il nostro Paese si colloca nella top ten mondiale dei Paesi con i più bassi tassi di mortalità materna: 10 decessi ogni 100mila nati. In linea con i tassi registrati nel Regno Unito e in Francia e al di sotto della media occidentale che è di 20 decessi ogni 100mila nascite. Numeri alla mano quindi, e considerando 500mila nati annui, i casi di donne che muoiono sono intorno ai 50 ogni anno.
 
Ma, come spiega Tartaglia, la materia è delicata e il confine tra complicanze o eventi avversi è molto sottile, e quindi prima di attribuire la morte di una donna a un errore umano bisogna indagare con attenzione. Per questo, ricorda che la “gestione del rischio clinico non è materia da avvocati o assicuratori, come talvolta si ritiene, ma è la capacità di controllo e contenimento dei rischi correlati alla pratica clinica e non può che spettare a medici e infermieri e a tutti gli operatori sanitari occuparsene”.
 
Dottor Tartaglia cosa sta succedendo? Un corto circuito mediatico, come in parte avvenne anche nell’estate del 2010 quando per settimane rimbalzarono casi di sospetta malpractice in sala parto, di cui poi si verificò l’insussistenza, ma che portarono in ogni caso a varare un Piano straordinario per la chiusura dei punti nascita considerati non sicuri? O cosa? Cinque donne morte in pochi giorni non sono poche…
Ovviamente come componente dell’unità di crisi ministeriale non posso assolutamente entrare nel merito dei casi in corso di esame. Ma in base a come mi ha formulato la sua domanda propendo per un nuovo cortocircuito mediatico.
 
D’accordo, ma se stiamo ai dati dell’Iss che stimano per l’Italia una mortalità di dieci donne ogni centomila parti, quindi 50 morti l’anno considerati gli eventi nascita, non le sembra che 5 morti in una sola settimana siano troppe?
Direi che siamo di fronte a una sfortunata concentrazione di casi che, per le loro caratteristiche, sembrano presentare cause diverse. La distribuzione dei decessi nel corso dell’anno non è uniforme e non mi risulta che ci siano stati degli incrementi significativi nel tempo. Va anche detto che oggi gli operatori sanitari per una cresciuta cultura della sicurezza tendono a segnalare questi eventi molto di più che in passato e questo ha delle chiare ripercussioni sui media. Ma è necessario evitare assolutamente allarmismi e soprattutto ciniche strumentalizzazioni e bisogna innanzitutto capire se si tratta di complicanze o eventi avversi.
 
Che differenza c’è? 
Esistono in letteratura numerose definizioni, provo a farne una sintesi. La complicanza è una possibile evoluzione di una patologia, legata alla patologia stessa o alle procedure messe in atto per trattarla, attesa ma non sempre prevedibile e prevenibile. L’evento avverso è il prodotto di errori umani e criticità organizzative correlate essenzialmente alla gestione sanitaria ed è in genere prevedibile e in una percentuale variabile di casi prevenibile.
 
Un differenza molto sottile quindi…
Certamente, tant’è che si può sapere solo dopo un’attenta analisi delle procedure ed esame del paziente (autopsia) se siamo di fronte a una complicanza o a un evento avverso. È quindi sbagliato anticipare conclusioni se non si dispone di tutti i dati necessari. Possiamo però verificare durante gli audit se esistono le procedure per affrontare le criticità e risolverle. Ad esempio, le pratiche per prevenire l’emorragia post-partum o il rischio trombo-emboliche sono state applicate correntemente?
 
A proposito del rischio tromboembolico, cosa pensa della polemica sull'utilità di generalizzare il test?
Penso che i ginecologi dell'Aogoi abbiano ragione. Fare questo test a tutte le donne in gravidanza non serve, come del resto indicato dalle linee guida internazionali. 

Il ministro Lorenzin in un’intervista a Repubblica ha detto di voler arrivare a una condizione di “rischio zero”, tolti naturalmente i casi non prevenibili. Secondo lei è possibile?
Il Ministro Lorenzin fa bene a stabilire un obiettivo, è fondamentale avere un punto di riferimento per potersi migliorare. Non credo che si potrà arrivare al rischio zero ma è giusto avere, mi permetta la contraddizione dei termini, una “utopia possibile”. Così pure l’idea del Ministro di costituire l’unità di crisi è stata ottima e gliene va dato il merito, anche in relazione al tipo di funzioni affidategli.
 
A proposito dell’Unità di crisi, sappiamo da chi è costituita ma non sono ancora chiare le sue funzione, potrebbe indicarcele?
L’unità di crisi ha il compito di analizzare eventi sentinella di particolare gravità, di individuare con tempestività procedure e strumenti atti a ridurne il rischio di ripetizioni di tali eventi, di promuovere iniziative di livello nazionale per il miglioramento della sicurezza delle cure, nonché di coordinare e rendere più efficiente l’azione del Ministero della Salute e delle altre istituzioni coinvolte. In sintesi il suo obiettivo primario è mettere in sicurezza il sistema sanitario, fornendo al Ministro tutte le informazioni necessarie per farlo. Va detto che l’ufficio del governo clinico del Ministero, diretto dal Dottor Alessandro Ghirardini già svolgeva da anni con competenza questa funzione che con la costituzione dell’unità di crisi è stata notevolmente potenziata.
 
Tra le proposte formulate in questi giorni c’è quella dell’istituzione di un Registro sulle morti materne presso l’Iss. Cosa ne pensa?
È quello che già esiste e sta portando avanti molto bene l’Istituto Superiore di Sanità per alcune regioni campione. Esistendo però anche un Osservatorio nazionale degli eventi sentinella, sarà utile evitare duplicazioni che possono rappresentare anche per gli operatori sanitari un carico di lavoro in più. La morte materna è un evento sentinella per il quale esiste l’obbligo di segnalazione.
 
Quindi da un punto d vista organizzativo quale strategia sarebbe auspicabile?
Che il registro diventi componente stabile dell’Osservatorio Nazionale sugli eventi sentinella. Per questo è necessaria una stretta collaborazione tra Ministero, Agenas e Iss. La semplificazione è d’obbligo. Vorrei però anche dire che Ministero, Istituto superiore di sanità, Agenas e Regioni stanno lavorando molto bene per elevare i livelli di sicurezza delle cure e dobbiamo sviluppare e favorire ancora di più l’introduzione di pratiche cliniche sicure, a prova di errore. La gestione del rischio clinico non è materia da avvocati o assicuratori, come talvolta si ritiene, ma è la capacità di controllo e contenimento dei rischi correlati alla pratica clinica e non può che spettare a medici e infermieri e a tutti gli operatori sanitari occuparsene.
 
Ester Maragò

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