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Lunedì 18 GENNAIO 2016
Responsabilità professionale. Tutti i dubbi sulla “rivalsa” della struttura sanitaria nei confronti dei professionisti sanitari dipendenti

È prevedibile che proprio la vaghezza del d.d.l. Gelli sul concetto di colpa grave, e quindi la possibilità di una sua ampia estensione interpretativa nella applicazione pratica, contribuisca ad incrementate le azioni di rivalsa da parte delle strutture sanitarie

L’art. 9 del d.d.l. Gelli, poco considerato nel pur acceso dibattito che riguarda il d.d.l. nel suo complesso, tenta di sistematizzare la disciplina della rivalsa nei confronti del professionista dipendente della struttura sanitaria.
 
Le questioni legate alla materia rivestono  interesse relativamente alle franchigie dei contratti di assicurazione ed ai periodi di scopertura assicurativa, che si verificano in caso di mancata partecipazione delle compagnie assicuratrici alle gare pubbliche indette dalle aziende sanitarie.
 
Da alcuni anni, il tema della rivalsa ha assunto ancor maggiore rilievo pratico, posto che varie Regioni  hanno adottato un sistema di autogestione assicurativa(denominato anche di autoritenzione o di autoassicurazione) del servizio sanitario ed altre hanno optato per franchigie elevatissime (500.000 euro).
 
L’art. 9 è prevalentemente dedicato all’azione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti dell’esercente la professione sanitaria e solo nel suo ultimo comma 8 all'esercizio dell'azione erariale da parte della procura presso la corte dei conti. La particolare attenzione del d.d.l. Gelli alle azioni di rivalsa promosse dalle strutture sanitarie non potrà non stimolare queste ultime ad implementare dette azioni nei confronti dei propri dipendenti.
 
Il comma 1 contempla che “L’azione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti dell’esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave”. Questo disposto riprende le fonti normative da tempo esistenti in materia di rivalsa nei confronti del dipendente pubblico, sottolineando che tale azione è connessa al solo “caso di dolo o di colpa grave”, ma propone una equivoca voce verbale “può” (essere esercitata), la cui accezione è discutibile, potendo essere alternativamente intesa come esprimente  una mera opzione (e non un obbligo) o come determinante una delimitazione (l’azione di rivalsa è ammissibile “solo” in quei casi).
 
È impensabile che il “può” stia ad indicare una mera facoltà della struttura sanitaria, perché ciò renderebbe di fatto inefficace il disposto dell’art. 22 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, “Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”, in base al quale, “L'amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente si rivale agendo contro quest'ultimo …”.
 
La rivalsa è dunque contemplata come attività propria dell’amministrazione e non come mera facoltà.Di conseguenza, è da ritenere congrua la seconda interpretazione del verbo “può”, coerente con la doverosità dell’azione di rivalsa da parte della struttura sanitaria. Certo è che, se questa interpretazione è – come crediamo – corretta, l’uso del verbo “deve” nel comma 3, in luogo di “può”, non creerebbe alcun equivoco.
 
Il nodo – al centro di un dibattito ormai storico – resta quello della nozione di “colpa grave”, pacifico essendo il concetto di “dolo”. Nel d.d.l. Gelli non vi è alcuna definizione di “colpa grave”. La locuzione figura anche nell’art. 590 ter, che il d.d.l. Gelli (art. 6, comma 2) prevede di introdurre nel codice penale. Nell’art. 590 ter essa compare sia nel primo sia nel secondo comma, sempre con riferimento agli articoli 589 e 590 (rispettivamente omicidio colposo e lesione personale colposa) del codice penale, e non è mai definita.
 
Il testo del secondo  comma dell’art. 590 ter può, ad una prima lettura, apparire utile ai fini di una interpretazione del concetto di “colpa grave”. In realtà, questo secondo comma contiene una indicazione in termini negativi, dalla quale si può solo ricavare quali casi non sono di colpa grave(il che avverrebbe “quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali”), ma non necessariamente in tutti gli altri casi va riconosciuta la colpa grave.
 
Inoltre, le prescrizioni dell’art. 590 ter sono limitate ad uno solo dei possibili elementi costitutivi della colpa, l’imperizia, che è citata espressamente nel primo comma e, con apposito rimando, anche nel secondo comma. Ciò è in linea con la sentenza della Corte costituzionale n. 166 del 22 novembre 1973: la negligenza e l’imprudenza (nonché l’inosservanza di leggi regolamenti ordini o discipline) di cui all’art. 43 del codice penale, rispondono alla regola del tutto o del niente – o sussistono o non sussistono –, non permettendo quindi una gradazione della colpa.
 
In sintesi, riconoscendo che il comma 2, che introduce l’art. 590 ter del codice penale, e l’art. 9 del d.d.l. Gelli esprimano una medesima filosofia, per di più coerente con l’insegnamento della Corte costituzionale,  non possiamo comunque ricavare dall’art. 590 ter indicazioni utili per una definizione esaustiva di colpa grave, in particolare volgendo al contrario il secondo comma di detto articolo.
 
In ogni caso, la definizione sarebbe parziale perché riguarderebbe solo alcuni casi di imperizia. Oltretutto, senza entrare nel dettaglio, è da ricordare che questi casi di imperizia sono suscettibili di varie e contrastanti interpretazioni, come dimostrato dalla attuale vivace discussione, sul significato delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali, iniziata con l’art. 3 della  legge 8 novembre 2012, n. 189, di conversione del c.d. decreto Balduzzi.
 
In conclusione, è prevedibile che proprio la vaghezza del d.d.l. Gelli sul concetto di colpa grave – e quindi la possibilità di una sua ampia estensione interpretativa nella applicazione pratica -,  contribuisca ad incrementate le azioni di rivalsa da parte delle strutture sanitarie, le quali sono esplicitamente individuate nel d.d.l. stesso come titolari dell’obbligo.
 
I commi dal 2 al 7 recano un insieme di indicazioni procedurali, che tendono a far chiarezza su alcuni aspetti, ma sono insufficienti a cogliere tutti i problemi ed i dettagli pratici della questione.  Non a caso, la Commissione Giustizia, che nello scorso dicembre ha espresso parere favorevole al d.d.l., ha proposto un testo alternativo, che riguarda proprio i commi  successivi al primo.
 
Senza, per ora, entrare nel merito dei singoli aspetti della restante parte dell’art. 9, intendiamo comunque valorizzare un principio che è affermato nel comma 3 (e ulteriormente tutelato nel comma 4): il diritto del professionista, quando non convenuto in giudizio dal danneggiato, di essere portato a conoscenza, mediante comunicazione formale da parte della struttura sanitaria,  “dell’instaurazione del giudizio risarcitorio”.
 
Finalmente una norma di legge sancisce che al professionista debba essere garantita la possibilità di difendersi, nell’ambito del giudizio risarcitorio promosso contro la struttura sanitaria.
 
Che una difesa sia, in questi casi, opportuna discende anche da due drastiche, esplicite, indicazioni del d.d.l. Gelli:
- la prima è riportata nella seconda frase del comma 3, che specifica che la comunicazione al professionista “deve contenere l’avviso che la sentenza di condanna che ne abbia definitivamente accertato la responsabilità per dolo o colpa grave farà stato nei confronti del professionista nel giudizio di rivalsa”; qui si fa riferimento alla sentenza, di condanna della struttura sanitaria al risarcimento al danneggiato, emessa relativamente ad un processo celebrato anche in assenza del professionista la cui prestazione sia stata accertata come caratterizzata da dolo o colpa grave;
- la seconda è contenuta nel comma 7 e concerne l’eventuale successivo giudizio di rivalsa – attivato dalla struttura sanitaria nei confronti del professionista – e che contempla che, in tale giudizio appunto, “ il giudice può desumere argomenti di prova dal materiale probatorio acquisito nel giudizio instaurato dal paziente nei confronti della struttura sanitaria”.
 
Resta aperta una questione: se il diritto di essere portato a conoscenza di una richiesta di risarcimento è limitato alla eventualità menzionata nel comma 3 o se debba essere garantito anche nella fase di richiesta stragiudiziale.
 
Il d.d.l. Gelli tace sul punto, ma stabilisce esplicitamente, nel comma 2,  che  la struttura sanitaria può esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del professionista  successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo non solo giudiziale o ma anche stragiudiziale.
 
In quest’ultimo caso, la struttura sanitaria, prima di riconoscere un risarcimento stragiudiziale,  dovrà aver attivato autonome forme di valutazione, di carattere sostanzialmente medico-legale, ed è nel corso di questa specifica indagine che sarà valutato il diritto al risarcimento del richiedente e la eventuale colpa del professionista sanitario e le sue caratteristiche. Una siffatta procedura (o altra analoga) non è menzionata nel d.d.l. Gelli, ma è il presupposto indispensabile per un riconoscimento del risarcimento stragiudiziale: vanno quindi considerati i problemi pratici della stessa.
 
Orbene, il nostro convincimento è che da subito debba essere fornita comunicazione al professionista sanitario di questa indagine che lo riguarda. È opinabile che egli sia avvertito di una valutazione di sussistenza di colpa grave solo dopo la conclusione dell’indagine promossa dalla struttura.
È inammissibile l’eventualità che l’avviso sia dato a risarcimento stragiudiziale avvenuto.
 
L’opportunità di una comunicazione precoce al professionista sanitario nasce dal fatto che, soprattutto in caso di autogestione assicurativa o di franchigie elevatissime,  ma anche nel caso di franchigie relativamente modeste e/o di temporanea scopertura assicurativa,  esiste conflitto di interessi fra il professionista e la struttura sanitaria, che non ha alcun dovere e, spesso, alcun vantaggio,  a difendere la specifica condotta di un dato professionista.
 
Anzi, la struttura sanitaria potrà assumere un atteggiamento di censura particolarmente severa verso l’operato del professionista al fine di pervenire a quel giudizio di colpa grave che è presupposto dell’azione di rivalsa. È vero che il professionista potrà sempre difendersi, ma l’esperienza insegna che la difesa è ben più ardua quando occorre contrastare un teorema accusatorio già strutturato, dovendosi oltretutto avvalere di ricordi lontani nel tempo.
 
Riteniamo fermamente, dunque, che una procedura analoga a quella prospettata nel comma 3 circa la comunicazione da parte della struttura sanitaria,  “dell’instaurazione del giudizio risarcitorio” debba essere attivata anche nel caso di richiesta di risarcimento stragiudiziale. In pratica, recepita detta richiesta, la struttura sanitaria ne estenderà – secondo modalità formali da precisare opportunamente – la conoscenza a tutti i professionisti che hanno prestato la loro opera in relazione ai fatti.
 
Non vale l’obiezione che costoro possano essere di difficile identificazione se non sono espressamente citati nella richiesta del danneggiato; il problema andrà di volta in volta affrontato e risolto dall’amministrazione prima dell’avvio dell’indagine medico-legale. 
 
In ogni caso, le modalità di identificazione saranno analoghe a quelle previe alla comunicazione prevista dal comma 3, posto che il medesimo problema può esistere, e la medesima obiezione può essere fatta, anche quando, nella chiamata in giudizio dell’azienda sanitaria, non siano specificati i singoli professionisti.
 
Riteniamo inoltre, altrettanto fermamente,  che una siffatta prassi sia comunque doverosa, ora e anche prima, a prescindere dall’approvazione parlamentare del d.d.l. Gelli. Non siamo a conoscenza di fonti che regolino la specifica materia, ma riteniamo che lo spirito delle norme relative ai provvedimenti disciplinari siano in linea con la tesi da noi sostenuta. 
 
L’art. 7, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nota come Statuto dei lavoratori, stabilisce che “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa.” L’art. 55 bis, comma 2,  del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, prescrive che il responsabile della struttura, quando  ha notizia di comportamenti punibili con sanzioni disciplinari, contesta l'addebito al dipendente senza indugio e comunque non oltre venti giorni e lo convoca per il contraddittorio a sua difesa.
 
Anche l’art. 12, comma 2, del contratto collettivo nazionale del Comparto del Servizio sanitario nazionale del 19 aprile 2004 si esprime in senso analogo: la contestazione dell’addebito è da effettuare tempestivamente e comunque entro 20 giorni da quando l’ufficio istruttore dell’azienda è venuto a conoscenza del fatto.
 
In pratica, in analogia con i disposti citati, la struttura sanitaria, recepita la richiestadi risarcimento stragiudiziale, ne comunicherà, senza indugio e comunque non oltre 20 giorni, il contenuto ai professionisti interessati. Contestualmente, la struttura sanitaria dovrà specificare che eserciterà l’azione di rivalsa anche in caso di riconoscimento stragiudiziale di colpa grave e dovrà garantire procedure che permettano al professionista sanitario di partecipare da subito alle indagini medico-legali promosse dalla struttura stessa o di nominare un proprio consulente tecnico.   
 
Daniele Rodriguez e Anna Aprile
Professori di Medicina legale
Università degli Studi di Padova

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