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Giovedì 17 MARZO 2016
Il caso Bologna e la necessità di separare il loglio ed il grano

Si discetta sul principio della legge, per quanto antica: ossia il rispetto delle regole e dell’autonomia decisionale degli Ordini. Che nel caso Bologna forse appare una decisione forte, ma non estemporanea o “di pancia”: Bologna ha agito nel rispetto delle regole e delle leggi, perché, per rispondere ai vari giuristi, nessuna decisione regionale (delibere) può sostituire le leggi dello Stato. 

Il loglio e il grano. Due componenti essenziali in natura, ma divisi e diversificati quando si va al raccolto. O addirittura ancor prima. Non certo per allegoria alimentare o biblica, si cita la zizzania, il loglio appunto, che oggi si ricerca nei problemi sociali. Orbene, separare il loglio dal grano è oggi motivo del contendere fra chi esplica un’azione e chi invece la condanna. E qui sta il problema, quale sia il loglio e quale il grano. Il campo coltivato è quello, da taluni vissuta, della disfida del 118, sulla cui scena ci sono tanti attori e almeno un regista. Su questo passatemi una licenza: non uno, ma tanti i registi. Troppi.

Ma è un discorso lungo magari da fare, poi. E ci sono gli irati che si muovono in Parlamento, dove interrogano, o in Senato, in cui intervengono con giusto applauso dalla sua parte. C’è chi si è prodotto in una disamina sulle leggi vetuste, antiche, del secolo scorso. Vecchie leggi, ma ancora operanti. Forse un “pezzo d’antiquariato legislativo”. Ma non bisogna parlarne: non ti inimicare i politici che poi te la fanno pagare, diceva una nonnetta partigiana della prim’ora, guardando certi suoi supposti compagni di viaggio in quella politica in cui, credendoci, aveva perso fratello martire ed ella stessa era stata più volte capace di mangiare gli ordini partigiani quando, da giovine staffetta, era stata fermata dai tedeschi. Non era buona la carta scritta, ma a parte le poche vitamine che conteneva, la carta, è stata floridamente in vita fino a tarda età. Non ti inimicare i politici che poi te la fanno pagare. Ma erano chiacchiere. Oggi ci sono altrettanto chiacchiere e poca memoria. Anche dei combattenti nel nome della giustizia e della libertà, di pensiero e contro i soprusi.

Cosa c’entra tutto ciò con la sanità e le recenti polemiche sul 118? C’entra, c’entra. C’entra perché sul caso c’è in essere una battaglia ideologica al grido “aboliamo la classe medica”, anche se è pessimo considerarla una classe, quella dei medici. Il dogma della fine impietosa passa per il “narrato” dei disegno di legge di oggi, responsabilità e riforma degli Ordini.
 
Un dogma quasi per caso? No, non per caso. In una religiosità laica, l’ossimoro che ha un senso, si prega: non nominare il nome del medico perché è cosa vana. Così da vedere seguito, non solo a parole, l’invito peritale a “togliere medico” negli articoli dei vari PDL. Ma passata la bufera legislativa si aspetta in silenzio il risultato delle audizioni della Commissione sanità del Senato.

Nel frattempo Bologna, la dotta, è al centro della bufera e si permette di portare alla ribalta il Consiglio provinciale dell’Ordine che, col piglio di voler applicare e non interpretare il Codice Deontologico della professione medica; si permette di agire peraltro in osservanza di leggi dello Stato e per di più osa. Osa giudicare autonomamente l’operato di alcuni medici rei di essersi comportati non opportunamente, dopo aver avuto assicurazione di ridiscutere sui temi della professione e della delega dalla Regione, che ha troppe amnesie.

E ancora giù, giudizi sferzanti verso la FnomceO, rea di aver avvallato una decisione collegiale del consiglio nazionale che, impunito, ha pensato d’avvallare il giudizio di Bologna. Bologna, il loglio di prima che è zizzania. A dire il vero è assai difficile in questa situazione separare il grano dal loglio, perché non si sa quale sia il loglio e quale sia il grano. O meglio lo si sa benissimo. Visto che a scagliare la prima pietra forse sono i non immuni da peccato. Non v’è irriverenza nel dirlo. Solo constatazione.

Si discetta sul principio della legge, per quanto antica, perché dell’altro secolo: ossia il rispetto delle regole e dell’autonomia decisionale degli Ordini. Che nel caso Bologna, se di caso si può parlare, forse appare una decisione forte, ma non estemporanea o “di pancia”: Bologna ha agito nel rispetto delle regole e delle leggi, perché, per rispondere ai vari giuristi, nessuna decisione regionale (delibere) può sostituire le leggi dello Stato, neanche se fatte dalla Regione Toscana o Emilia. E ogni sviluppo delle professioni dev’essere armonico in un sistema certo di formazione, competenze e responsabilità. Antico adagio, non tanto del secolo scorso, ma di due millenni e mezzo. E non parliamo di opportunità.

Altroché antiquariato: modernità da ritorno al futuro. Nella società delle deregulation ci sono aspetti contraddittori. Basti pensare che la legge degli Ordini è alla base della nuova legge in discussione al alla Camera – il decreto Lenzi – sulla creazione dei nuovi Ordini delle professioni sanitarie. È davvero questa la modernità di cui si parla? Forse, per essere moderni, si dovrebbe ragionare diversamente proprio su questa specie di riforma degli Ordini. Anche per gli uffici di Via dei Gracchi? Per lo stabile in questione, complimenti. Ma andiamo con ordine.

La legge del ’46 è del secolo scorso. Ma a parlarne, guarda caso, è un appartenente proprio del secolo scorso, come peraltro molti di noi che scriviamo su questo importante giornale e coloro che siedono al Parlamento. Tutti matusi, per usare un termine dell’antichità sociale. Un ragionamento importante me lo ha suggerito un bell’articolo di Giannantonio Stella sul settimanale del Corriere, Sette, riguardo la vetustà e la giustizia. Si leggeva delle affermazioni preoccupate del primo presidente della Suprema Corte, Giovanni Canzio – e gli siamo vicino quando le esprime – riguardo l’aumento progressivo dei ricorsi, esagerati fino agli attuali 105 mila e oltre, con un flusso di 80 mila nuove istanze ogni anno. Per liti al di sotto dei mille e duecento euro, il cui problema - e qui sta il bello – trattato in punta di diritto, è andato a soluzione ieri l’altro: ben sei secoli orsono una donna piccoletta di statura, come erano tutti i figli di Sardegna, Eleonora d’Arborea grande esempio di virtù, ai tempi dei giudicati aveva trovato una saggia soluzione.
 
Nella sua “Carta de Logu”, nota i giuristi, aveva stabilito “ordiniamo per limitare le spese ai sudditi e ai litiganti per liti inferiori a 100 soldi che sia vietato appellarsi a Noi - giudice Eleonora (ndr) – o ad altri funzionari regi” e a fronte di insulsa volontà di ragione “l’appello non dev’essere accettato e la sentenza dei nostri funzionari deve considerarsi definitiva”. Ogni commento è davvero superfluo: la vorremmo applicata ai giorni nostri. Una modernità, nell’antiquariato legislativo. Così da apprezzare il grano, ben separato dal loglio. E oggi sappiamo che, comunque la si giri, a proposito di grano, la nostra volontà è quella di vedere rispettata una prerogativa nella legittima autonomia degli Ordini e ancor prima di rientrare nelle dinamiche di una coordinazione nelle scelte in sanità.
 
Per dirla con Platone nel Filebo: “il riso nasce dallo scarto che si crea tra quello che crediamo e quello che veramente siamo”. In altri termini la differenza tra sapere e non sapere, credendo di sapere. Da senzienti e ragionanti e non Parvenu dell’antico- moderno. E qui sta il dunque: il loglio e il grano. Tra una legge e un arcano.
 
Pierantonio Muzzetto
Presidente Omceo Parma – Consigliere Nazionale Fnomceo 

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