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Mercoledì 04 MAGGIO 2016
Negli Usa 250.000 morti l'anno per errori medici. È la terza causa di morte
Lo scrive il British Medical Journal che riporta le stime di due esperti della Johns Hopkins. Tre le ricette proposte per affrontare il problema: rendere gli errori più ‘visibili’ quando si verificano, così da poterne intercettare gli effetti; avere prontamente a disposizione un piano per proteggere i pazienti; rendere gli errori meno frequenti, seguendo delle strategie che tengano in considerazione i limiti umani
Malattie cardiovascolari e tumori sono le principali cause di morte nei Paesi industrializzati. Uno studio pubblicato dal BMJ svela ora anche da chi è occupato il terzo gradino del podio. E per molti sarà un’amara sorpresa.
Secondo Martin Makary e Michael Daniel della Johns Hopkins University School of Medicine infatti la terza causa di morte, e il dato è riferito agli Stati Uniti, sarebbero gli errori fatti dai medici, causa difficilmente desumibile dai certificati di morte e ovviamente non contemplata da un DRG o dalle schede di dimissione ospedaliera, dunque difficile da tracciare.
Gli esperti della Johns Hopkins chiedono dunque di affrontare adeguatamente il problema partendo dall’osservazione che negli USA i certificati di morte vengono compilati assegnando un codice ICD (International Classification of Disease); quindi tutte le cause di morte non associate ad un codice ICD, come il fattore umano o del sistema, sfuggono completamente. E non è un problema solo stelle e strisce, visto che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono 117 i Paesi ad aver adottato la codifica ICD, compresa l’Italia.
Ma forse qualcuno dovrebbe cominciare a porsi il problema di come codificare e quindi misurare l’errore umano, che solo negli USA avrebbe un impatto quantificabile intorno ai 210-400.000 decessi ospedalieri l’anno, secondo le ultime stime. Un dato confermato dagli autori dello studio pubblicato sul BMJ che, analizzando gli studi dal 1999 in poi ed estrapolando il dato al numero di ricoveri ospedalieri stelle e strisce del 2013, hanno calcolato un numero medio di decessi per errore medico di 251.454 l’anno.
Un numero che, inserito nella lista delle principali cause di morte negli USA stilata dai CDC ogni anno, fa balzare di colpo la new entry, finora condannata all’invisibilità, al terzo posto di questa classifica.
Per quanto scomodo da digerire, gli autori riconoscono che l’errore umano è inevitabile; tuttavia, pur ammettendo che non è possibile eliminarlo del tutto, invitano almeno a cominciare a ‘misurarlo’. Non in un’ottica inquisitoria, ma per progettare delle soluzioni migliori o più adatte a mitigarne la frequenza e soprattutto le sue conseguenze.
Secondo gli esperti americani le strategie volte a ridurre la mortalità da errori medici dovrebbero contemplare tre passaggi: rendere gli errori più ‘visibili’ quando si verificano, così da poterne intercettare gli effetti; avere prontamente a disposizione un piano per proteggere i pazienti; rendere gli errori meno frequenti, seguendo delle strategie che tengano in considerazione i limiti umani.
Un esempio pratico. Anziché ‘accontentarsi’ della causa di morte , gli esperti suggeriscono che nei certificati di morte venga indicato, in un campo a parte, l’eventuale presenza di una complicanza prevenibile, scaturita dal percorso di cura del paziente. Oppure potrebbero essere gli ospedali ad effettuare delle indagini indipendenti per valutare il potenziale contributo dell’errore umano nei decessi avvenuti tra i ricoverati.
“Misurare le conseguenze delle cure mediche sugli esiti dei pazienti – affermano gli autori – è un importante prerequisito per creare una vera cultura dell’imparare dagli errori per quindi favorire il progresso della scienza della sicurezza. Una solida metodologia scientifica, che parta dalla valutazione del problema è un punto critico nell’affrontare qualunque rischio per la salute dei pazienti. E’ necessario dunque promuovere un appropriato riconoscimento del ruolo degli errori medici nella mortalità dei pazienti per aumentarne la consapevolezza e indirizzare adeguatamente collaborazioni e investimenti di capitali in ricerca e prevenzione”.
Maria Rita Montebelli
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