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Venerdì 10 GIUGNO 2016
Test genetici per predire la comparsa del diabete e delle sue complicanze. La Sid fa il punto

Lo stato dell’arte della ricerca genetica nel campo del diabete è contenuto in un documento del Gruppo di studio ‘Genetica’ della Sid. Gli esperti della Società italiana di diabetologia mettono in guardia dai venditori di fumo: "Ad oggi, l’uso dei test genetici per predire la comparsa del diabete e delle sue complicanze è di scarsissimo valore nella pratica clinica".

Si chiama medicina di precisione e promette terapie ritagliate su misura del singolo paziente, evitando così farmaci inutili o dannosi e indirizzando le cure verso i trattamenti più efficaci per ogni singola persona. Gli strumenti dei quali si avvale questa branca della medicina sono i test genetici. Anche la diabetologia non sta a guardare e la ricerca genetica in questo campo è molto attiva. Come dimostra un documento appena licenziato dal Gruppo di Studio ‘Genetica’ della Società Italiana di Diabetologia che traccia lo stato dell’arte delle ricerche di genetica in questo campo. La domanda di base è se un giorno, o forse già oggi, la genetica potrà consentire di prevedere il rischio di sviluppare un diabete di tipo 1 o di tipo 2 e le sue complicanze. Una domanda che richiede urgente attenzione anche perché si moltiplicano di giorno in giorno in rete le iniziative commerciali che adescano i cittadini, promettendo risposte da cartomante della salute attraverso un campione di saliva. Cosa dice la scienza, quella vera, nel caso del diabete lo spiega il documento ‘Predizione genetica delle forme comuni di diabete mellito e delle sue complicanze croniche’ che ha anche un eloquente sottotitolo: ‘C’è ancora molto lavoro da fare!’
 
“Il diabete mellito – spiega Giorgi Sesti, presidente della Società Italiana di Diabetologia – è una condizione derivante da un insieme di fattori, ambientali e genetici. Questo documento è indirizzato non solo ai diabetologi ma anche a tutti i medici di medicina generale e specialisti di altre discipline in quanto vengono affrontati temi di interesse sia per le persone a rischio di sviluppo di diabete, che per le persone che hanno già una diagnosi di diabete”.
 
“La predisposizione genetica individuale alle malattie – afferma Vincenzo Trischitta, coordinatore del gruppo di studio ‘Genetica’ della Sid – rimane tipicamente invariata nel tempo, a differenza delle condizioni di rischio cliniche e ambientali. Questo determina la possibilità teorica di riuscire ad intercettare i soggetti ad alto rischio,anche molti anni prima dell’insorgenza della malattia, e dunque di impostare programmi precoci di prevenzione”.
 
Viste queste premesse, non sorprende che negli ultimi 6-7 anni, rispondendo alle aspettative di medici e pazienti, siano stati fatti diversi tentativi per commercializzare test genetici, basati sui risultati ottenuti dagli studi di associazione genome-wide (GWAS), con lo scopo di prevedere malattie multifattoriali, tra le quali appunto il diabete di tipo 1 (DMT1), il diabete di tipo 2 (DMT2) e alcune delle complicanze croniche del diabete.
 
Ma siamo veramente pronti per far entrare i test genetici nella pratica clinica del diabete?
 
Diabete di tipo 1. Nel caso del diabete di tipo 1, informazione genetica e consulenza genetica, possono essere di qualche aiuto in alcune famiglie con un’elevata presenza di individui affetti, ma non nella popolazione generale. La presenza di una rilevante componente genetica alla base dell’insorgenza della malattia è evidente: il rischio di sviluppare diabete di tipo 1 prima dei 20 anni è del 5% nei bambini nati in una famiglia con un membro affetto da questa condizione, mentre è solo dello 0,3% nella popolazione generale. Il 50% di questa suscettibilità genetica al diabete di tipo 1 è ‘scritto’ nei geni del complesso maggiore di istocompatibilità (HLA), sul cromosoma 6. Al di fuori di questa piccola regione del DNA, ne sono state individuate altre 60 che conferiscono suscettibilità al diabete di tipo 1, ma che non sono così importanti come i geni HLA. Quelle più studiate sono il gene dell’insulina (INS), del Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen (CTLA-4) e del Protein Tyrosine Phosphatase Non Receptor 22 (PTN22).
 
“La tipizzazione dei geni HLA – spiega Trischitta – insieme alla storia familiare di malattia e alla presenza di autoanticorpi (contro insulina, GAD, IA-2 e ZnT8), rappresenta attualmente il migliore approccio per la predizione del diabete di tipo 1. Nel singolo individuo la tipizzazione HLA potrebbe essere utile nei parenti di primo grado dei pazienti con diabete di tipo 1, permettendo di stimare il rischio della comparsa di autoanticorpi e dell’iperglicemia. Al di fuori dell’ambito predittivo inoltre, la tipizzazione HLA può aiutare a distinguere il diabete di tipo 1 da altre forme di diabete (ad esempio il MODY o diabete neonatale). Tuttavia, ad oggi non è stata individuata alcuna strategia per la prevenzione del diabete di tipo 1 e quindi una volta appurato un aumentato rischio di sviluppare la condizione morbosa non si sarebbe comunque in grado di prevenirla. Bisogna, dunque, chiedersi se i test di predizione del diabete di tipo 1 siano veramente utili ed eticamente giustificati sul versante medico-assistenziali o se invece non debbano ancora essere lasciati come utile strumento di ricerca nell’attesa che si individuino vere strategie di prevenzione di questa forma di diabete”.
 
L’utilità di prevedere la futura comparsa di diabete di tipo 1 è tuttavia di dubbia utilità, perché una volta appurata la presenza di un aumentato rischio non si sarebbe comunque in grado di prevenire questa condizione.
 
Diabete di tipo 2. Il diabete di tipo 2 è una malattia caratterizzata da una forte componente genetica, ma grandemente influenzata anche dallo stile di vita e da influenze ambientali e sociali. Il numero delle varianti genetiche associate finora al rischio di diabete di tipo 2 è in costante aumento e attualmente se ne contano 153. L’insieme di tutte queste varianti tuttavia spiega appena il 10-15% della ereditabilità del diabete di tipo 2.
 
Negli ultimi anni sono stati sviluppati molti modelli non genetici per la predizione del rischio di diabete di tipo 2, basati su età, sesso, etnia, adiposità, glicemia, storia familiare di diabete, componenti della sindrome metabolica. Al momento attuale l’associazione delle informazioni genetiche a questi modelli clinici e socio-demografici di predizione del rischio di diabete di tipo 2 aggiunge poco o nulla alla capacità predittiva complessiva di questi modelli. Sebbene la speranza per il prossimo futuro sia di poter utilizzare le informazioni genetiche anche per la pratica clinica, vi è ancora molta strada da fare e ad oggi le informazioni genetiche non sono in grado di migliorare in maniera importante i modelli di predizione del rischio di diabete di tipo 2, basati sui dati clinici e demografici. I pazienti dovrebbero essere dunque sconsigliati dall’effettuare i test genetici attualmente in commercio per la determinazione dei rischio individuale di diabete di tipo 2. Nel caso del diabete di tipo 2 la scoperta di una suscettibilità genetica scritta nel DNA di un individuo non aggiunge nulla di clinicamente rilevante, almeno per il momento, alle informazioni date da biomarcatori non genetici di facile reperibilità ed economici.
 
Complicanze del diabete. Il diabete rappresenta un importante fattore di rischio per complicanze micro e macrovascolari (amputazioni, cecità, infarti e ictus, insufficienza renale, fino alla dialisi). La suscettibilità genetica individuale può fortemente influenzare il rischio di sviluppare queste complicanze: del 20-44% per la malattia renale cronica, del 27% per la retinopatia diabetica, del 40-60% per la patologia coronarica. Tuttavia ad oggi, le informazioni sul background genetico delle complicanze del diabete a carico di reni, occhi, sistema nervoso periferico sono assolutamente insufficienti per consentire di prevederne il rischio.
 
Insomma ad oggi, l’uso dei test genetici per predire la comparsa del diabete e delle sue complicanze, per motivi diversi legati o all’impossibilità di prevenire alcune forme di diabete o alla scarsa capacità predittiva di questi test, è di scarsissimo valore nella pratica clinica. “Se è ragionevole ipotizzare – conclude Trischitta – che con il miglioramento delle nostre attuali conoscenze sulle cause genetiche del diabete, lo scenario possa cambiare nel corso del prossimi anni, oggi è da sconsigliare, senza se e senza ma, l’uso di marcatori genetici per la predizione del rischio individuale del diabete e delle sue complicanze croniche”.

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