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Venerdì 17 GIUGNO 2016
Cuore: con test alla troponina più facile individuare persone a rischio
(Reuters Health) - “Il test della troponina è sempre stato molto utile per diagnosticare problemi cardiaci, soprattutto nelle persone che accusano dolore al petto, ma l’introduzione di un nuovo test, più sensibile, potrebbe portare all’utilizzo di questo saggio come biomarker per le malattie cardiovascolari”, hanno scritto John William McEvoy e colleghi.
Lo studio
I ricercatori americani hanno analizzato i dati provenienti da 8.800 individui che non avevano mai sofferto di malattie coronariche o di insufficienza cardiaca e che avevano fatto il test ad alta sensibilità per la troponina due volte negli ultimi sei anni. Durante il periodo di studio, McEvoy e colleghi hanno registrato 1.157 casi di malattia coronarica, 965 casi di insufficienza cardiaca e 1.813 decessi.
Mentre un aumento di 0,005 ng/mL del valore di troponina è risultato essere indipendente rispetto ai casi di malattie cardiache riscontrati, un incremento maggiore, fino a 14 ng/mL, è stato invece associato a un aumento di quattro volte del rischio di incorrere in malattie coronoariche o di morte e a un aumento di otto volte del rischio di soffrire di insufficienza cardiaca.
I commenti
“Il punto chiave è che test ripetuti sono più utili del risultato di un singolo esame – ha dichiarato McEvoy –. Anche se il risultato è stato più evidente per predire l’insufficienza cardiaca, abbiamo avuto anche un buon grado di previsione su malattie coronariche e morte”. Inoltre, “test ripetuti per questo biomarker possono fornire informazioni aggiuntive se valutati insieme ai fattori di rischio tradizionali”.
Insomma, secondo il ricercatore americano, il test “potrebbe essere utilizzato sia nel campo della ricerca, per arruolare nei trials clinici pazienti ad alto rischio di soffrire di malattie al cuore, che nella pratica clinica, per individuare i pazienti più a rischio e attuare programmi di prevenzione mirati”.
Secondo James Januzzi, del Massachusetts General Hospital di Boston, che ha commentato lo studio, “il problema ora non è se possiamo prevedere questi eventi, ma se questa informazione può influenzare nel dare cure migliori ai pazienti ad alto rischio. Se con un biomarker riuscissimo a prevedere un evento cardiovascolare – ha spiegato l’esperto alla Reuters Health – dovremmo riuscire a ridurre il rischio con un intervento terapeutico”. In ogni caso, “l’uso di questi biomarkers sembra una via percorribile anche dall’esperienza fatta nel nostro Centro”, ha concluso Januzzi.
Fonte: JAMA Cardiol 2016
Marilynn Larkin
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)
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