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Martedì 01 AGOSTO 2017
Il valore del “tempo” nella riabilitazione



Gentile Direttore,
“Avrei voluto scrivere una lettera più breve, ma non ho avuto il tempo”. Il famoso aforisma di Pascal rispecchia piuttosto bene la situazione in cui si trovano con preoccupante e crescente frequenza molti medici quando,  specie di fronte a persone con patologie croniche o complesse, debbono ascoltare, visitare, prendere decisioni e condividerle con il paziente in una manciata di minuti, dedicati anche a redigere la necessaria documentazione clinica.
 
Il tema è salito alla ribalta a dopo gli eventi delle ultime settimane, quando i provvedimenti proposti da alcune Regioni, che definivano unilateralmente rigidi limiti temporali alle attività specialistiche ambulatoriali, hanno determinato una forte presa di posizione da parte della FNOMCeO, nettamente e comprensibilmente contraria al metodo ed al merito con cui sono state prese tali iniziative.
 
La SIMFER non può che condividere preoccupazione e contrarietà circa un approccio che è stato definito “Tayloristico”, e che sembra intervenire settorialmente su un solo singolo aspetto, senza nessuna apparente visione sistemica del processo di cura.
 
Come considerazione generale, questo episodio conferma quanto possa essere ancora ampia e preoccupante la divergenza fra clinici e programmatori sulle modalità di gestione di una risorsa fondamentale, non recuperabile né riciclabile, come il tempo.
 
Anche a prescindere dagli aspetti “deontologici”, è convinzione diffusa e giustificata fra gli operatori sanitari che avere il giusto tempo a disposizione si traduca in una relazione più stabile ed efficace con il paziente, maggior possibilità di favorire una adesione consapevole e motivata al piano di cura, maggiore efficacia terapeutica, nonché in una riduzione complessiva del tempo di presa in carico successiva e delle risorse impiegate.
 
E’ noto che la valorizzazione di questi aspetti comunicativi e del tempo utilizzato per l’ascolto reciproco nella relazione medico-paziente fanno parte di approcci molto diffusi negli ultimi anni, come “Choosing Wisely” negli USA, e “Slow Medicine” nel nostro paese, e più in generale rientrano nell’area delle “Medical Humanities”.
 
Un’obiezione frequente alla richiesta di un aumento del tempo da dedicare al paziente è legata a motivi di ordine economico, e cioè alla necessità di aumentare efficienza e produttività dei processi di cura  a fronte di una crescente contrazione delle risorse disponibili.
 
Tuttavia, molti dati indicano il contrario: investire maggior tempo nella visita, nell’ascolto e nella relazione comporta non solo un’assistenza di migliore qualità, ma anche un sensibile risparmio di tempo e costi nelle fasi successive.
 
Ci sono evidenze di questo in diversi settori, che vanno dall’assistenza dialitica, alla chirurgia, alle problematiche oncologiche, alle situazioni di multimorbidità e cronicità, alle condizioni disabilitanti di interesse riabilitativo. Derek Haas e coll,  in un contributo su “Harvard Business Review” del 2014, concludono che “tentare di aumentare la produttività del medico ponendo limiti arbitrari alla durata delle visite…riduce i costi all’inizio del ciclo di cura…ma comporta costi molto maggiori nelle fasi successive…”
 
Oltre al tempo per una migliore relazione con il paziente, anche quello per la comunicazione fra professionisti si rivela un investimento, se ben utilizzato: ad esempio uno studio di Kaiser Permanente Colorado ha evidenziato che un approccio multiprofessionale e coordinato alle patologie croniche, con una accurata identificazione dei bisogni e delle priorità del paziente, comporta un aumento del 21% dei costi di visita, ma anche un risparmio del 74% dei costi di trattamento.
 
Il tempo della cura ed il tempo della comunicazione nella cura meritano quindi un ben maggiore livello di  riflessione ed analisi rispetto alla pura contrapposizione fra  l’efficientismo aziendalistico  e la necessaria difesa dell’autonomia professionale.
In fondo, non è proprio la maggiore disponibilità  di tempo dedicato all’ascolto, vera o presunta che sia, alla base delle popolarità di molti approcci di cosiddetta “medicina alternativa”? E’ il caso di lasciare tale privilegio solo a queste pratiche, spesso prive di un serio fondamento scientifico?
 
Queste considerazioni sono di particolare rilevanza nel campo dell’assistenza riabilitativa: il processo di presa in carico in  Medicina Fisica e Riabilitazione necessita di tempi sufficienti per la valutazione corretta della persona e del suo ambiente, secondo l’approccio biopiscosociale che ne è un elemento caratterizzante. Tempi adeguati sono inoltre necessari per lo sviluppo di una relazione di cura che superi le asimmetrie di conoscenze e di cultura, nonché per la comprensione e condivisione del Progetto
 
Riabilitativo con la persona presa in carico e per la comunicazione fra i diversi componenti del team curante.
 
Molte esperienze dimostrano che se questi tempi vengono eccessivamente compressi o irrigiditi, si ricorre in maggior misura ad accertamenti diagnostici e  i periodi di trattamento tendono a prolungarsi, anche per una minore adesione alle proposte terapeutiche da parte del paziente.
 
Da tempo la SIMFER sottolinea questi aspetti, validi in tutti i contesti in cui si sviluppa l’assistenza riabilitativa: ambulatoriale, di degenza, territoriale e domiciliare. In particolare, l’attività ambulatoriale è fra quelle maggiormente esposte alla pressione per il contenimento dei tempi di visita e valutazione, con tutte le conseguenze negative sul prosieguo della presa in carico che è facile immaginare. Questa situazione discende anche dal persistere di una visione organizzativa che segmenta il percorso di cura in prestazioni discrete, valutative o terapeutiche, con prevalente enfasi sugli aspetti quantitativi dell’offerta e sul solo efficientamento delle risorse impiegate per ciascuna singola fase.
 
Questa prospettiva “prestazionale” si rivela spesso poco efficace, non solo sul piano della qualità delle cure, degli esiti e della soddisfazione del paziente, ma anche sul piano della sostenibilità. Essa infatti può generare fenomeni incrementali che finiscono  poi per essere controllabili solo con logiche di contrazione unilaterale  delle risorse, come sembra indicare il recente caso dei “tempari”  regionali.
 
A giudizio della SIMFER, che ha definito proposte operative articolate su questo punto,  tale prospettiva va modificata prendendo in considerazione l’episodio assistenziale nel suo complesso. Non quindi una semplice sommatoria di  singole prestazioni ma un coerente,  flessibile aggregato di prestazioni organizzate secondo un Progetto Riabilitativo
 
Individuale, in cui sia riconosciuto anche il valore delle attività di tipo comunicativo-informativo, educazionale, motivazionale che ne costituiscono parte integrante, e siano valorizzate le dimensioni di continuità assistenziale e degli esiti.
In questa visione, le  molte attività che rientrano sotto la definizione di “visita” fisiatrica assumono un ruolo cruciale, per loro valore clinico, relazionale, gestionale: dal tempo e dal modo con cui questa fase viene condotta discendono per gran parte la qualità, la durata e gli esiti della presa in carico.
 
 
Paolo Boldrini
Presidente – Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa

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