quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Venerdì 03 NOVEMBRE 2017
Alzheimer: uno studio supporta il sospetto che possa ‘trasmettersi’ con le trasfusioni di sangue

E’ la prima ricerca al mondo a dimostrare che la beta-amiloide, proteina cardine nella patogenesi dell’Alzheimer, può trasmettersi attraverso il sangue da un animale all’altro, inducendo nell’arco di pochi mesi delle alterazioni patologiche tipo Alzheimer nel cervello degli animali sani. Viene così dimostrato il ruolo della beta amiloide circolante, oltre che di quella cerebrale, nel determinismo di questa patologia. Una scoperta che apre la strada a nuovi target terapeutici, ma che solleva anche dubbi circa un possibile ‘contagio’-Alzheimer attraverso le trasfusioni che potrebbe avere una latenza di decenni.

E’ possibile ammalarsi di Alzheimer attraverso le trasfusioni? Il dubbio aleggia da tempo, anche perché è noto che le malattie da prioni come delle varianti della malattia di Creutzfeldt-Jakob (la ‘mucca pazza’) possono trasmettersi attraverso il consumo di carne e con le trasfusioni. Ma adesso, per la prima volta, uno studio pubblicato su Molecular Psychiatry suggerisce che anche l’Alzheimer potrebbe essere trasmesso attraverso il sangue di un individuo affetto dalla malattia. Sul banco degli imputati la beta-amiloide, una proteina ‘misfolded’ che gioca un ruolo centrale nella patogenesi dell’Alzheimer e che viene prodotta direttamente nel cervello ma anche in alcuni tessuti periferici, da dove passa nella circolazione generale.
 
Le similitudini di patogenesi tra Alzheimer e malattie da prioni,risalgono ad almeno mezzo secolo fa, all’epoca in cui la terapia con Growth Hormone (GH) veniva fatta con il GH estratto dai cadaveri; molti dei soggetti trattati con il GH umano (estratto inconsapevolmente da cadaveri con malattia da prioni) hanno in seguito sviluppato la Creutzfeldt-Jakob; ma alcuni di questi, come dimostrato da studi autoptici, sono risultati portatori di placche amiloidi nel cervello, una tratto caratteristico dell’Alzheimer, nonostante all’epoca della morte avessero appena 50 anni.
 
Finora non era mai stato dimostrato che la beta amiloide circolante potesse contribuire allo sviluppo di patologie tipo Alzheimer.
Weihong Songe colleghi della University of British Columbia di Vancouver (Canada) sono andati ad indagare se questo potesse essere il caso, utilizzando un modello di parabiosi (gli animali erano collegati a coppie, chirurgicamente, in modo da condividere la stessa circolazione) tra un modello animale di Alzheimer (topi AD transgenici APPswe/PS1dE9, cioè portatori di un gene che codifica per la beta amiloide umana) e le loro controparti sane. In questo modo i ricercatori canadesi hanno potuto osservare che la beta amiloide umana, originata dai topi transgenici AD passava nella circolazione e si accumulava nel cervello dei topi sani, provocando così una forma di angiopatia amiloide e placche di beta amiloide, dopo un periodo di 12 mesi di parabiosi. I topi inizialmente sani presentavano così una serie di patologie tipo Alzheimer correlate all’accumulo di beta amiloide (iperfosforilazione, neuro degenerazione, neuro infiammazione e microemorragie). Nell’arco di qualche mese gli animali mostravano inoltre un’alterata attività cerebrale nelle regioni (es. ippocampo) deputate all’apprendimento e alla memoria.
 
Si tratta del primo studio a dimostrare che la beta-amiloide circolante può entrare nel cervello, dar luogo ad una serie di patologie tipo Alzheimer e indurre un deficit funzionale nei neuroni. Un risultato questo che supporta l’idea di sviluppare trattamenti per l’Alzheimer che abbiano come target il metabolismo della beta amiloide sia nel cervello che in periferia.
 
La beta amiloide emerge da questo studio come una proteina ‘infettiva’, capace di comportarsi alla stessa stregua dei prioni e in grado di ‘contagiare’ l’Alzheimer . Un’ipotesi tanto suggestiva quanto spaventosa, non suffragata tuttavia da uno studio pubblicato circa un anno fa su Annals of Internal Medicine a firma di Gustaf Edgren e colleghi del Karolinska Institutet di Stoccolma: l’analisi di un database di oltre 2,1 milioni di riceventi trasfusioni in Svezia e Danimarca non ha evidenziato un aumentato rischio di Alzheimer nelle persone che avevano ricevuto sangue da donatori affetti da morbo di Alzheimer. Gli autori di questo studio ammettono tuttavia che, per quanto vasto questo studio, il follow-up è stato di ‘soli’ 25 anni; ciò significa che è ancora aperta la finestra temporale perché emergano dei casi di Alzheimer correlati alle trasfusioni ‘infette’ dalla beta amiloide.
 
L’allarme insomma è stato lanciato. La buona notizia è che se questo meccanismo della beta amiloide circolante ‘infettiva’ venisse confermato potrebbero aprirsi delle nuove strade per la terapia di questa malattia, ancora orfana di trattamenti. E c’è inoltre chi già suggerisce di dosare la beta amiloide circolante per fare diagnosi di malattia.
 
Maria Rita Montebelli

© RIPRODUZIONE RISERVATA