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Lunedì 05 MARZO 2018
Diseguaglianze in sanità e sussidiarietà. Ragioniamo sulla proposta di Cittadinanzattiva

In un paese in cui il valore dell’eguaglianza in sanità è fortemente ridiscusso dalle politiche economiche dei governi, e dalle difficoltà delle Regioni, applaudo a chi continua a vedere all’eguaglianza come a un valore politico e sociale sulla base del quale distribuire nello stesso modo delle opportunità di salute. Ma a Cittadinanzattiva è doveroso chiedere alcuni chiarimenti sulla sua recente proposta per la riforma del titolo V

Viste le forti differenze di trattamento sanitario nel paese, Cittadinanzattiva, in occasione del doppio quarantesimo (della sua nascita e della nascita della riforma sanitaria) ha deciso di promuovere una campagna per l’eguaglianza del diritto alla salute.
 
Tale iniziativa è del tutto coerente con il suo costante lavoro di denuncia che, attraverso i suoi rapporti annuali, non ha fatto altro che dirci insistentemente che in Italia il diritto alla salute è diseguale.
 
In un paese in cui il valore dell’eguaglianza in sanità è fortemente ridiscusso dalle politiche economiche dei governi, e dalle difficoltà delle Regioni, applaudo a chi continua a vedere all’eguaglianza come a un valore politico e sociale sulla base del quale distribuire nello stesso modo delle opportunità di salute.
 
Ricordo che per “egualitarismo” si intende una concezione politico-sociale tendente a realizzare un'uguaglianza di fatto, fondata sull'equa e solidale ripartizione dei beni e delle ricchezze, tra tutti i membri della collettività. Cioè su una precisa concezione della giustizia. La salute è un bene solo se è giusta.
 
Siccome la questione è una “grande questione” e siccome oltretutto la proposta di Cittadinanzattiva è presentata addirittura come una proposta di riforma costituzionale, essa merita attenzione e considerazione.
 
Che cosa è la diseguaglianza?
La diseguaglianza in generale è una questione di divari sia quantitativi che qualitativi quindi è la relazione sussistente fra certe grandezze quando una è maggiore o minore dell'altra. Cioè fra disparità.
 
 
Nella proposta di Cittadinanzattiva le diseguaglianze riguardano i trattamenti sanitari di cui fruisce un cittadino nel sistema pubblico dato, ma siccome tali diseguaglianza  non sono null’altro che gli outcome (esiti, risultati, conseguenze) di certi sistemi organizzati definiti “servizi”, esse riguardano di fatto le relazioni di disparità che esistono tra servizi in un sistema sanitario assunto a scala nazionale.
 
Se dal punto divista ontologico intendiamo per “servizio” un ente complesso fatto da risorse, capacità, mezzi, contesti, possibilità, professioni, limiti di ogni genere, ecc., le relazioni di disparità sono relazioni tra gradi diversi di complessità. Vi sono diseguaglianze causate da carenze di risorse, o da carenze di capacità gestionali, o da carenze nelle politiche regionali, o da carenze di personale.
 
Le relazioni di disparità sono sempre relazioni tra de-ficienze (“de” che vale cessazione “facere” fare) cioè tra cose non fatte e che per via del diritto si sarebbero dovute fare.
 
I principi non bastano più
Per redimere le disparità non basta la forza del principio costituzionale, come al contrario sostiene, su questo giornale,D’Ambrosio Lettieri(24 febbraio 2018). Le complessità, se sono tali, meritano ben altro. Meritano riforme. I principi di uguaglianza già esistono nelle leggi, il problema è capire perché non sono rispettati da coloro che governano la sanità.
 
 
E poi non va dimenticato che le diseguaglianze, di cui parla Cittadinanzattiva, esistono storicamente, prima della modifica nel 2001 del titolo V e, allora come oggi esse riguardano l’allocazione delle risorse, la capacità delle classi dirigenti, il grado di corruzione, il rapporto tra privato e pubblico, i sistemi di accreditamento, l’affidabilità percepita dai cittadini nei confronti dei servizi pubblici, la mobilità inter-regionale, la qualità delle professioni ecc. Ribadisco le diseguaglianze in sanità   riguardano da sempre delle complessità, rispetto alle quali, i principi, da soli, si rivelano impotenti.
 
Imbalzano, a questo proposito sostiene che “non serve modificare il titolo V della Costituzione. È sufficiente modificare la distribuzione dei fondi disponibili e fare una buona programmazione nazionale” (QS 26 febbraio 2018). Sono tendenzialmente d’accordo con lui anche se la farei meno semplice. In funzione di una eguaglianza effettiva andrebbe ripensata l’idea di programmazione impostata su una idea di universalismo quale uniformità, cioè quel principio allocativo e organizzativo, che, per dare a tutti nello stesso modo, negano la realtà delle differenze, cioè non sono capaci di distribuire e di organizzare i servizi in modo discreto. Ma il problema comunque non si pone. A partire dai tagli lineari la programmazione ormai è praticamente morta.
 
Su questo problema non intendo dilungarmi rimando ad altro (I. Cavicchi: i mondi possibili della programmazione sanitaria, le logiche del cambiamento Mc Graw Hill 2012) Mi limito solo a dire a Pierluigi Marini, presidente Acoi, (QS 19 febbraio 2018), che le diseguaglianze  non sempre si risolvono con le standardizzazioni, anzi, spesso se pensiamo ai piani di rientro, ai criteri sulle quote capitarie ponderate, ai costi standard, le più grandi diseguaglianze nascono dall’imposizione,  a realtà differenti, di standard assurdamente aspecifici.  Aver imposto alla Campania gli standard dei piani di rientro l’ha trasformata in una vera emergenza epidemiologica. Cioè una tragedia sociale.
 
Da anni sostengo che l’uguaglianza vera, quindi un nuovo tipo di universalismo, si avrà quando, si adotterà una concezione di giustizia distributiva fondata sulla logica discretivache è l’unica che dà la possibilità di distinguere, ai fini dell’equità effettiva, le situazioni dalle situazioni i bisogni dai bisogni le realtà dalle realtà. Universale non vuol dire uniforme. Questa è la vecchia idea che 40 anni fa era dietro alla riforma del 78. Ma oggi sappiamo che fine ha fatto e la colpa non è del titolo V.
 
Ciò che è nato come uniforme si è affermato nella realtà, per tante ragioni, come difforme. Coniugare in modo nuovo “tutti” con “ciascuno” non è semplicissimo.
 
Diseguaglianze grandi e piccole
Oggi stanno per andare a regime ben altre diseguaglianze che non riguardano più il rapporto tra cittadino/servizio ma intere categorie sociali che grazie a mutue, assicurazioni, fondi detassati acquisiscono privilegi accentuando le disparità denunciate da Cittadinanzattiva.
 
Oggi siamo alle pre-intese tra certe Regioni e il governo che nel tentativo disperato di reggere il definanziamento sulla sanità prevedono una vera e propria deregulation a partire dalla libertà di istituire fondi integrativi. (QS 28 febbraio 2018).
 
Se non ho i soldi per la sanità e se non so come andare avanti non disponendo di nessun progetto riformatore, vero almeno, chiedono le regioni, ci sia permesso di contro-riformare la sanità. In nome “dell’autonomia virale” (Zaia) diseguaglianze a manetta.  Oggi nuove e grandi disparità esasperano vecchie piccole disparità. Concordo con quanto scritto da Troise sull’attacco frontale all’universalismo (QS 1 marzo 2018)
 
A Cittadinanzattiva chiedo pertanto alcuni chiarimenti e suggerisco, per la credibilità della sua importante campagna, di spiegarci il suo pensiero nei confronti delle diseguaglianze grandi e piccole, altrimenti la sua iniziativa rischia, suo malgrado, di apparire equivoca dal momento che occupandosi di certe discriminazioni e non di altre, potrebbe assecondare delle politiche economiche che puntano a mettere a sistema le diseguaglianze che essa intende giustamente combattere
 
Fare eguaglianza in un sistema concepito per discriminare non è logico.
 
Il combinato disposto
La campagna di Cittadinanzattiva ci viene proposta come una riforma costituzionale e più esattamente come una modifica al famoso titolo V. Ma è così? Soprattutto viene da chiedersi: ma come spera, Cittadinanzattiva, di modificare il titolo V dopo che questo tentativo è stato, con il governo Renzi, sonoramente battuto con un referendum. La loro proposta in realtà a me pare non sia una vera riforma costituzionale. E’ una proposta che appare come un “combinato disposto” di quello che già c’è a invarianza di poteri, ma soprattutto, da quello che si capisce, a costo zero per lo Stato.
 
 
La proposta non affronta i grandi squilibri tra poteri statali e poteri regionali e aziendali creati con la riforma del titolo V nel 2001 e non toglie poteri a qualcuno per darli a qualcun altro, essa fa un’altra operazione: integra o unifica l’art 117 della Costituzione con l’art 118. Cioè, a sistema istituzionale invariante, rimette in gioco i comuni e il discorso della sussidiarietà.
 
 
Chiediamo quindi a Cittadinanzattiva  se è cosi e comunque di chiarire meglio questo punto. Ho letto dell’adesione alla campagna, della Fnomceo (QS 27 febbraio 2018) che nelle sue motivazioni parla della necessità di modificare l’art 117, necessità che anche io condivido, ma la proposta di Cittadinanzattiva non modifica l’art 117. Credo che l’equivoco debba essere chiarito.
 
Il nuovo combinato disposto
 
Sui Comuni da anni sostengo due cose:
- non si può fare salute senza di essi, resta un errore averli spossessati di funzioni sanitarie
- la sussidiarietà per obiettivi di salute primaria è fondamentale
 
Il punto è che Cittadinanzattiva chiede ai Comuni e alla sussidiarietà non di intervenire per scopi di salute primaria ma per rimuovere le diseguaglianze di trattamento cioè di intervenire sul sistema squilibrato dei servizi, sulla loro funzionalità, sulle loro de-ficienze e quindi alla fine sulla loro gestione.
 
Questa proposta alle Regioni, a certe condizioni, potrebbe perfino fare comodo. Ma non solo. Se la sussidiarietà fosse interpretata a costo zero per il pubblico, potrebbe addirittura essere un vantaggio e spianare la strada all’applicazione della riforma del terzo settore fatta dal governo Renzi. Il terzo settore se fosse impiegato nei servizi per ridurre il costo della sanità pubblica sarebbe un vantaggio per le politiche di definanziamento quelle che ricordo spingono il sistema verso la privatizzazione cioè verso la disuguaglianze strutturali.
 
La domanda che sorge è: la sussidiarietà da chi è finanziata e da chi dovrebbe essere autorizzata?
 
Corpi intermedi
Se restiamo nel quadro finanziario attuale, che è di definanziamento, e restiamo nel quadro delle attuali competenze istituzionali del titolo V, escludo che la sussidiarietà possa essere finanziata dai Comuni che per la sanità non ricevono risorse, e men che mai dalle Regioni che non hanno gli occhi per piangere, anche se non si può escludere l’eventualità di un’intesa tra Regioni e Comuni sorretta da un trasferimento di risorse.
 
Se così è, ma attendo eventuali chiarimenti, l’unica possibilità è interpretare alla lettera l’art 118 e la legge di attuazione del 5 giugno 2003, n. 131, nel quale  il principio di sussidiarietà implica che:
- le diverse istituzioni, nazionali o regionali debbano tendere a creare le condizioni che permettono alla persona e alle aggregazioni sociali , i cosiddetti corpi intermedifamigliaassociazioni, volontariato) di agire liberamente senza sostituirsi ad essi nello svolgimento delle loro attività;
- l'intervento dell'entità di livello superiore per esempio la Regione, debba essere temporaneo e teso a restituire l'autonomia d'azione all'entità di livello inferiore per esempio il comune o il cittadino;
- l'intervento pubblico sia attuato quanto più vicino possibile al cittadino quindi prossimità del livello decisionale a quello di attuazione.
 
E se fosse un cavallo di Troia?
La dottrina sociale della Chiesa con importanti encicliche sulla sussidiarietà ha posto da anni il problema dei rapporti tra Stato e persona nel senso di difendere la persona dall’invadenza dello Stato, ma in sanità rispetto alla cura delle malattie, è bene che lo Stato sia in-vadente e non e-vadente. Le diseguaglianze si hanno quando lo Stato per mille ragioni è e-vadente.
 
Personalmente, avrei forti dubbi ad aderire ad una proposta che interpreta la sussidiarietà come una sanità delegabile ai corpi sociali intermedi quindi alla famiglia e al terzo settore. In questo caso non si tratterebbe più di una riforma ma di una controriforma.
 
Questo non vuol dire, sia chiaro, rifiutarsi alla sussidiarietà, ci mancherebbe, ma vuol dire delimitare bene gli ambiti di intervento dei corpi intermedi e di quelli pubblici chiarendo che i primi rispetto ai secondi svolgano una funzione del tutto ausiliaria.
 
Guai a noi se ciò non fosse. Ad esempio gravare le famiglie per ragioni di sussidiarietà del peso dell’assistenza agli anziani sempre meno autosufficienti oggi con i problemi socio-demografici che abbiamo, non è una grande idea. Oggi le famiglie soprattutto nei confronti dei non autosufficienti vanno aiutate dallo Stato che però non ha i soldi per creare i servizi giusti.  Ma se la sussidiarietà ha come dovrebbe avere una funzione ausiliaria nei confronti della gestione pubblica, mi chiedo, come farà a rimuovere le diseguaglianze strutturali di cui parla Cittadinanzattiva?
 
Queste non sono marginali, e ritenere di ricorrere alla sussidiarietà per risolverle, comporta per il cittadino un rischio di cure inadeguate, rispetto al quale, consiglio molta ma molta prudenza.
 
Il nostro sistema sanitario, escludendo la prevenzione, per la cura delle malattie si basa sulle seguenti funzioni: medicina di base, medicina specialistica ambulatoriale, ospedalità e farmaceutica.  Chiedo, rispetto a queste funzioni portanti quali le diseguaglianze e eventualmente quale il ruolo della sussidiarietà? La sussidiarietà in sanità per la cura delle malattie, non può surrogare lo Stato. Al massimo come già avviene può dare una mano nel trasporto dei malati, nell’assistenza a domicilio, forse un po di ambulatorietà ecc.
 
Sussidiarietà e de-finanziamento
 
Vorrei richiamare i dati recenti dell’Osservatorio sulla salute della Cattolica (QS 19 febbraio 2018). Non sono dati nuovi perché ribadiscono una realtà arcinota ma essi confermano quello che Geppo Costa ci dice da 40 anni e cioè che la salute “non è” uguale per tutti non solo per le “de-ficienze” organizzative di cui parla Cittadinanzattiva ma anche perché esistono i famosi “determinanti la salute”, che addirittura condizionano la nostra aspettativa di vita.
 
Se la sussidiarietà fosse impiegata per intervenire sui determinanti della salute non avrei alcun problema ad aderire alla proposta di Cittadinanzattiva. Se al contrario l’art 118 fosse usato per compensare in qualche modo il definanziamento del FSN sarei contrario.
 
E’ evidente che le diseguaglianze in ogni caso hanno rapporti con il definanziamento e che per fare le operazioni cheCittadinanzattiva auspica lo Stato deve mettere mano al portafoglio. A costo zero non si va da nessuna parte. Se per non spendere si ricorre alla sussidiarietà e ai corpi intermedi il discorso cambia.
 
Quale giustizia?
Prima di parlare di uguaglianza, chiedo a Cittadinanzattiva a quale ideale di giustizia vi ispirate? Perché questa domanda? Perché secondo me le discriminazioni prima di tutto non nascono dalle disfunzioni ma dalle ingiustizie. Quella finanziaria è la più clamorosa. E’ noto che il sud è finanziato meno del nord. E’ nota la questione dell’indice di deprivazione che le regioni del nord non vogliono accettare. E’ noto che per non perdere i proventi della mobilità sanitaria il nord non ha alcun interesse a rifinanziare il sud. Quindi non possiamo fare uguaglianza senza fare giustizia. E la giustizia finanziaria ho paura che non passi per la sussidiarietà ma per la solidarietà.
 
Quindi tenendo conto delle disomogeneità geografiche, culturali e finanziarie del nostro paese e del processo di privatizzazione in atto nella sanità pubblica, chiedo di nuovo: a quale teoria della giustizia si ispira la proposta di Cittadinanzattiva?
 
Ivan Cavicchi

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