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Lunedì 16 LUGLIO 2018
Tre aneddoti per la sinistra, che non c’è, e per un ministro 5 Stelle

Il nuovo ministro dovrà, esattamente come il PD, a sua volta, riesaminare il concetto di cambiamento e di riforma, e riformare ciò che sino ad ora non è mai stato riformato. Ne sarà capace? Avrà la volontà politica di farlo? Il programma glielo permetterà? Non lo so…

Gli aneddoti, anche se non hanno scopi storiografici ci aiutano a capire le cose molto più di tanti documenti. Attraverso i loro personaggi essi rendono più storia la storia, e ci danno la sensazione di usufruire di una conoscenza più reale e meno ufficiale. Gli aneddoti che vi proporrò sono stati scelti per parlare del difficile rapporto tra riforme e sinistra e della difficile impresa del riformare.
 
Maccacaro: cronaca di una morta annunciata
Alcuni, per darsi un tono di sinistra, lo usano a sproposito come il prezzemolo mettendolo ovunque nei loro articoli. Ma senza averlo mai conosciuto. Io l’ho conosciuto quando lui dirigeva, per Feltrinelli, la collana “medicina e potere”.
 
Cercai Maccacaro che, insieme a Giorgio Bert, fu uno dei miei maitre a pensér giovanili, per proporgli un libro che raccontasse quello che mi era accaduto. Cosa era accaduto? Che quando aprii a Grosseto con Grazia Mereu il primo consultorio pubblico in Italia, non c’era niente di simile per cui necessariamente ci inventammo un modello di servizio, facendo nostre, per prima cosa, le istanze che ci venivano dal mondo delle donne.
 
Poi però uscì la legge che nonostante la sua straordinaria importanza ci fece in un certo senso regredire.  Il nostro consultorio era per la donna e per la coppia, gestito socialmente dalle donne, quindi non solo un ambulatorio, pensato per intervenire nel territorio, nella scuola, nelle comunità e in ospedale.
 
Quindi un anti ambulatorio che metteva al centro, al posto “dell’utero della donna e del prodotto concepito” (la riduzione ontologica dell’Onmi altrimenti detta “materno-infantile”) la donna cioè un soggetto complesso inventando sulla sua complessità l’organizzazione del lavoro più adatta. La legge 405 impose il modello di servizio vecchio e classico di un nuovo ambulatorio che si aggiungeva ad altri ambulatori e null’altro.
 
Ma il consultorio ridotto a ambulatorio non era in grado di cogliere e di confrontarsi con la complessità socio-biologica sanitaria della donna. Per cui ci voleva ben altro. Iniziai così a rompere le scatole con il “dipartimento per la salute della donna” ma un dipartimento vero non di quelli finti come quelli fatti sino ad ora. Qualche anno dopo, quel dipartimento, fui chiamato a sperimentarlo nella Usl Lt 5 di Terracina con risultati sorprendenti.
 
All’inizio dei problemi del consultorio ne parlai a Leda Colombini, indimenticabile deputato del Pci, allora assessore regionale agli Enti locali e ai servizi sociali del comune di Roma Mi disse sorridente prendendomi un po’ in giro “ma insomma, abbiamo appena conquistato la legge e già la vuoi cambiare”.
 
Il suo realismo da ex bracciante ovviamente non era del tutto fuori posto, tuttavia ero arci convinto che il consultorio avrebbe fatto una brutta fine e mi sembrava giusto dirlo. Anzi era mio dovere dirlo. A Maccacaro chiesi di pubblicare, nella sua collana, un libro chiaramente di sinistra, che spiegasse perché il consultorio avrebbe fatto una brutta fine e perché per evitare il peggio avremmo dovuto fare ben altra riforma.
 
Maccacaro da subito si dimostrò entusiasta dell’idea ma, soprattutto, non lo scandalizzava per niente una proposta che sviluppasse la legge 405 perché per lui quello che contava era lo scopo cioè “inventare” la sanità adatta per la salute della donna. Cominciai a scrivere il libro ed ero arrivato quasi alla fine quando improvvisamente Maccacaro a gennaio del 1977 morì a Milano.
 
Ci furono cambiamenti nella direzione della collana “medicina e potere” (mi pare di ricordare che subentrò Giovanni Berlinguer ma non ne sono sicuro) e il mio progetto editoriale abortì. A quel punto riciclai il mio lavoro facendolo diventare un capitolo di un libro che pubblicai qualche anno dopo: “trasformazioni socio-sanitarie” 1982. Il capitolo si intitolava “inventario di nomi attinenti al femminile”.
 
Il tentativo era di riformare un pezzo importante di un più ampio processo riformatore, rinominando i nomi più importanti della 405 quindi declinando i concetti in modo diverso dentro una nuova visione riformatrice.
 
Oggi i miei timori, quelli di tanti anni fa, sono purtroppo stati confermati, il consultorio è stato massacrato e laddove è sopravvissuto è rimasto un ambulatorio tra ambulatori che fa solo in minima parte quello che avrebbe dovuto fare.
 
Qualche regione dopo 40 anni ha fatto il dipartimento non per la salute della donna ma “materno-infantile” quindi cadendo in pieno nell’ossimoro e nella contraddizione mantenendo il consultorio sostanzialmente come un ambulatorio Ho ragione di temere che qualcosa di simile, come ho scritto su questo giornale, potrebbe accadere con la legge 180. (QS 2 e 16 ottobre 2017). Vedremo. Già si sentono le prime avvisaglie di una controriforma.
 
Le idee a lume di candela
Alla fine degli anni ‘60 entrai a lavorare in ospedale (Nuovo Regina Margherita). Gli ospedali erano “enti” e esisteva la FLO (federazione lavoratori ospedalieri). Prima avevo fatto sostituzioni nei poliambulatori delle mutue (per l’Inam ero una circolare 40). Negli anni ‘70 iniziò il mio impegno nel sindacato, nella Cgil per la precisione, e dopo una serie di battagliere esperienze sul campo e nonostante fossi un “extraparlamentare”, ero diventato qualche anno più tardi il responsabile nazionale per la Cgil confederale della sanità.
 
Dopo l’approvazione della riforma sanitaria, quindi anni ‘80, l’applicazione della legge era ferma, impantanata, ostacolata da volontà politiche contro-riformatrici e da sempre più crescenti problemi finanziari ma anche da tanti problemi attuativi. Non si riusciva a fare un passo in avanti.
 
In un momento in cui la riforma era, per la sinistra, la verità in terra da applicare, mi venne in mente di rileggere la legge ma con gli occhi di un ermeneuta che vuole semplicemente comprendere un testo per quello che è e eventualmente trovare agganci e appigli.
 
La rilettura non fideistica e non ideologica della legge si rivelò per me drammatica e sorprendente. Vennero fuori tante magagne, tante arretratezze culturali, tante “invarianze”, che mi fecero capire quello che, a quel tempo era meglio non dire, soprattutto per un dirigente nazionale della CGIL, e cioè che:
- i riformatori dell’epoca in realtà, con tutta la buona volontà, si limitarono a copiare l’esperienza inglese ma in perfetta continuità con i modelli funzionali precedenti delle mutue quindi senza aggiungere molto,
- la riforma riformava molte cose, certamente l’ordinamento, quindi la natura giuridica del sistema, ma non il sistema dei servizi che restava di natura prestazionalista,
- ci si era illusi di riformare la sanità senza riformare ne la medicina ne le prassi professionali.
 
Da una congerie di mutue si era sostanzialmente passati ad una sola super mutua universalistica. Quindi una riforma fatta a metà.
 
Riassunsi questa amara scoperta in una tesi eretica: la riforma mutuava un’idea di tutela vecchia di stampo mutualistico pur dando luogo al servizio sanitario nazionale e universale e pur parlando, ad ogni piè sospinto, di prevenzione.
 
Il libro che ne uscì si intitolava non a caso: “Salute nova: per una nuova idea di tutela”. Era il 1986. Nonostante fosse il responsabile nazionale della sanità della CGIL non fu facile pubblicarlo. La sinistra Pci (Giovanni Berlinguer, Marina Rossanda, ecc.) lo giudicò una eresia.
 
Marina Rossanda (anestesista e senatrice Pci) storse il naso, soprattutto non le piacque la mia definizione di “tutoreria” che usai  criticamente per indicare il genere di servizi che la riforma ci aveva consegnato. Una tutoreria è un insieme non un sistema di servizi, che fornisce solo prestazioni riducendo così il concetto di tutela a quello di prestazione.
 
In sostanza per il Pci le mie proposte erano come andare a trovare il pelo nell’uovo. La riforma doveva essere applicata punto. Non era aria di reinterpretazioni. Fu il “manifesto”, allora diretto da Rina Gagliardi, che invece accettò di pubblicarlo. Una sinistra diversa da quella del Pci, una sinistra extraparlamentare.
 
Una sera organizzammo la presentazione vicino alla sede del giornale a via Tomacelli, invitando il “gota” della sanità pubblica e vennero tutti. Non avevamo neanche cominciato che si scatenò un furioso temporale e la luce andò via. Ci procurammo delle candele e, dopo un po’ di trambusto, la discussione   partì.
 
Tutti apprezzarono il libro, in fin dei conti ero un giovane di belle speranze a cui si poteva perdonare una qualche idea strampalata. Ma la proposta di ripensare culturalmente il concetto di tutela della 833 fu considerata, soprattutto dal Pci, eccentrica. Quindi bocciata.
 
L’unico che quella sera, comprese a fondo le implicazioni di questa idea fu Eolo Parodi allora presidente della Fnomceo che con la sua corpulenta ironia genovese disse: “mi pare che questo temporale esprima bene il valore dell’idea di Cavicchi che come tutte le idee coraggiose e geniali sono destinate ad avere vita difficile. Si parte a lume di candela a lui i miei complimenti e i miei più sinceri auguri per il futuro. Speriamo che torni la luce”.
 
Sono passati 40 anni, nel 2016   con la “Quarta riforma”, ho dimostrato che l’idea di tutela che sta sotto alla riforma sanitaria è ancora quella di stampo mutualistico, e che il sistema sanitario nazionale è una tutoreria  o meglio un autobus farlocco con un motore spompato che spinge poco e che consuma molto perché esso altro non è se non il risultato di tanti pezzi di vecchi motori, assemblati insieme e che la sinistra riformatrice, pur facendo dopo la 833 altre due riforme (sic), non ha mai voluto riformare.
 
Dopo 40, pensando a tutto quello che ho dovuto passare per arrivare alla “Quarta riforma”, ho capito il senso delle parole di Parodi e soprattutto i suoi auguri.
 
Non si tratta di riformare ma di amministrare
Appena finii di leggere la legge Bindi (1999) scritta in pratica con il concorso di tutta la sinistra istituzionale e meno, Emilia Romagna e sindacati in testa, mi venne voglia di mettermi a scrivere. Lo scopo politico di quella riforma lo condividevo ma in essa c’era qualcosa di “sinistro” non di “sinistra” che mi preoccupava.
 
L’anno dopo pubblicai “La medicina della scelta” che già nel titolo era una dichiarazione di guerra contro una idea amministrativista proceduralista e scientista della medicina. La cultura proceduralista in questi anni è stata principalmente di sinistra, Ebm, qualità, appropriatezza.
 
In quel libro lanciavo l’allarme “medicina amministrata” e prevedevo quello che molto più tardi, con un e-book, avrei definito, la “Questione medica” compreso i tanti disinganni dell’Ebm. La sinistra proceduralista  e scientista mi considerò praticamente un traditore avendo io osato confutare l’Ebm cioè la verità.
 
Uno dei pochi che comprese le mie preoccupazioni fu un grande medico un mio grande amico, di rara cultura, Alberto Malliani, medico ebreo che a cena mi raccontava di suo nonno rabbino russo e della sua mamma polacca e che al tempo era il presidente della Simi (Società italiana di medicina interna).
 
Ricordo ancora il suo congresso nel quale Malliani mise me a confronto con Alessandro Liberati con l’idea che la medicina non poteva per sua natura accettare di essere amministrata dalle procedure.
 
Da allora nessuno più ha voluto fare questa discussione e da allora fui bandito da ogni convegno “di sinistra” sull’Ebm, sull’appropriatezza, sulle linee guida. Malliani per chi non lo sapesse ha scritto “Medico sempre, lezioni di buona sanità” ed è uno degli autori, anzi se non ricordo male, è l’unico medico italiano che partecipò, a livello internazionale, alla stesura della “carta della professione medica”. Lui ne andava molto fiero.
 
Oggi sono passati 18 anni dalla “Medicina della scelta” e tutti parlano del dramma della “medicina amministrata”, la “questione medica” è diventata finalmente il cuore della strategia della Fnomceo e l’Ebm ha perso il suo fascino super razionale  dogmatico e rivoluzionario.
Perché ho raccontato questi tre aneddoti?
Prima di ogni cosa per rivalutare, in questo tempo, soprattutto ora che abbiamo un governo che si autodefinisce “del cambiamento”:
- il valore dell’eresia, cioè del “pensiero che cambia”,
- l’idea della riforma senza la quale in sanità oggi non si va da nessuna parte.
 
Secondo, per dire che, in tutta la mia vita di intellettuale militante, il mio più grande avversario è stato sempre la sinistra cioè quella che, anche quando riforma, non riforma mai per davvero, prigioniera di uno status quo che intende solo amministrare al meglio e convinta che riforma e amministrazione siano la stessa cosa.
 
Terzo per dire che questa sinistra presa nel suo insieme è fatta da grandi idee e quindi da grandi uomini ma, escludendo gli elettori ovviamente, anche da un mucchio   di “quaquaraquà” intellettualmente insulsi e mediocri sparsi ovunque e ad ogni livello (parlamento, istituzioni, sindacato, ecc). Il mondo dei quaquaraquà e il “senso comune” sono praticamente la stessa cosa. In tutta la mia vita il mio avversario implacabile è sempre stato il “senso comune” altrimenti da me definito “il riformista che non c’è”.
 
I quaquaraquà sono banali e insopportabili, ignoranti, impreparati, ignorano la storia senza esperienze significative. Difficile da credersi ma tra di essi vi sono persino quelli che da sinistra sono visti come veri campioni di democrazia:
- tentano di tapparti la bocca ricordandoti che la tua laurea honoris causa in medicina conquistata oltre altre lauree, sul campo a suon di idee e di eresie e di esperienze professionali, non è uguale alla loro laurea in medicina, per cui non hai titolo a parlare né di medicina né di sanità,
 
- dichiarano senza pudore di essere ignoranti perché non leggono e ti rimproverano di leggere troppo e tutto con meticolosità come se si possa essere studiosi senza studiare,
 
- scrivono prolisse relazioni ai loro congressi sindacali copiando tutto da tutti ma senza mai ringraziare nessuno, senza mai riconoscere un merito che sia un merito agli altri cioè a quelli che forniscono loro le analisi che non sanno fare e le idee che non avranno mai.
 
Questi quaquaraquà vogliono tutti apparire come dei maitre a pensér a tutti costi, cioè degli ideologi che muovono la storia, cioè avere uno spazio su “Quotidiano Sanità” come se questo giornale fosse solo una vetrina nella quale apparire ogni tanto e non un giornale per discutere.
 
La sinistra dei quaquaraquà e dei falsi maitre a penser e dei sedicenti ideologi, secondo me è la principale responsabile del suo declino e della sua sconfitta. E’ questa sinistra che in sanità non ha mosso un dito per denunciare il ritorno alle mutue, volute da Renzi e che ha fatto e favorito  leggi assurde e sbagliate, errori storici inenarrabili (riforma del titolo V), che ha pensato di governare la sanità con le aziende manifatturiere, e che con la sua mania proceduralista e il suo smisurato scientismo amministrativo ha distrutto l’identità del medico mettendo la medicina con tutti i suoi anacronismi contro la società.
 
Definisco questa sinistra, negazionista, perché nega le idee, le ostacola, le ignora, le usa male e sempre per ragioni miserabili personali opportunistiche o amministrative, o spettacolari. L’autobus farlocco è il capolavoro del negazionismo.
 
Non è solo, come dicono i quaquaraquà, un problema di citazioni. Non citare non è dissentire ma ammazzare le idee ostacolarle. Sopprimerle con l’indifferenza. Questo è il negazionismo intellettuale della sinistra dei quaquaraquà.
 
Esso è una forma neanche tanto malcelata di fascismo, di intolleranza di autoritarismo. I quaquaraquà intellettualmente sono tutti culturalmente dei piccoli fascisti che usano il loro piccolo o grande potere per difendersi dal pensiero degli altri specie se li mette in crisi se li spiazza e li trova impreparati.
 
Cinque affermazioni secche
1. la sanità pubblica è storicamente di sinistra e sinistra per me non è uno schieramento ma è un modo di vedere e di pensare il mondo reale, quindi è cambiamento.
 
2. Il cambiamento oggi in democrazia passa per le riforme. O riformi per davvero ma in avanti non in dietro o non sei di sinistra e se non sei di sinistra non risolvi i grandi problemi che sono nella sanità.
 
3. Riformare la sanità è difficile, non facile, è necessario studiare, ideare, osare, sperimentare, essere liberi di pensare, e questo a chiacchiere, cioè a mo’ di quaquaraquà non è possibile.
 
4. È il tempo, alla fine, che giudica le idee. Nel tempo si esplicano le analisi, i timori, le preoccupazioni, i dubbi, attraverso i fatti cioè attraverso le cose che accadono e i processi che avanzano e si compiono.
 
5. Fino ad ora e, fino a prova contraria, tutte le mie esperienze e le mie analisi, tutte pubblicate alla luce del sole, sono state confermate dai fatti il che significa, cari i miei quaquaraquà, che io ho avuto ragione e voi torto.
 
Conclusioni politiche
Oggi il Pd, cioè un pezzo importante della sinistra, è ai minimi storici del consenso elettorale e sulla sanità ha perso tanti voti avendo fatto solo disastri e prendendo di fatto una deriva contro-riformatrice. A Marina Sereni, la nuova responsabile salute per la segreteria Martina, consiglio vivamente di riesaminare il concetto di cambiamento e di riforma e soprattutto di aggiornare strategia. La sinistra che dopo 40 anni di riformismo farlocco torna alle mutue non è sinistra.
 
Oggi Giulia Grillo M5S è il ministro della salute, come “governo del cambiamento” dovrà sopperire ai disastri del Pd e a quelli “storici” della sinistra riformatrice. Sulla sanità pubblica pesano grandi ipoteche culturali e sociali (non solo economiche) che nel tempo, e se non rimosse, probabilmente metteranno a rischio i valori di base che la sostengono. Il mondo è cambiato molto, la sanità, in 40 anni, è cambiata troppo poco.
 
Il primo nemico della sanità si chiama “regressività” non “sostenibilità”.
 
Non sarà mai sostenibile un sistema regressivo perché un sistema regressivo, a parte tradire un forte carattere anti-sociale in quanto inadeguato nei confronti dei bisogni della gente, è per sua natura antieconomico.
 
L’anti-economicità è insostenibile e rifinanziare sia  l’anti-socialità di un sistema inadeguato che l’insostenibilità di un sistema costoso, è un non senso che soprattutto il governo Conte non può permettersi.
 
Il nuovo ministro dovrà quindi, esattamente come il PD, a sua volta, riesaminare il concetto di cambiamento e di riforma, e riformare ciò che sino ad ora non è mai stato riformato.
 
Ne sarà capace? Avrà la volontà politica di farlo? Il programma glielo permetterà? Non lo so. Aspetto che il ministro spieghi alle Camere il suo programma politico. Dopo di che dirò come sempre, da 40 anni a questa parte, alla faccia dei tanti quaquaraquà, liberamente la mia.
 
Ivan Cavicchi

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