quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Lunedì 01 OTTOBRE 2018
La devoluzione della sanità è una idea fascista

La devoluzione della sanità chiesta da alcune regioni, di destra e di sinistra, si fonda su postulati chiaramente fascisti in senso epistemologico, quindi come modo autoritario e dispotico di pensare e di concepire in senso amministrativo la sanità e la medicina. Essa si poggia infatti sull’autocrazia del governatore o dell’assessore, o del funzionario, rispetto alla quale la comunità, quindi il cittadino e l’operatore, sono assoggettati

L’intersindacale medica dice che senza contratti la sanità entro 5 anni potrebbe morire (Qs 27 settembre 2018). Se, in questo mese, passasse la proposta del ministro Stefani, come da lei auspicato, la sanità morirebbe mentre si raccolgono le castagne, cioè questo autunno, e la legge di bilancio dovrebbe ricalcolare il Fsn dal momento che dai suoi finanziamenti si dovrebbero defalcare quanto meno le spese del Veneto.  Costi contrattuali compresi. Ma su questo essa non ha detto una parola.
 
Le perplessità del signor Spock
Condivido la necessità di rinnovare i contratti ma sono sicuro che Spock, il vulcaniano razionale di Start Treck, troverebbe curioso il modo umano di ragionare dell’intersindacale, vale a dire di annaffiare il proprio orto nel mentre piovono pietre grosse come montagne.
 
Come troverebbe bizzarro che il presidente della Toscana, in lista per la secessione della sanità, che come è noto implicherebbe il rischio di ripensare l’ambito nazionale dei contratti, solidarizzi con la minacciata mobilitazione dei medici per il rinnovo del contratto nazionale.
 
Ma Spock che ricordo è vulcaniano, gli umani fatica a capirli. Forse questa è la ragione per la quale egli non riesce a comprendere, di fronte al pericolo per il Veneto di una devoluzione, il silenzio degli ordini del Veneto ma anche del suo sindacalismo, tanto attivo nel cavalcare strane battaglie (oltre il cup) ma nello stesso tempo incomprensibilmente inerte difronte a ciò che probabilmente finirà per mettere ancor più in croce questa già tormentata professione.
 
Evidentemente agli ordini e ai sindacati del Veneto, per prendere una qualsiasi posizione, non basta che la loro regione stia brigando per uscire dal Ssn e meno che mai che:
- decine e decine di medici stiano abbandonando il servizio pubblico per disperazione professionale,
- nel piano sanitario regionale sia teorizzata la trasformazione d’imperio dei medici convenzionati in medici dipendenti,
- la professione medica soprattutto nella loro regione grazie all’azienda zero sia diventata probabilmente la più amministrata d’Italia.
 
Ma forse i medici veneti sono più difficili da comprendere degli umani. Chi lo sa.
 
A Spock, ve lo dico io, sfuggono probabilmente le sottili e imperscrutabili politiche di questi raffinati strateghi che ne vedono ne sentono e ne parlano, ma sorridenti contemplano la loro ignavia come se fosse una eroica virtù.
 
Devo dire che, anche per me, che non sono un vulcaniano, quindi umano, un tale atteggiamento resta incomprensibile.
 
E se invece di giocare agli “sfascia carrozze” facessimo un bel governo federale?
Torniamo al punto: se invece di fare devoluzioni facessimo un vero federalismo probabilmente potremmo risolvere l’annosa questione di come governare per davvero la sanità.
 
Riassumo i problemi. Si tratterebbe di chiarire:
- quale governo federale dobbiamo fare,
- quale idea di sanità sia coerente con una forma federale di governo,
- quali cambiamenti si intendono adottare per rendere adeguato il nostro vecchio sistema dei servizi, prassi mediche comprese, alle necessità della propria comunità di riferimento,
- come si intende governare la natura incrementale della spesa sanitaria nel pieno rispetto dei diritti delle persone e delle autonomie delle professioni.
 
L’equilibrio tra ciò che è generale e ciò che particolare
Secondo me il governo della sanità, nella forma federale è, tra le diverse forme di governo possibili, quella più adatta, soprattutto a mediare due necessità:
- l’universalità delle regole, dei principi, dei diritti, senza la quale non avremmo né un sistema sanitario nazionale, né una medicina scientifica, né dei ruoli professionali,
- la peculiarità dei bisogni e delle necessità delle persone, ai quali la sanità deve attendere, sforzandosi di essere adeguata e senza la quale sia le regole universali, che i diritti, quindi i principi della medicina scientifica nonché le professioni, l’organizzazione dei servizi, rischierebbero di pagare un grado importante di inadeguatezza.
 
Si tratta in sostanza di garantire un equilibrio tra “generale” e “particolare”. In sanità ciò è possibile proprio attraverso un governo a una forma federale per una semplice ragione: rispetto alla sua complessità e a quella della medicina essa è la più “equa possibile” consentendo per mezzo dell’equità l’uguaglianza migliore possibile.
 
Ma cosa vuol dire equità? E’ il riconoscimento di ciò che spetta al singolo in base all’interpretazione delle sue personali necessità. E cosa vuol dire eguaglianza, quindi universalismo, diritti uguali per tutti? E’ un ideale etico-giuridico secondo cui i membri di una collettività devono essere considerati uguali relativamente a determinati diritti.
 
Oggi, devoluzione a parte, sul piano più generale si è appalesato uno dei conflitti più dolorosi quello tra sanità e medicina cioè tra due valori quello dell’eguaglianza e quella dell’equità. La sanità per essere uguale o universale rischia l’iniquità e l’equità per essere adeguata alla singolarità cioè personalizzata rischia la diseguaglianza.
 
Senza equità non c’è uguaglianza
In sanità e in medicina non si fa eguaglianza di trattamento senza equità.
 
Senza equità:
- si rischia l’inadeguatezza della legge generale,
- l’universalismo diventa uniformismo cioè negazione delle differenze, delle specificità delle singolarità.
 
Una corretta idea di federalismo ci aiuta a mediare l’ideale dell’universalismo con il reale di ciò che è per sua natura specifico. Quindi ciò che “deve” essere uguale per tutti e ciò che “è” diverso per ciascuno.
 
L’universalismo equo lo definisco universalismo discreto. Esso è impossibile come nel caso del Veneto, con forme di autocrazia amministrativa centralizzata.
 
La devoluzione della sanità si basa, come dimostrano le teorie sull’azienda zero, le tante forme di medicina amministrata, prevalentemente su forme di governo centralizzato e sulla concentrazione di potere su chi amministra.
 
Per questo sostengo che la devoluzione è del tutto antifederalista. Esse si limita in modo chiaramente illiberale, a sostituire un centro di governo con un altro centro di governo: la legislazione concorrente con quella esclusiva, lo Stato con la regione, il ministro con il governatore, l’azienda con l’assessorato, il cittadino con il funzionario, l’autonomia dell’operatore con la procedura e con lo standard.
 
Un centralismo amministrativo illiberale è un modo fascista di governare la sanità e di praticare la medicina.
 
Fascismo e federalismo
Quando dico fascismo non intendo usare il termine nel significato politico corrente e meno che mai indicare la destra. Oggi la destra moderna in tutto l’occidente opera in regimi democratici.
 
Fascismo nel mio discorso vale come epistemologia quindi come modo autoritario e dispotico di pensare e di concepire in senso amministrativo la sanità e la medicina. Fascismo e federalismo non vanno d’accordo. Anzi sono idee del tutto antitetiche.
 
La devoluzione della sanità è una idea fascista
La devoluzione della sanità chiesta da alcune regioni, di destra e di sinistra, si fonda su postulati epistemici chiaramente fascisti.
 
Essa si poggia sull’autocrazia del governatore o dell’assessore, o del funzionario, rispetto alla quale la comunità, quindi il cittadino e l’operatore, sono assoggettati.
 
“Assoggettato” vuol dire, sia come operatori che come cittadini, non avere autonomia, non poter scegliere, non avere un proprio pensiero. Accettare qualcosa ritenuto indiscutibile perché considerato razionale vero e giusto in assoluto, da qualcuno.
 
Al contrario, nel governo federale, il ruolo dell’autonomia, sia del medico che del cittadino, è un valore fondamentale. Tanto il servizio che il medico, ma anche la procedura o il metodo, devono essere in grado di essere “universali” (curare tutti) e nello stesso tempo devono essere in grado di essere “equi” (curare ciascuno). Questo senza autonomia è impossibile.
 
Senza autonomia, lo dico agli umani della specie “veneti”, che rappresentano la professione medica nel Veneto, scadiamo nel fascismo metodologico da intendersi come una pratica amministrativa che impone le proprie verità finanziarie, organizzative e scientifiche, come verità assolute.
 
La medicina amministrata è una forma di fascismo metodologico
Un servizio o un medico una procedura un metodo senza autonomia sono senza equità e in quanto tali sono inadeguati per definizione. L’equità del servizio è garantita dalla capacità del medico di essere equo nei confronti delle necessità. L’equità del medico è garantita solo dalla propria autonomia professionale nei confronti di un malato per definizione singolare individuale specifico unico.
 
Tutto quanto tende a condizionare l’autonomia del medico, come in qualsiasi forma di centralismo amministrativo, tende a condizionare quella del malato e, in senso transitivo, della comunità alla quale appartiene e che lo rappresenta.
 
La medicina amministrata, i costi standard, il proceduralismo, l’appropriatezza, le evidenze scientifiche, lo scientismo, intese come verità assolute, sono caratteristiche tipiche di un governo della sanità di tipo centralizzato epistemicamente fascista.
 
Esse sono categorie universali formalmente uguali per tutti, ma non eque, quindi rispetto ai bisogni di un individuo e di una comunità sono intrinsecamente dispotiche e, in quanto tali, inadeguate.
 
Il fascismo metodologico rappresentato dalla devoluzione della sanità è, nei confronti delle necessità di salute delle persone, quanto di più inadeguato si possa immaginare.
 
In modo giusto
La sanità e la medicina si trovano entrambi in una incessante oscillazione tra regole formali generali (leggi, metodi, evidenze, procedure, ecc.) e necessità reali delle persone, dei contesti, delle contingenze.
 
Le regole formali ovviamente puntano a considerare i cittadini o i malati nella stessa categoria di bisogno ma le necessità reali di costoro ci obbligano a scegliere per una giustizia concreta,per la quale, in ragione di un principio di singolarità, a ciascuno, come dice la deontologia medica, si deve dare secondo i suoi bisogni, perché dare a ciascuno secondo legge, o secondo metodo o procedura, o evidenza, rischia di essere ingiusto, inefficace e financo in certi casi dannoso.
Nel pensiero federalista l’equità si può così considerare come un elemento sussidiario alla nozione di giustizia, rispetto alla quale il medico o il servizio in un governo federale diventa ’interprete dei casi concreti, quelli che per ovvie ragioni, non possono essere contemplati dal principio generale.
 
L’equità, quindi, nella visione federalista della sanità e della medicina è una particolare forma di democrazia che si sforza di   trattare i propri cittadini o i propri malati in modo giusto.
 
La sanità e la medicina che funziona meglio è quella giusta. Quella più giusta è quella che dentro ad un diritto uguale per tutti è più adeguata ad un bisogno. Una medicina e una sanità adeguata non può essere metodologicamente e amministrativamente fascista.
 
La comunità
La comunità, come categoria concettuale, è la chiave di volta del governo federale della sanità. Essa serve, in un quadro generale, a connotare delle differenze delle quali tenere conto sia nell’organizzare la sanità e sia nel decidere la pratica della medicina.
 
La nostra sanità non è federale in senso comunitario ma nazionale in senso territoriale.  Essa è iniqua perché l’universalismo è frainteso a uniformismo territoriale. Stessi servizi a tutti, nello stesso modo, quindi nelle stesse quantità, con le stesse qualità organizzative, salvo qualche marginale ponderazione. Per cui la sanità nazionale è nei fatti universale ma nei confronti di un territorio nazionale, disomogeneo, diseguale, spesso squilibrato.
 
La nostra medicina invece è ippocraticamente federale. Un medico ha il dovere di curare i propri malati non secondo standard ma secondo equità. In questi anni con la medicina amministrata la medicina sta diventando sempre più uniformismo clinico. Essa, vittima del proceduralismo amministrativo, si sta allontanando suo malgrado dai bisogni reali di cura della persona causando una crescita, nei suoi confronti, della sfiducia sociale.
 
Nella logica nazionale del territorio la comunità è assunta come indifferenziata cioè in tutti i territori vi sono le stesse necessità. Nella logica federale della medicina le necessità hanno modalità diverse, caratteristiche diverse, cioè sono, per definizione, singolari.
 
Attraverso la comunità l’uniformismo clinico-sanitario viene superato quindi il generale si accorda con il particolare, la regola universale si accorda con la necessità individuale, il metodo acquista la sua necessaria flessibilità epistemica, il modo di essere dei cittadini si accorda con il modo di essere degli operatori.
 
Per Don Sturzo la comunità era l’equilibrio tra una visione eccessivamente individualistica della persona e una visione eccessivamente statalista della collettività. Il punto intermedio tra individuo e massa. Nel pensiero delle encicliche papali il concetto di comunità è strettamente associato a quello di solidarietà e di sussidiarietà. (Quadragesimo anno, Pacem in terris, Centesimus annus ecc)
 
Comuni e comunità
Nel centralismo amministrativo che caratterizza la proposta di devoluzione della sanità alle regioni, la comunità di don Sturzo e delle encicliche papali, non esiste, ciò che esiste è solo la regione cioè un territorio da amministrare.
 
Per l’azienda zero del Veneto ciò che conta è avere un potere ammnistrativo sul territorio a scala regionale. Gli accorpamenti delle aziende sono accorpamenti territoriali a comunità assente. Le persone e i loro bisogni non contano.
 
La comunità per me non può essere genericamente quella dei veneti, degli emiliani, degli umbri, ma deve essere l’insieme delle comunità rappresentate e organizzate dai comuni. Cioè per me il comune coincide con la comunità.
 
Chiedo alle regioni devoluzioniste: voi che vi proponete come federalisti siete disposti a riammettere i comuni nel governo della sanità? Cioè a riconoscere loro una funzione di sponsor della salute quindi superando la consuetudine formale di consultarli e basta? Quindi nella vostra visione di governo qual è ruolo di governo del comune? E quello dei cittadini organizzati e degli operatori?
 
Ma una volta deciso le forme del governo partecipato, quale gestione? Quale azienda? Contro l’azienda zero del Veneto e contro il centralismo amministrativo è possibile o no una azienda medico-sanitaria partecipata?
 
Se voi devoluzionisti, non risponderete a queste semplici domande, temo che sia impossibile non pensare che, le vostre prodezze contro-riformatrici, non coincidano con i vostri personali sogni di potere.
 
Ivan Cavicchi

© RIPRODUZIONE RISERVATA