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Giovedì 29 DICEMBRE 2011
Cavicchi: ecco perché non mi piace la sanità “pil-astrata”

Il gran parlare (spesso a sproposito) di insostenibilità della sanità pubblica ha fatto tornare in auge le mutue, facendoci perdere di vista la verità sulla spesa sanitaria privata che è quella di un diritto che sta andando in frantumi. E se invece di ridurre la spesa riducessimo le malattie?

Se si arriva a pensare che la crescita della spesa sanitaria privata sia un fatto normale, che la libera professione intramoenia sia un diritto naturale dei medici, che le mutue  siano inevitabili come il destino, allora cominciano ad esserci problemi di senso. Se le cose perdono i rapporti con le ragioni che dovrebbero spiegarle, allora, è come se perdessimo le loro verità. Discutendo di proroga ci siamo persi, ad esempio, la verità sulla libera professione intramoenia, (allargata o meno conta poco), che  è quella di scaricare sui cittadini un pezzo di salario dei medici, perché lo Stato dice di non poterli pagare come meriterebbero. La fallaciaè  convincersi che sia necessario spendere dei soldi pubblici per mettere in condizioni i medici di esercitare la libera professione nei servizi pubblici.

Ma vi sembra normale? Ma non sarebbe più logico usare i soldi pubblici per retribuire meglio i medici chiedendo loro delle contropartite di cambiamento? Ci siamo persi la verità  sulla spesa sanitaria privata, che è quella di un diritto che sta andando in frantumi. La fallacia è convincersi che, siccome spendiamo 30.591 milioni di euro pari al 21.6%, per avere quello di cui avremmo diritto, allora dobbiamo fare le mutue, cioè dobbiamo cambiare la natura pubblica del sistema. Non importa se si regredisce di almeno 40 anni tornando esattamente al punto di partenza da cui siamo partiti con un’altra idea di sanità pubblica, se salta l’universalismo, se la solidarietà diventa una forma di corporativismo. Ciò che conta è sostenere il pil, come proponeva il libro bianco di Sacconi, con nuovipil-astri e avere una sanitàpil-astrata con mutue e assicurazioni private.

Ma vi sembra normale? Non è un caso se nello stesso tempo, il Cern cannoneggia vaticinando che l’incidenza della spesa sanitaria sul pil in 20 anni (pensate un po!) crescerà di 1 punto  o forse di più. Ma vi sembra normale che il Pd della Lombardia ci dica che in quella regione la parità di bilancio si regge sull’iniquità dei ticket e altri ci dicano che quella iniquità anziché superarla con più universalismo va organizzata in mutue? Ci siamo persi la verità sul rapporto tra pil e diritto alla salute che è diventato drammaticamente conflittuale e che a causa di una ischemia finanziaria che va avanti da  30 anni, ha gravemente danneggiato il meccanismo di finanziamento che regola i flussi di risorse alla sanità creando gravi disabilità a tutto il sistema. Vi sembra normale continuare a fare “patti per la salute”, giocando al “mercante in fiera” riducendo i lea per ridurre le quote capitarie in costanza di meccanismo quando il meccanismo è in tilt? Su come ripensarlo si vedrà non entro nel merito, mi limito a ribadire che è possibile intanto introdurre funzioni,  f(x), sulla domanda, sui modelli di offerta dei servizi, circa la salute pro-capite, relative alle logiche organizzative che guidano il sistema, proprie agli operatori ma certamente considerati tutto meno che delle trivial machine ecc.

Ripensare significa impedire che l’andamento del Pil si mangi i diritti, producendo valori economici con un altro genere di sanità pubblica non con meno sanità pubblica. La sfida, se vogliamo salvare i diritti, è la compossibilità, la  compatibilità ormai, ci sta divorando vivi. Un altro genere di sanità pubblica è compossibile con il pil e i diritti, le mutue invece, sono compatibili solo con il pil ma non con i diritti. Vi sembra così strampalato pensare di ridurre la spesa sanitaria riducendo le malattie? O facendo un accordo con gli operatori per ridurre il costo pesante della medicina difensiva (12%)? O cambiando certi modelli di servizi come gli ospedali che sono ancora fermi alla Mariotti del 68? O riconcependo quel rottame definito  “programmazione sanitaria”? O ripensando i modi di essere della medicina che sono, nonostante la post-modernità, incagliati in uno scientismo tardo ottocentesco. Ma che vi credete che il modo di conoscere un malato non sia un fattore di produzione e non abbia dei costi ? Una volta il popolo dei riformisti aveva un’idea di riforma comune che ora non c’è più.

A partire dagli anni 80 abbiamo iniziato a dividerci e a smarrire il progetto comune, poi sono venute le aziende, il pensiero unico della compatibilità, gli operatori ridotti a lavatrici, i malati considerati come delle “persone”, certo, ma da tassare. Gli economisti, che non sanno niente di malati, di medicina, di complessità, di servizi, di modi di operare, di lavoro, di apparati concettuali obsoleti, di cultura medico-sanitaria, ci hanno convinti che il trade off tra limiti e equità è come la gravità, una legge di natura. E che “non si può dare tutto a tutti”perchè i soldi sono pochi. Dando per scontato due cose: che quello che si deve distribuire con le mutue debba restare comunque a genere invariato di assistenza e che le priorità nei confronti dei più deboli debbano essere per forza inique. Ora che la compatibilità ha raschiato il barile arrivano i pil-astrati dell’out of pocket che neanche immaginano quante cose si potrebbero cambiare senza sacrificare i diritti. Ma per loro unicamente  attenti alla spesa, quelli con i piedi per terra, è  inconcepibile che per rimuovere la contraddizione tra diritti e risorse, sia possibile  riconcepire la storica e ammuffita teoria della tutela del 900, cambiando ben altre leve oltre quelle finanziarie. Oggi chi parla di diritti rischia di apparire un conservatore. Ma vi pare normale?

Ivan Cavicchi
Professore di Sociologia dell'organizzazione sanitaria e della Filosofia della medicina
Università Tor Vergata di Roma

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