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Sabato 23 FEBBRAIO 2019
Il dottor Leoni e i sogni degli infermieri
Gentile Direttore,
le scrivo per commentare la lettera del Dottor Giovanni Leoni, che da sempre stimo. Vorrei innanzitutto ringraziarlo ciò che ha scritto a proposito del progetto UDIE della ULSS 2 di Treviso, perché mette in evidenza tutta la crisi medica attuale e molta della ignoranza che ruota intorno agli infermieri ed alla loro professione, nonché intorno ai loro sogni.
L’inizio della lettera riporta i sogni di tutti coloro che hanno avuto voce in capitolo nel progetto, ma non sono rammentati i sogni degli infermieri che evidentemente, e naturalmente, il Dott.Leoni non conosce. Neanche io li conosco, ma credo che gli infermieri sognino di fare gli infermieri.
Eraclito è il primo filosofo ad aver detto che “non esisterebbe realtà senza sogno, allora, forse se gli infermieri sono solo, ed ancora, una “ipotesi” vuol dire che gli infermieri non sognano”. (M.Gostinelli, Atti Convegno Slow nursing , 2018).
Io comprendo il Dott.Leoni, ma lo inviterei a non lasciarsi sviare dai sogni di Antonio De Palma (Nursing up), dal plauso dell’Opi di Treviso, dalle affermazioni del presidente Guarini, o del dg Benazzi i quali con i loro commenti dimostrano di avere, con modalità e motivazioni diverse , una visione privata, individualistica ed anche illusoria della figura dell’infermiere immaginale (fantasioso), ma che in realtà è una visione che distrae dalla vera questione infermieristica, dimostrando di essere ancora calati nell’oblio del sonno senza sogno.
La vera motivazione intrinseca al lavoro dell’infermiere è conoscibile solo attraverso analisi sistemiche multidimensionali o attraverso raccolta di narrazioni sui vissuti lavorativi dei primi anni di lavoro di neolaureati, ma poco o nulla di essa è ormai percepibile nelle prassi e meno che mai rintracciabile nei modelli assistenziali attuali che derivano da teorie infermieristiche non più fruibili e quindi non modellizzabili .
Chi avrebbe dovuto davvero rassicurare invece non viene interpellato e non sente il bisogno di farsi interpellare e mi riferisco agli infermieri “valutati (da chi?) come idonei per quel genere di progetto, e ai dirigenti infermieristici della ULSS 2 che non hanno avuto, o almeno non è a noi conosciuto, il bisogno di rendere noto uno studio di fattibilità che evidenziasse precisi componenti progettuali rivisitati in un ottica di salutogenesi estesa non solo al cittadino sano/malato, ma anche all’operatore come nuova modalità di lavoro (Antonosky, 1987, in Simonelli,Simonelli, 2010).
Nella sua lettera il Dott.Leoni fa riferimento ad una piramide gerarchica degli incarichi dove ad un certo punto si incontrano gli infermieri dei quali con padronanza elenca l’incarico principale che poi arricchisce con la refertazione degli esami ematici e con la registrazione degli ingressi e delle dimissioni.
Pur avendo avuto un moto di stizza durante la lettura di questo passaggio ho giudicato con indulgenza “la conoscenza da incarico” che Leoni ha degli infermieri; di solito le prassi sono queste perché la legge 42 del ‘99 è rimasta lì, non esplorata, e gli infermieri sono ancora quelli dei quali molto bene lo stesso Leoni descrive i compiti. Non possiamo prendercela con questa visione post mansionario: dal ‘99 il mondo è cambiato, il malato è cambiato, la salute è cambiata, ma noi siamo rimasti quelli di allora.
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Quello che però nella lettera non comprendo è la poca autorevolezza mostrata nel criticare questo progetto, i cui punti dolenti peraltro non riguardano i medici. La paura di “scomparire” a causa anche di un maldestro tentativo di evoluzione infermieristica. Non comprendo la poca lucidità. E non lo dico per amara ironia, ma perché seriamente preoccupata; un medico non autorevole impoverisce la salute.
Non è segno di autorevolezza la gerarchia di incarichi ai quali si fa riferimento. L’incarico è fare qualcosa non di propria iniziativa; nel fenomeno di cura però oltre all’ incarico c’è tutto ciò che abbiamo incarnato nel nostro essere medici ed infermieri, c’è il nostro intendere la cura, ed in questo intendere, la gerarchia ce la dà lo stato di bisogno del malato che, in quanto uomo malato, è portatore di una complessità data dalla patologia oggettiva e da tutto ciò che concerne gli aspetti essenziali del suo essere, ed è qui che la gerarchia si sfuma, il linguaggio cambia.
I malati non li “pulisce” nessuno, neanche gli operatoti socio assistenziali (OSS), perché i malati non sono inanimati, corpi da “ripulire dal sudicio”; i malati non rispondono alla nozione pulito/sporco rispondono semmai, ed in quel caso citato, alla nozione di igiene, che richiama appunto a quella complessità dell’essere che mal si definisce con la nozione di pulito/sporco, anche quando il bisogno di quell’uomo è di natura meramente fisiologica ed anche quando riguarda solo gli operatori socio assistenziali che, pur non presidiando la complessità di cura, ne sono completamente coinvolti, e per questo la gerarchia degli incarichi non ha una importanza funzionale .
Autorevolezza vorrebbe che l’infermiere e il medico fossero” autori “del loro operare (Cavicchi, 2010), professionisti sinergici, per compensare deficit interni della persona sana o malata e quindi creatori anche di fenomeni di cura, per definizione complessi, dove si agisce il principio della dia-logica ( secondo Morin) cioè della doppia logica che è contemporaneamente complementare ed antagonista.
L’infermiere dovrebbe avere la possibilità di decidere se essere un “paramedico” e quindi incaricato di fare solo quello si indica in chiave gerarchica, utilizzare come competenza avanzata solo il tecnicismo, e “rubare” gli interventi semplici ai medici; oppure essere un professionista che attraverso il suo diverso variegato sapere è creatore di abilità di vita (life skills) per lo sviluppo del potenziale umano, sano o malato.
E dovrebbe farlo prima di lasciare che altri progettino per lui per finalità diverse dalle sue. Il medico, invece, non dovrebbe ricercare dominanza, ma una lucidità perduta.
Marcella Gostinelli
Infermiera
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