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17 MARZO 2019
Fondi integrativi o sostitutivi? La politica scelga quale ruolo e “merito” dare al Secondo pilastro
La questione del Secondo pilastro si gioca sulla presa d'atto: 1) che la Sussidiarietà è un valore in sé e che ne va chiarita l’estensione; 2) dell’esistenza di un secondo pilastro promosso dai corpi intermedi, spinto da una crescente complessità e articolazione delle opportunità di tutela; 3) sulla conseguente necessità di esprimersi definitivamente su quale tipo di merito dargli. Un compito a cui la politica non può sottrarsi nascondendosi dietro diatribe apparentemente tecniche sulla natura “integrativa o sostitutiva” dei Fondi
Nelle ultime settimane si è sviluppato un vivace dibattito sulla questione della cosiddetta “Sanità Integrativa”: iniziato sulla stampa, prosegue ancora con le audizioni che sta promuovendo la XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati.
Come sottolineato da Geddes da Filicaia su QS, il dibattito si sta svolgendo senza che si scorga una qualche “area di convergenza”, neppure (come da lui intesa) quale “individuazione delle questioni più importanti da analizzare”.
Facendo mia tale sensazione, aggiungo che, a mio modesto parere, l’impossibilità di una convergenza è alimentata dal persistere di una generale confusione sui reali confini del tema in oggetto: in particolare sulla carente consapevolezza del fatto che il tema è, in larga misura, ideologico e che, quindi, vanno esplicitati gli assunti di valore che si assumono.
Iniziamo ad osservare che, come si evince dai titoli dei contributi apparsi sulla stampa, si fa sempre riferimento alla “Sanità Integrativa”, ma il dibattito è in realtà più ampio e, in sostanza, si riferisce al secondo pilastro dell’assistenza sanitaria.
Va ricordato che il termine “Sanità Integrativa” (proposto dal legislatore negli anni ’90) si riferisce ad una specifica “modalità” di sviluppo della mutualità, peraltro mai decollata, tanto che, già nel 2008, si cercò di superarla con il decreto cosiddetto “Turco” (su cui tornerò).
Assumendo un ordine temporale, inizio con l’osservare che il passaggio dal principio della L. 833/78 (“la mutualità volontaria è libera”), a quello della “Sanità Integrativa”, specificatosi nelle “riforme” degli anni ’90, mi sembra segnare un passaggio ideologico (oltre che normativo) che non può essere trascurato ai fini del presente dibattito.
Nella L. 833/78 sembra leggersi la volontà di affermare (o forse, il dovere di confermare) il rispetto del principio di Sussidiarietà: ovvero che, anche in presenza di un primo pilastro di base universalistico e globale, i corpi intermedi sono liberi di organizzarsi per soddisfare bisogni sanitari presenti nella popolazione.
La norma, di fatto riconosce una facoltà; allo stesso tempo, per come è formulata, sembra voler evitare di esprimersi sulla sua meritorietà, e quindi sull’eventuale opportunità di riconoscere un incentivo pubblico alla mutualità.
Probabilmente l’idea di fondo era che, in presenza di un inaugurando sistema solidaristico, universale e globale, ogni altra forma di assistenza divenisse di fatto residuale.
Il termine “Sanità integrativa”, inaugurato dal d.lgs. 502/92, e poi ripreso nelle norme successive, sembra invece cercare di identificare l’area della meritorietà, tanto che rimanda anche alla disciplina fiscale e, quindi, presumibilmente alla definizione degli incentivi da riconoscere.
Alla fine del processo legislativo, il discrimine individuato sembra trovarsi in corrispondenza dell’adozione di 2 criteri:in primo luogo la non selezione e non discriminazione degli aderenti e, in secondo luogo, la non “concorrenza” con il SSN.
Legare l’incentivo pubblico al primo punto riceve, presumibilmente, una larghissima condivisione; meno chiaro è il “segno” del secondo punto… perché la mutualità dovrebbe fare “concorrenza” al SSN? La “paura” non dichiarata è, probabilmente, quella di innescare “voglie” di opting out, volontà peraltro mai espressa dai corpi intermedi.
Mi sembrerebbe, invece, che un SSN efficiente non dovrebbe “temere” la concorrenza di altre forme di tutela;e che, se mai si dovesse creare una competizione, questa sarebbe indicativa di una inefficienza del SSN: e in tal caso, non sarebbe corretto che la difesa (né socialmente efficiente) passasse per un “impedimento” allo svilupparsi di altre alternative.
Quanto ricordato dovrebbe già bastare per confermare che il tema del dibattito, anche senza cadere nell’ideologismo, è essenzialmente ideologico (nel senso della “idea che si ha della Società e dei suoi assetti”); pur non mancando anche elementi di valore sul piano positivo.
In altri termini, il “vero” oggetto di discussione sul piano dei principi è, e da sempre, quello della meritorietà della mutualità; come sul piano positivo, invece, è quello del vero o presunto rischio per l’universalità e globalità, che la mutualità implicherebbe.
A conferma della complessità del dibattito, che non si può ridurre a questioni regolamentari o attuative, o ad un mero conflitto di interessi (magari commerciali), è bene ammettere che sul tema possono esistere posizioni, forse disinteressate, ma certamente non “neutre” od “oggettive”: basti osservare che se esiste, o anche solo si ipotizza una potenziale concorrenzialità, anche quelle degli operatori del SSN sono posizioni di fatto portatrici di un interesse.
In altri termini, quelle che si “scontrano” sono visioni contrapposte della Società, e nello specifico sull’applicazione in campo sanitario del principio di Sussidiarietà.
Se prendiamo atto che la questione è eminentemente ideologica, e che il dibattito è funzionale ad effettuare scelte politiche,è allora utile provare a mettere in ordine gli elementi di confronto, con la speranza di contribuire affinché l’esito democratico sia basato su una informazione quanto più ampia possibile.
Cercherò di farlo nel modo più esaustivo possibile, presentando quindi argomenti pro e contro ma, per quanto premesso, mi sembra doveroso dichiarare immediatamente i miei “conflitti di interesse”, così da orientare il lettore nella valutazione di quanto segue: pur non essendo né un operatore del SSN, né avendo interessi presso intermediari finanziari (a meno, se si vuole, che siedo nel comitato scientifico di un Fondo Sanitario contrattuale), ritengo di dover dichiarare che sono ideologicamente portato a ritenere che la Sussidiarietà sia un principio costituzionale essenziale.
Non solo sul piano dell’efficienza e dei rapporti fra livelli di Governo, ma anche su quello dei rapporti fra Stato e individui: nella mia “visione del mondo”, e nello specifico del Welfare, non è compito dello Stato surrogare paternalisticamente a tutti i bisogni dell’individuo, quanto quello di garantire eque condizioni perché tutti possano responsabilmente provare a soddisfarli con il proprio impegno. In sintesi, ho una visione del Welfare che non è fatta di soli diritti dei cittadini, ma anche di assunzione di responsabilità.
Ciò detto, entrando nel merito, la prima cosa che ritengo vada sistematizzata è il contesto logico della analisi, a partire dal significato di “secondo pilastro”.
A livello internazionale, nelle analisi sui sistemi di Welfare, è d’uso la descrizione degli interventi basata su una tassonomia degli strumenti su tre livelli (pilastri o pillar): quello di base (il primo), quello complementare e collettivo (il secondo), quello individuale (il terzo). Utilizzando una “forzatura didattica”, a questi tre livelli corrispondono, in modo sostanzialmente biunivoco, diversi livelli di redistribuzione messi in atto: solidaristico per il primo pilastro, mutualistico (ma con elementi di solidarietà in alcuni casi) per il secondo, più strettamente assicurativo per il terzo.
In termini più discorsivi, questo vuol dire che nel primo pilastro (in generale) la redistribuzione è fra tutti i membri della collettività (tipicamente nazionale), nel secondo fra appartenenti a gruppi della stessa “con rischi omogenei” (sebbene nel caso della Sanità i rischi spesso non siano omogenei), nel terzo fra singoli soggetti con rischi omogenei.
Ad ogni livello, sempre in generale, è uso associare un diverso livello di meritorietà: massima per il primo livello e a scendere per gli altri. La ratio dell’approccio emerge chiaramente in campo previdenziale: in Italia, ad esempio, sulla base di decisioni politiche (e non potrebbe esser diversamente visto che siamo nel campo della “meritorietà”), si ritiene socialmente importante che tutti gli individui in vecchiaia conservino almeno/circa il 50% del loro reddito (riferendoci alle stime che furono fatte ai tempi della riforma che aboliva il sistema retributivo per passare a quello contributivo).
Il mantenimento di questa soglia (che ricordiamo prima era a circa l’80%) è considerato meritorio al punto da imporre un risparmio forzoso, quindi obbligatorio, gestito dallo Stato (con l’INPS); data la finalità del risparmio previdenziale, si è altresì ritenuto meritorio che gli individui possano organizzarsi per realizzare una ulteriore quota di copertura, tant’è che le polizze complementari sono incentivate con vantaggi fiscali; vantaggi che sono (in via di principio) presenti, ma minori (in Italia per la verità praticamente assimilabili), per i risparmi individuali del terzo pilastro, dove i confini con il puro investimento finanziario sono più sfumati.
In questo esempio si legge una razionale suddivisione fra i pilastri del soddisfacimento di un bisogno (la garanzia di reddito in vecchiaia); e parallelamente come la politica abbia individuato i livelli di meritorietà degli stessi.
Appare altresì evidente, come la struttura a pilastri poggi su una idea di Società basata sulla Sussidiarietà: alcune questioni sono appannaggio dell’intervento statale, altre di quello dei corpi intermedi e altre ancora sono lasciate alla responsabilità individuale.
Vale la pena di ricordare che la Sussidiarietà si fonda su una presunzione di efficienza (derivante dalla capacità di responsabilizzare di volta in volta il livello che si dimostra più adeguato alla bisogna), ma anche su un principio di Libertà (la cessione dell’autonomia ai livelli superiori sarebbe “antropologicamente” giustificata solo quando produce un beneficio collettivo maggiore della ritenzione nella sfera delle responsabilità individuali).
Venendo alla Sanità, tenendo presente gli esempi sopra riportati, bisogna allora chiedersi quale sia l’idea di Sussidiarietà che si vuole applicare.
Ovviamente è proponibile la posizione secondo la quale in Sanità la suddivisione fra i tre pilastri debba essere 100-0-0… una ipotesi estrema, e per certi versi basata su un principio di egualitarismo, per cui tutto ciò che è bisogno sanitario deve essere soddisfatto dal primo pilastro. Altrettanto ovviamente, si tratta di una ipotesi irrealistica, tanto che secondo e terzo pilastro in Italia nei fatti ammontano a circa il 25% della spesa.
Per quanto si tratti di una ipotesi egualitaria, solo un regime illiberale, che vietasse ai cittadini di andare a curarsi dove vogliono, potrebbe azzerare il secondo e terzo pilastro.Una prima conclusione, stavolta sul piano positivo, è che nel dibattito non ha senso parlare dell’esigenza o meno di altri pilastri: ci sono e basta.
Un dibattito alternativo, ragionevole, è allora quello in cui ci si chieda se la quota che non è nel primo pilastro (ovvero nel SSN) abbia comunque un contenuto meritorio (e quindi eleggibile ad un incentivo pubblico) e, in caso affermativo, se tutta o in parte. Il legislatore negli anni ’90 decise che solo la parte del secondo e terzo pilastro definibile Sanità Integrativa fosse meritoria e, quindi, incentivabile dal settore pubblico.
Per dovere di completezza, prima di andare avanti, osserviamo che, in via di principio, è assolutamente legittimo che qualcuno sostenga che, pur in presenza di più pilastri, solo il primo sia meritorio… da cui far seguire che non si debbano riconoscere incentivi di nessun genere ad altre forme di assistenza.
In effetti, tale posizione, per quanto estrema, in presenza di un sistema di assistenza universalistico e globale, capace di offrire tutto quanto utile per la tutela della salute, sarebbe fondata: quale altro consumo potrebbe essere ritenuto meritorio?
Il legislatore negli anni ’90 decise però che qualcosa di meritorio ci fosse “oltre” il SSN, “inventando” la proposizione delle prestazioni “aggiuntive” rispetto a quelle offerte dal SSN, da cui la “Sanità integrativa”.
Soluzione che però presenta vari aspetti contradittori: aggiuntive equivale ad extra LEA… ma, se secondo una lettura delle norme, i LEA contenessero tutte le prestazioni appropriate, allora viene da chiedersi cosa stiamo incentivando? Prestazioni inappropriate?
In altri termini, se gli extra-LEA fossero “inessenziali” come qualcuno “lascia intendere” (l’equivoco si gioca sul significato del termine “essenziale”) e se, quindi, il SSN offrisse davvero già una tutela sanitaria esaustiva, in via di principio ci sarebbero davvero poche giustificazioni da portare in favore degli incentivi previsti nella normativa.
In ogni caso, i Fondi integrativi non sono mai decollati: erano asfittici ai tempi del “decreto Turco” e lo sono ancora, basta guardare i numeri. E probabilmente ciò perché la dimensione, e persino il valore, delle cosiddette prestazioni aggiuntive, rischia di essere quantitativamente e qualitativamente “marginale”.
A me pare che rimanere nell’equivoco sulla natura dei LEA (ovvero sulla loro esaustività o meno in tema di tutela della salute) generi un evidente cortocircuito logico: di fatto, per giustificare l’attuale normativa, bisogna ammettere che esistono prestazioni che tutelano (in qualche modo) la salute, pur non essendo erogate dal SSN.
Ma su un piano positivo, o pratico che dir si voglia, si tratta di una ipotesi concreta o solo di una affermazione di principio? Un accordo sull’esistenza di prestazioni che, pur tutelando la salute, non sono di fatto erogate dal SSN, sembrerebbe ampia pensando all’odontoiatria, come anche ad alcune prestazioni di assistenza ai confini con il sociale (tipo la long term care), etc.
Ma, a ben vedere, ci sono poi altre situazioni, meno (o molto meno) evidenti e quindi condivise: i ticket, ad esempio, che di fatto hanno ormai perso la natura di contrasto al moral hazard e che varie norme qualificano ormai nei fatti come forme di finanziamento aggiuntivo (ovvero una “tassa sulla malattia”), come vogliamo considerarli? Eventuali farmaci efficaci, ma non rimborsati perché a costo eccessivo?
Forse si tratta di una “ipotesi di scuola”, data la ampiezza dei prontuari pubblici in Italia; ma anche nel recente documento sulla “nuova governance” per il farmaceutico si ribadisce la volontà di applicare il criterio della costo-efficacia e, così facendo, diventa una fattispecie che non si può escludere; per non parlare del caso di un individuo che voglia procurarsi un farmaco o altra tecnologia disponibile in qualche altro Paese, ma magari non ancora (per ritardi di vario genere…) in Italia.
Questi ultimi casi configurano sempre situazioni di prestazioni che, pur potendo tutelare la salute, non sono necessariamente garantite dal SSN. Allo stesso tempo configurano condizioni di potenziale iniquità: basti pensare al fatto che non tutti, pur volendo, potrebbero accedere a tali extra LEA… e su questa evidente iniquità si innesca un ragionevole dubbio sulla giustizia sostanziale di incentivi che, da una parte aiutano l’accesso, ma dall’altra vanno in favore di chi comunque ha maggiori risorse.
Non di meno, in alcuni casi, questi incentivi potrebbero comunque essere socialmente efficienti: ad esempio, un incentivo per le diagnostiche di screening effettuate prima dell’età target (magari di un numero ragionevole di anni, non a qualunque età), potrebbe portare più benefici che costi, e potrebbe anche far risparmiare il sistema liberando risorse.
Nei fatti, però, il vero oggetto di dibattito sembra essere quello sulla posizione da prendere sulle cosiddette prestazioni o modalità di erogazione “on top”: queste sono di varie fattispecie, andando dall’ipotetico (ma non troppo) nuovo device capace di semplificare la somministrazione di una terapia o di un controllo, alla questione dell’organizzazione degli orari e dei tempi di accesso.
In altri termini, in presenza di soluzioni tecnologiche, capaci di migliorare la qualità di vita dei pazienti, ma ad un costo non ritenuto dal SSN sostenibile o costo-efficace, è da ritenersi giusto che chi le volesse utilizzare debba sostenerne tutto il carico economico, o sarebbe più giusto che possa riavere indietro, tramite un incentivo, almeno parte dell’onere che il SSN avrebbe comunque sostenuto?
Analogamente, sul versante delle “modalità” di erogazione, chi volesse accedere, per ragioni professionali o di altro genere, alle prestazioni usufruendo di orari specifici, ovvero di altre garanzie non riconosciute dal SSN (ad esempio di un orario preciso di prenotazione), è da ritenersi giusto o meno che abbia diritto, come sopra, a vedersi riconosciuto un “aiuto” economico?
La valutazione di merito sui casi sopra esemplificati è chiaramente personale: si può, ad esempio, sostenere che le imposte pagate sono finalizzate a sostenere la solidarietà implicita nel SSN e non al diritto ad avere una prestazione conforme alle proprie aspettative… e che, quindi, la rinuncia ad utilizzare il SSN non genera alcun diritto. Si può dire che invece di dare incentivi è meglio rendere più “performanti” le prestazioni del SSN e questo azzererebbe le richieste/comportamenti sopra delineati.
Ovviamente si può anche controbattere che è impossibile per i sistemi di base dare risposte “personalizzate” e che, ad esempio, ci sono sempre liste di attesa (tanto che, in verità, in caso di sforamento dei tempi massimi da parte del SSN, vige già la norma della possibilità di farsi rimborsare la prestazione erogata da privati, ovvero si riconosce un incentivo fiscale al 100%).
Come anche si può sostenere che chi usa canali extra SSN libera, all’interno del servizio pubblico, “posti” per chi non possa permettersi alternative, migliorando così anche la loro condizione… Persino si può far valere il tema per cui l’incentivo “si paga”, in tutto o in parte, favorendo l’emersione delle prestazioni nel “mercato nero” ed anche che l’organizzazione della domanda che determinano i Fondi ha un poter calmierante dei prezzi.
Pur nella difficoltà di fare una sintesi, a me sembra che, indipendentemente dalla ideologia personale, due questioni emergano con chiarezza: la prima è che il tanto utilizzato (anche nel dibattito in corso) termine “sostitutivo” è scorretto, non esistono “prestazioni sostitutive”, perché se si va a fare una visita a pagamento (per non dover aspettare, o per poterla prenotare nell’orario più comodo, etc. etc.), pur trattandosi certamente sempre di una visita, essa è un’altra prestazione per effetto dell’essere erogata in modo differente; potremmo dire che è una prestazione sostitutiva da un punto di vista meramente clinico, ma diversa nella modalità di erogazione.
Ne segue che “non esistono” Fondi sostitutivi… esistono più correttamente Fondi che erogano prestazioni clinicamente sostitutive, ma fornendo un regime di erogazione diverso, caratterizzato da servizi complementari/aggiuntivi. Una volta riconosciuta questa specificità, rimane in capo alla politica decidere se questa complementarietà abbia o meno una meritorietà sociale.
Per inciso notiamo che il fatto che i Fondi abbiano di fatto una natura intrinsecamente “complementare” (ho già notato che quelli integrativi sono asfittici per loro natura e ora ho argomentato perché il termini sostitutivo è improprio) è nozione che è stata alla base del “Decreto Turco”, il quale, non potendo riformare completamente la materia, ha introdotto il principio che ci fosse un incentivo per tutti i Fondi, indipendentemente dalla natura esclusivamente integrativa o meno; sebbene vincolandolo all’erogazione di un minimo di prestazioni sicuramente “integrative” e meritorie che, per “buon senso”, ma anche sulla base delle stime di impoverimento effettuate dal mio team di ricerca, identificammo nell’odontoiatria e nell’assistenza di tipo Long Term Care.
Una soluzione, quella del decreto, certamente pragmatica e in parte affrettata, e che comunque implicava la necessità di successive norme attuative, peraltro in larga misura mai emanate; ma anche certamente ideologica, perché assumeva un merito per l’attività dei Fondi, indipendentemente dalla natura strettamente integrativa delle prestazioni erogate.
In secondo luogo, rimane centrale nelle valutazioni da effettuarsi, la posizione da prendere sulla natura dei LEA:in altri termini se sono esaustivi o meno; ovvero, se il SSN voglia assurgere o meno ad essere l’erogatore unico della tutela della salute, conformandosi davvero alle aspettative (presenti e specialmente future) della popolazione: in caso affermativo, l’obiettivo è sfidante, ma forse possibile, sebbene di certo richieda un massiccio rifinanzamento del SSN.
In caso negativo, va ammesso che oggi la scelta dicotomica (prestazione appropriata/ non appropriata) non ha più (o non ha sempre) fondamento scientifico e che, più realisticamente, va fronteggiato un continuum di opportunità, rappresentabile con scale all’interno delle quali riconoscere il diverso valore delle prestazioni.
Io credo sia crescente l’evidenza che, da una parte, la tutela di salute deve realizzarsi con prestazioni di evidente valore e dall’altro anche contrastando le pratiche senza valore; ma è anche evidente che in mezzo c’è ancora un enorme quantità di prestazioni e pratiche che presentano un valore “intermedio”, spesso per effetto di una evidenza “non piena” (e questa mole è destinata a crescere per ragioni di vario genere, ad oggi ineluttabili: basti pensare alla difficoltà di produrre evidenza a priori sulle terapie avanzate).
Se quella sin qui proposta è una corretta visione del presente, e ancor più del futuro, allora il SSN deve certamente impegnarsi di più nella educazione al corretto utilizzo delle prestazioni sanitarie, convincendo/educando le persone (e in parte anche i professionisti) ad evitare processi di inutile medicalizzazione, a partire dalla prevenzione inappropriata.
Ma il SSN deve altrettanto decidere se vuole erogare in modo esaustivo e indistinto tutto il resto, o non sia più giusto, e anche efficiente, prioritarizzare gli interventi, fornendo la massima tutela solo nelle aree di indiscutibile “high value”, e a scalare contributi decrescenti al diminuire del “valore”, lasciando poi ai corpi intermedi il compito di complementare.
Pur continuando a pensare che il tema sia eminentemente ideologico, alcune note finali di stampo pragmatico non si possono evitare:intanto è sotto gli occhi di tutti che l’esistenza di diversi livelli di erogazione regionale degli extra LEA è un dato di fatto, e che correla con la qualità del servizio; questo da solo dovrebbe promuovere una riflessione sulla meritorietà della tutela complementare; l’osservazione è rafforzata dal fatto che tutte le Regioni che hanno sinora chiesto autonomie differenziate, hanno anche chiesto di poter organizzare “Fondi integrativi” per erogare gli extra LEA.
In questa richiesta, personalmente trovo una conferma proveniente dall’interno del SSN, del fatto che la tutela della salute passa anche per gli extra LEA (e per la verità anche del fatto che, quando si tratta di trovare finanziamenti aggiuntivi, tutte le altre considerazioni passano improvvisamente in secondo piano!).
Ma trovo anche il rischio di un pericoloso precedente culturale, nella misura in cui schiaccia la partita della Sussidiarietà in un confronto sulle attribuzioni di Stato e Regioni, dimenticandosi del ruolo essenziale dei corpi intermedi: ruolo tanto più essenziale quanto più è necessaria una maggiore responsabilizzazione anche da parte dei cittadini.
Invece di fare concorrenza (credo anche sleale) ai corpi intermedi, le Regioni a mio parere dovrebbero invece chiedere l’autonomia per sviluppare forme di accreditamento delle proprie strutture finalizzate all’erogazione di prestazioni per solventi (quindi anche per i cittadini coperti dai Fondi), sfruttando dove esistono (ed esistono) capacità produttive inutilizzate o attualmente inutilizzabili (proposta peraltro contenuta nei Rapporti Sanità del C.R.E.A. già da un paio di anni).
Ancora a proposito di corpi intermedi, devo anche notare un’altra pecca del dibattito:quella di avere fatto grande confusione fra Fondi, che essendo promossi dai suddetti corpi intermedi, come tali vanno considerati, e Gestori. Sfugge forse che la gestione è cosa completamente diversa dalla promozione di un Fondo: e ritengo assolutamente legittimo, e anzi opportuno, che i Fondi utilizzino servizi specializzati per la gestione dei servizi.
Intanto perché, ad esempio, la costruzione di una rete di provider è cosa non semplice; c’è chi offre questo servizio (e, ovviamente, ne ottiene un profitto); peraltro ritengo che i Fondi siano largamente in grado di comprendere e valutare se gli convenga usufruire di servizi di mercato o farsi la rete in proprio assumendosene i rischi.
Analogamente, per l’aspetto finanziario: personalmente, se mi dovessi ad esempio iscrivere ad un Fondo che eroga anche prestazioni integrative di tipo Long Term Care, che per loro natura tendono a richiedere forme di accantonamento, vedrei con molta preoccupazione l’assenza di una gestione professionale e di una copertura assicurativa. Insomma, è miope leggere la gestione finanziaria come una questione di profitti delle assicurazioni (cosa peraltro perfettamente lecita), essendo anche e piuttosto una questione di tutela degli iscritti.
Tornando alla vicenda (colpevolmente assente nel dibattito) della richiesta delle Regioni di sviluppare Fondi integrativi, mi sembra che essa dovrebbe indicarci che il timore di alcuni, ovvero che lo sviluppo del secondo pilatro indebolisca il primo, sia superato dal fatto che il reale “smantellamento del monopolio” è già iniziato e lo è dall’interno del sistema stesso: non vedo come altro interpretare il fatto che le Regioni con maggiori capacità richiedono all’unanimità la possibilità di erogare extra-LEA con fondi aggiuntivi reperiti sul mercato privato.
Da questo dato di fatto, personalmente desumo che non avrei paura alcuna dei rischi di “rottura del sistema” derivante dall’avere strutture pubbliche che forniscono anche prestazioni (con modalità evidentemente “personalizzate”) in favore di pazienti solventi.
Ed inoltre, che sia fallace pensare che la partita si giochi sul ruolo delle assicurazioni o dell’“integrazione” verso la “sostituzione”, come neppure sulla concorrenza fra primo e secondo pilastro.
Oggi la questione del secondo pilastro si gioca sulla consapevolezza: 1) che la Sussidiarietà è un valore in sé e che ne va chiarita l’estensione; 2) dell’esistenza di fatto di un secondo pilastro promosso dai corpi intermedi, spinto da una crescente complessità e articolazione delle opportunità di tutela; 3) sulla conseguente necessità di esprimersi definitivamente su quale tipo di merito gli si voglia riconoscere: compito, questo ultimo, a cui la politica non può sottrarsi nascondendosi dietro diatribe apparentemente tecniche sulla natura “integrativa o sostitutiva” dei Fondi.
Federico Spandonaro
C.R.E.A. Sanità - Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
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