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17 MARZO 2019
Non rimettiamo la medicina penitenziaria nel ghetto da cui è uscita a fatica



Gentile Direttore,
nel lontano 1979 alle “Murate” (la Casa Circondariale), a “S. Teresa” (la Casa di Reclusione) e a “S. Verdiana” (la Casa Circondariale Femminile), tre istituti limitrofi, c’erano un paio di “medici incaricati” (gli analoghi dei MMG all’esterno) presenti in istituto circa tre volte la settimana, tre medici di guardia che si alternavano per garantire la presenza sulle 24 ore, pochissimi specialisti che venivano in carcere saltuariamente, tre “infermieri” in tutto, un brigadiere e un appuntato del corpo degli agenti di custodia (non c’era ancora la Polizia Penitenziaria) e un “infermiere detenuto”.
 
A dire il vero le esigenze sanitarie dei reclusori, quarant’anni or sono, erano un po’ minori rispetto a quelle di oggi, ma nemmeno tanto. Cominciavamo a confrontarci con la tossicodipendenza che sarebbe dilagata di lì a poco. Il disagio mentale era già presente in misura massiccia. I detenuti si suicidavano molto di più rispetto alla popolazione generale, ma non con l’incidenza attuale. Di sicuro, allora, si prestava minore attenzione alle esigenze di cura dei detenuti: nessuno ci si meravigliava più di tanto se della gente marciva in galera. C’erano diverse rivolte nelle carceri, ma venivano domate con interventi “radicali”.
 
Molte persone avvedute, competenti e ragionevoli si sono battute, negli anni, affinché il grande disagio “sanitario” all’interno delle carceri venisse affrontato in maniera adeguata. Affinché la sofferenza dell’uomo imprigionato ricevesse risposte “riabilitative” adeguate, affinché da una diffusa disperazione si transitasse almeno a una misurata speranza e non alla semplice rassegnazione. Fra queste persone c’è stato sicuramente Alessandro Margara, che conosceva nel dettaglio i problemi “di salute” del carcere.
 
Proprio perché conosceva tali problemi, Margara promosse alcune riforme del sistema carcere. Promosse la “legge Gozzini”, per cooptare i detenuti, responsabilizzandoli, all’interno delle manovre trattamentali. Nella stessa direzione si è sempre battuto per adattare le norme dell’Ordinamento Penitenziario alle esigenze di “riabilitazione” dell’uomo recluso: l’ultima vera riforma del Regolamento di Esecuzione dell’OP, il DPR 230/2000, fu pensato e fortemente voluto da Margara nei pochi ma illuminati anni della sua presidenza del DAP.
 
Pochi anni prima (era il 1997) Margara, elaborando il “Progetto di Legge delle Regioni”, che rimase purtroppo solo una proposta di legge, aveva delineato anche il percorso per il “Superamento degli OPG”, che sarebbe, a nostro avviso, da riprendere in mano per correggere le distorsioni delle norme vigenti in materia.
 
Nel 1999, sempre quando era capo del DAP, Margara elaborò e fece approvare il DL 230/1999, col quale indicava la necessità che l’assistenza sanitaria nelle carceri passasse dal Ministero di Grazie e Giustizia a quello della Sanità, avviando i primi passi verso tale evoluzione.
 
Il transito si sarebbe completato ben nove anni più tardi, con il DPCM del 1° aprile 2008. Un passaggio cui si opposero strenuamente taluni medici penitenziari (addirittura incatenandosi davanti alle carceri dove prestavano servizio).
 
Da quel momento tutta l’assistenza sanitaria delle persone recluse sarebbe stata gestita dai Sistemi Sanitari Regionali. Stessa assistenza, quindi, per i cittadini liberi e per quelli reclusi. Un enorme balzo in avanti rispetto alla precedente situazione di totale “isolamento sanitario” del carcere! Non avendo ottenuto ascolto le opinioni di chi conosceva il settore, si capì solo con l’andare degli anni che le esigenze sanitarie delle persone recluse erano enormemente superiori a quelle di un campione, numericamente sovrapponibile, di cittadini liberi.
 
Così ad esempio a Firenze, nelle due Case Circondariali e nell’IPM (Istituto Penale Minorile), attualmente prestano servizio circa centocinquanta operatori che provengono dalla AUSL (o, per quanto riguarda gli infermieri, da cooperative cui la AUSL ha appaltato il servizio). Con il DL 230/1999 e con il DPCM 1° Aprile 2008, insomma, si è voluto sottolineare che l’assistenza da garantire ai detenuti deve (o dovrebbe) essere la stessa che è assicurata, in un determinato territorio, ai cittadini liberi.
 
Molto rimane da fare, a nostro parere, perché l’assistenza sanitaria in carcere sia adeguata alle enormi esigenze di cura dei reclusi, ma qualche passo in avanti lo si è fatto. Certo è che, considerando lo stato attuale delle carceri, non bisogna assolutamente meravigliarsi che scarseggino gli operatori sanitari disposti ad andarvi a lavorare.
 
Ma considerando lo stato attuale dell’Italia, non c’è da meravigliarsi se i medici preferiscono andare all’estero. Gli stipendi, in carcere e fuori, non consentono certo a una buona parte dei medici di vivere dignitosamente, specie a fronte delle crescenti responsabilità professionali, responsabilità che diventano enormi all’interno delle carceri, dove una larga parte dei medici nemmeno percepisce, nonostante i palesi rischi cui tale personale è esposto, alcuna indennità penitenziaria. Cominciamo a restituire dignità (anche nelle retribuzioni) al lavoro dei colleghi e forse la fuga subirà una battuta di arresto. Specie se si terrà conto del carattere molto impegnativo e audace del lavoro da svolgere.
 
E’ ovvio, inoltre, che negli istituti di pena occorrerà pensare a livelli di assistenza omogenei su tutto il territorio nazionale, con le debite differenze a seconda della tipologia e della capienza degli istituti.
 
Una omogeneità indispensabile e ineludibile, anche solo pensando alla trasmissione dei dati informatici o alle dotazioni farmacologiche. Però, per favore, non ipotizziamo la costituzione di una unica AUSL nazionale per i 206 istituti di pena sparsi su tutto il Paese (vedi proposta Fimmg).
 
Saremmo di fronte a una regressione pericolosissima, che sgancerebbe l’assistenza sanitaria penitenziaria dal legame con l’organizzazione locale che ne rende comparabile e controllabile la qualità. Una qualità che abbisogna certo di una formazione costante, ma evitando inutili e forse dannose “specializzazioni penitenziarie”.
 
I passi in avanti che si sono faticosamente compiuti negli ultimi anni sono avvenuti facendo evadere l’assistenza penitenziaria dal ghetto angusto nel quale la si era mantenuta reclusa. Non ricreiamo questa asfissia: apriamo all’esterno e al confronto la cura, anziché comprimerla all’interno.
 
Dr. Mario Iannucci
Psichiatra psicoanalista
Esperto di Salute Mentale applicata al Diritto
 
Dr. Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperto di Salute Mentale applicata al Diritto

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