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Venerdì 29 MARZO 2019
I medici e quel difficile ma necessario ‘cambio di passo’



Gentile Direttore,
sono un medico “anziano” e partecipo con entusiasmo ai mercoledì filosofici all’Ordine dei medici di Venezia, organizzati da Ars Medica. In questi incontri settimanali tra medici e filosofi, partendo dalle 100 tesi scritte dal prof. Cavicchi ci stiamo interrogando sulla crisi che sta vivendo la professione medica, ripensando il ruolo del medico e della medicina in vista degli Stati generali della professione.

Affrontare la questione medica significa per noi in questo periodo di crisi domandarci quale medicina, quale medico vogliamo tenendo conto dei cambiamenti sociali, scientifici, economici, valoriali, culturali etc.. ;

Cambiando la società cambia il paziente, il quale a sua volta cambia la forma della relazione che ha con la medicina e con il medico.
E’ la persona nel ruolo di paziente che incontra la persona nel ruolo di medico. L’incontro tra queste due persone crea una relazione che è caratterizzata da una serie di elementi affettivi, comportamentali, cognitivi, più o meno consapevoli tra le due persone.

In origine, il termine persona indicava la maschera che l'attore del teatro antico portava sul suo volto ed attraverso la quale la sua voce risuonava e rimbombava (“personare”) così da potere essere più facilmente ascoltata. In tutti i suoi sensi, per altro, persona indica sempre, in qual che modo, relazione. Relazione era, per certi aspetti, la stessa maschera dell'attore, indossata appunto per porsi in un particolare rapporto con il pubblico.
La società tecnologica attuale si fonda e si struttura sul "mascheramento" collettivo rappresentato dal prevalere dei ruoli e delle funzioni sul proprio essere profondo: non si è più, nè comunque soprattutto, uomini, ma medici e pazienti: si è in qualche modo definiti e individuati per quello che si fa e per il ruolo sociale che si assume, non per quello che si è autenticamente (fare il medico o essere medico?).

Indossare la "maschera" è diventato alla fine necessario; ma occorre, ad un certo punto, "togliere la maschera". Se il dialogo che si instaura tra il medico e il paziente è autentico, entrambe le identità che si celano dietro i ruoli di “medico” e “paziente” non possono non mettersi in gioco.  Nell’incontro col medico la persona, getta almeno in parte la "maschera" , svela il suo volto scoprendo il suo corpo.

Questo mi aiuta a comprendere la sofferenza del malato, a vedere nella persona del mio paziente che mi parla ed ha fiducia in me, un Tu che mi interpella e chiede risposte e rassicurazioni sulle sue domande di salute, di benessere, sulle sue paure, suoi sensi di colpa… e spera….
Il contatto umano, la capacità di esaminare un corpo anche attraverso i miei sensi, la capacità della mia mano di toccare, diagnosticare, curare sono la mia risposta responsabile ma anche una sorta di rituale, un messaggio, una comunicazione empatica.

L’’empatia influenza il successo di un trattamento. Lo ha anche confermato la ricerca F.I.O.R.E., realizzata dalla Fondazione Onlus Giancarlo Quarta di Milano con l’Università di Udine attraverso l’utilizzo di una metodica di neuroimaging basata sulla risonanza magnetica funzionale dimostrando che le diverse modalità di rapporto attivano precisi, e differenti, circuiti cerebrali.

La relazione tra medico e paziente fa parte delle relazioni umane, ma è anche una relazione professionale; quindi la relazione è simmetrica per il fatto che condivido con il paziente la stessa umanità (l’essere persona), ma è asimmetrica dal punto di vista delle conoscenze mediche.

Un problema che io vivo è che mi trovo a fronteggiare una forte domanda di relazioni con un paziente sempre più “esigente” (come bene dice Cavicchi) sia per richiesta di “prestazioni” per garantirsi la salute, sia per negoziare e condividere le necessità, gli scopi e la scelta dei trattamenti.

Questo molte volte mi trova spiazzato come nel caso recente in cui una mia paziente giovane con un tumore alla mammella ha “scelto” di rifiutare le cure per rivolgersi a d un “guaritore”. Questa scelta non mi sembrava né razionale, né ragionevole e naturalmente non condivisa.

Ma il paziente anche se viene informato correttamente sulla sua malattia, sulle prospettiva di vita, sulle cure che gli possono essere prospettate è “libero” di scegliere di poterne fare a meno.

Come incide ciò sulla salute del paziente e su quella del curante e qual è il costo? D’altra parte l’attenzione di noi medici è spesso focalizzata sullo schermo del computer, sull’esito di esami (di elevato livello tecnologico sempre più elevato) e quindi deviata dalle vite, dai corpi e dalle anime delle persone affidate alle sue cure.

Rischiamo così di ridurre la persona sofferente che si rivolge a noi ad una realtà virtuale o ad una macchina da riparare o a cui cambiare qualche pezzo ed anche noi medici diventiamo   delle macchine o dei robot. Sebbene le macchine e l'intelligenza artificiale giocheranno un ruolo sempre più importante, dietro tutto ciò c'è sempre la persona, con il suo calore, la sua empatia, la sua compassione.
Il rapporto umano fra colui che cura e colui che soffre, non penso sarà sostituito dalle macchine.  Quando si tratta della propria salute, è il paziente stesso che non chiede di venire curato soltanto dal punto di vista astrattamente scientifico.

Il piano della relazione medico-paziente svolge un ruolo ineliminabile. Ma aspetti determinanti della competenza clinica come la relazione e la comunicazione efficace con il paziente sono competenze apprese dagli studenti di medicina o sono tra quelle cose che non vengono insegnate e che devono essere comunque imparate?

La Carta di Firenze (documento presentato il 14 aprile 2005, che proponeva una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto, non paternalistico, tra medico e paziente) afferma che il tempo dedicato all'informazione, alla comunicazione e alla relazione è “tempo di cura”. 
Un problema è che questo “tempo” spesso chiede di essere dilatato, ma altrettanto spesso ciò non è possibile per moltissimi motivi.

La parte più difficile per un “cambio di passo” è forse mediare (oltre che con il paziente) con le richieste della società, della tecnologia, dell’economia, la politica e chiedere che i gestori dei sistemi sanitari spostino l’attenzione verso una organizzazione centrata sulla persona e non solo verso una cura centrata sulla persona.
 
Roberto Zanibellato
Medico di famiglia
Partecipante ai mercoledì filosofici della Fondazione Ars Medica Omceo Venezia

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