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Giovedì 04 LUGLIO 2019
La vita segreta dello psicoterapeuta nell’epoca della esposizione (specie di quella mediatica)



Gentile Direttore,
lo scorso 30 marzo, sul NYTimes, è comparso un articolo di Lori Gottlieb, psicologa, psicoterapeuta (con un basic graduate level degree in terapia familiare, per quanto possiamo capire da una superficiale indagine su google) e scrittrice americana. “How Much Should You Know About Your Therapist’s Life?”: questo era il titolo dell’articolo, nel quale l’Autrice ha sostenuto che il livello di odierna esposizione, specie attraverso i social media (ma per l’Autrice anche attraverso la scrittura di taluni testi a impronta autobiografica), non compromette certo lo stabilirsi di adeguate relazioni terapeutiche con i pazienti (i quali è inevitabile che googlino i loro terapeuti) ma anzi, collocando i terapeuti su di un livello in qualche misura più “umano”, favorirebbe lo stabilirsi di più strette relazioni terapeutiche.
 
Così come, in certi casi e a determinate condizioni (in particolare che sia “utile” al paziente), può essere opportuno che un paziente venga messo dallo stesso terapeuta a conoscenza di particolari “privati” della vita di quest’ultimo, ad esempio che anche il terapeuta, come il paziente, ha un figlio affetto dalla S. di Gilles de la Tourette. Maggiore cautela forse -sembra dire l’Autrice, ma non si capisce su quali basi operi il distinguo- il terapeuta dovrebbe avere nel mettere il paziente al corrente del fatto che entrambi hanno un padre morto suicida.
 
Gli argomenti della psicologa americana, per chiunque abbia una autentica esperienza e una responsabilità terapeutica, sembrano davvero costruiti su un terreno sabbioso. C’è infatti una differenza radicale e irriducibile tra i diversi livelli di esposizione. Occorre intanto osservare che l’odierna esposizione mediatica è tutta giocata a livello del Moi (per dirla con Lacan). Ciò che le persone vanno rivelando con le abituali commediole mediatiche, si declina sul registro della rappresentazione e dell’inganno, specie allorché qualcuno fa le viste di porgere agli altri bocconcini appetitosi della sua secret life.
 
Un grado diverso di esposizione un terapeuta lo raggiunge se decide di fare parte o di promuovere una associazione di ricerca e di cura costituita da familiari di pazienti affetti da La Tourette, ovvero da familiari di persone morte suicide. Potranno addirittura sperare, questi terapeuti, che taluni pazienti li scelgano proprio confidando in un aiuto tra “pari”: il peer support, che va molto di moda worldwide, è un miraggio totale considerando la necessaria asimmetria delle posizioni del terapeuta e del paziente, un miraggio fra l’altro pericoloso perché inscrive in una indebita legittimità le aspirazioni edipiche del paziente. Ogni vero terapeuta saprà esattamente qual è il limite di “familiarità” che col paziente non bisogna attraversare (e la heimlichen è contrapposta a unheimlichen, con quest’ultima che si declina anche come segreto). Un limite che sarà profondamente diverso a seconda che a tracciarlo sia un Groddek, un Ferenczi o un Freud.
 
A un grado ulteriormente diverso di esposizione va incontro il terapeuta che, seppure con le necessarie cautele relative alla privacy, decide di partire dalla storie della sua esperienza clinica per proporre nuove visioni teoriche. Per farlo ci vuole un discreto coraggio, forse addirittura una ‘misurata spregiudicatezza’ (mi si perdoni l’apparente ossimoro). E’ quello che ha fatto Freud, ad esempio, raccontando di sé stesso e, soprattutto, dei suoi famosi pazienti. In un’epoca nella quale di coraggio e di spregiudicatezza c’era bisogno per la crescita dell’umanità.
 
Sarebbe curioso sapere cosa Lori Gottlieb pensa del transfert e della asimmetria delle posizioni del terapeuta e del paziente. Ella infatti, come paziente, ritiene lecito farsi un’opinione del suo terapeuta apprendendo da google che ha un padre morto d’infarto in giovane età, mentre trova sconveniente che i terapeuti cerchino attraverso google di “saperne qualcosa di più” dei loro pazienti, riconoscendo che, per quella via, falliranno con ogni probabilità l’obiettivo e potrebbero invece essere non poco dannosi.
Cerchiamo di essere chiari. Chiunque pensa che la secret life delle persone sia quella che ci viene incontro attraverso ciò che apprendiamo da FB, da Istagram, da Google e dai media in generale, conosce assai poco di sé e potrà conoscere pochissimo dei pazienti che dichiara di voler aiutare.
 
L’accesso alla vita segreta, per i pazienti (anche per coloro che diverranno terapeuti) è un percorso difficile e accidentato, pieno di resistenze, di deviazioni e persino di ‘deragliamenti’. Solo il terapeuta che «abbia appreso a sufficienza dai propri “sbagli ed errori” e sia riuscito a padroneggiare i “punti deboli della sua stessa personalità”»[i] (sono le parole con cui l’ultimo Freud rende un tardivo tributo a Ferenczi) potrà davvero pensare di avvicinarsi alla vita segreta dei suoi pazienti, a quanto di unheimliche c’è nei segreti dell’Es, evitando le trappole del Moi.
 
Mario Iannucci e Gemma Brandi
Psichiatri psicoanalisti
Esperti di Salute Mentale applicata al Diritto
 
[i]Freud S., Analisi terminabile e interminabile, in Opere Vol. 11, Torino 1979, p. 530. Nello scritto Freud cita Il problema del termine delle analisi, una comunicazione tenuta da Sándor Ferenczi al Congresso di Psicoanalisi di Innsbruck del 1927 e pubblicata l’anno dopo.

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