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Martedì 01 OTTOBRE 2019
Fine vita e diritto all’amorevolezza

L’amorevolezza si basa sulla relazione di cura, dell’ascolto, del rispetto, della presa in carico della persona, una relazione che trasmette anzitutto calore umano. Beni preziosi che fanno la differenza e contribuiscono in modo rilevante a definire la qualità della vita delle persone

Ogni volta che si affrontano le questioni etiche relative al  “fine vita”  il dibattito pubblico si polarizza tra i sostenitori della sacralità della vita e i sostenitori della libertà di scelta e l’autodeterminazione delle persone.
 
E’ accaduto anche di fronte alla recente sentenza della Corte Costituzionale, a mio avviso molto equilibrata e saggia, in merito al suicidio assistito.
Per promuovere concretamente la dignità della vita umana e rendere veramente libero l’esercizio della scelta bisogna praticare ed esplicitamente nominare un terzo diritto, il ”diritto all’ amorevolezza”.
 
Che deve essere un dovere per le famiglie, le istituzioni, la comunità, la comunità della cura.
L’amorevolezza rende concreto l’amore per la persona e crea le condizioni per  l’esercizio della libertà di scelta.
 
Perché l’amorevolezza si basa sulla relazione di cura, dell’ascolto, del rispetto, della presa in carico della persona, una relazione che trasmette anzitutto calore umano. Beni preziosi che fanno la differenza e contribuiscono in modo rilevante a definire la qualità della vita delle persone.
Siamo sicuri che questo bene fondamentale, la relazione di cura, sia alla base degli interventi sanitari, sociali, della attenzione delle famiglie e delle istituzioni?
Siamo sicuri che sia una opportunità per ciascuna persona malata?
Io ne dubito.
 
Resta avvolto in un cono d’ombra, nel dibattito pubblico, la condizione della lunga convivenza con la malattia che costituisce uno dei più rilevanti bisogni di salute.
La lunga convivenza con la malattia coinvolge situazioni e patologie diverse e andrebbe indagata nella condizione umana che la contraddistingue. Essa pone l’esigenza di un approccio olistico alla persona in cui la relazione umana, l’attivazione delle sue competenze, la lotta contro il dolore sono ingredienti universali e fondamentali.
 
Creare le condizioni affinché la lunga convivenza con la malattia, nelle multiformi situazioni e gradi di dipendenza in cui si manifesta, sia una condizione pienamente umana, è un nuovo diritto alla salute che bisogna elaborare e costruire.
Il diritto /dovere all’amorevolezza contrasta con la cultura dello “scarto” e con l’economicismo che determinano tante situazioni di abbandono, di solitudine, di enorme fatica per le famiglie. Fenomeni molto diffusi anche se silenziosi che inducono una sorta di “dovere di morire” il più rapidamente possibile che si abbatte maggiormente sui soggetti più poveri e privi di affetti famigliari.
 
Affermare il diritto alla amorevolezza e il dovere della amorevolezza illumina la concreta condizione della malattia, della sofferenza, della dipendenza. Illumina il silenzioso” dovere di morire” cui sono indotte persone povere, sole e fragili. 
Mette al centro le cure mediche, le pratiche umane e sociali che possono alleviare la sofferenza e rendere umana la convivenza con la malattia. Facendo di queste politiche, interventi fondamentali e cruciali nei percorsi di assistenza e cura sanitari e sociali.
 
Oggi questo non c’è. Lo conferma ad esempio la situazione delle cure palliative e delle terapie  contro il dolore.
Previste come diritto della persona e come livello essenziale di assistenza da una legge che compie  dieci anni, la legge 38/2010, considerata tra le più  avanzate d’Europa essa resta poco applicata.
 
In essa la palliazione e la terapia del dolore sono collocate all’interno del percorso di cura dei pazienti e non limitatamente alla parte terminale della loro vita. La medicina delle cure palliative è e rimane un servizio alla salute. Non dunque una medicina per il morente e per aiutare a morire ma una medicina per la persona che rimane una persona vivente fino alla morte.
 
Le terapie contro il dolore considerano il dolore non come un male da sopportare ma una malattia che deve essere presa in carico, combattuta e alleviata. So bene che la disponibilità di cure palliative e di terapie contro il dolore non è in grado di alleviare stati acuti di malattia e condizioni umane non  più sopportabili.
 
Tuttavia se esse fossero considerate una priorità assoluta per le politiche di sanità, se esse fossero più presenti nel dibattito pubblico tante persone vivrebbero meglio e in condizioni più umane la convivenza con la malattia. Sarebbero un esempio di quella amorevolezza verso la persona che ciascuno di noi deve essere stimolato ad apprendere e praticare.
 
Livia Turco
Ex ministro della Salute

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