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Martedì 15 OTTOBRE 2019
Suicidio assistito. Ancora sull’amorevolezza e sulla bioetica



Gentile direttore,
il dibattito suscitato dalle scarne osservazioni che avevo proposto sul diritto all’amorevolezza (QS, 7 ottobre) sono il segno palese che la decisione della Corte Costituzionale sul suicidio medicalmente assistito comporta – piaccia o no – un netto cambiamento del paradigma invalso circa la vita e la morte delle persone e del sistema di regole con cui ragioniamo al riguardo. Data l’importanza del tema sono a chiederle ancora una volta ospitalità per proporre alcune brevi precisazioni al fine di chiarire alcune ambiguità rimaste aperte nel dialogo con Livia Turco, e sciogliere alcuni fraintendimenti presenti nell’intervento di Ivan Cavicchi.
 
Concordo con la tesi di Livia Turco che avere le condizioni per l’autorealizzazione è un diritto e non una concessione filantropica, e che tale diritto prende corpo nel vivere in una comunità di affetti in cui la persona, stando “in relazione con l'altro […] esprime e costruisce la sua autonomia” (Turco, QS, 8 ottobre).
 
Il punto da chiarire è un altro, e cioè se una persona ben socializzata, che si trovi in quella che ho chiamato “condizione infernale”, abbia o no titolo di chiedere di essere aiutata a uscire dalla vita. Dal punto di vista etico la risposta non può che essere o sì o no! Poi, nella pratica della vita, so bene che ci sono tanti chiaroscuri, distinguo e infinite tonalità di grigio. Ma dal punto di vista concettuale, la risposta è netta e secca: e comporta l’adesione all’uno o all’altro paradigma etico.
 
Livia Turco mette in campo il diritto all’amorevolezza, ma evita di dire se quel diritto include il diritto di chiedere aiuto a uscire dalla vita, oppure no. Dai toni dei suoi contributi sembra che tale diritto sia sempre escluso, e che un’eventuale richiesta di aiuto a morire:
1] sia sempre e in ogni caso dovuta a una qualche forma di “abbandono” (e quindi non sia mai derivante da una scelta realmente autonoma);
2] sia frutto di una concezione “individualistica” o di un “io solipsistico, individuo solitario che non riconosce il legame con l'altro” (Turco), cioè dipenda da visioni del mondo in contrasto con quelle della Sinistra.
 
Ripeto, non sono sicuro che Livia Turco abbia insistito sul diritto all’amorevolezza per escludere o mettere fuori gioco il diritto di chiedere aiuto a morire. Anzi, sarei contento di essere smentito. In un senso, comunque, il punto è poco rilevante, perché il mio compito qui è chiarire il quadro delle posizioni in discussione e sottoporle a vaglio critico per valutarne la plausibilità.
 
In questa prospettiva osservo che la tesi 1] è fattuale, e può essere verificata o falsificata andando a vedere se in un dato caso concreto la persona che richiede un aiuto a morire sia davvero abbandonata o, invece, sia circondata da affetto, calore umano e cure. Tale operazione richiede grande attenzione e prudenza, perché la situazione è molto delicata, ma non è impossibile e va fatta. A volte capita che, in effetti, una persona che sia circondata dagli affetti più cari e non abbandonata chieda a ragion veduta e in autonomia di essere aiutata a morire per evitare la condizione infernale.
 
La tesi 2], invece, è valutativa, perché con individualismo o solipsismo si indica la visione del mondo per cui è buono e giusto che l’individuo pensi prima di tutto ai propri interessi e a se stesso, senza preoccuparsi più di tanto degli altri.
 
Per sapere se un’eventuale richiesta di essere aiutati a morire sia informata o no a una qualche forma di egoistico disinteresse per gli altri può essere opportuno prendere in considerazione ciò che Remo Cerato, 58enne consigliere comunale a Germagnano (Torino), ha scritto ai figli e alla moglie prima di morire: “Non siate sorpresi dell'epilogo che ho scelto, perché è in linea con quello che sono sempre stato. Non posso permettere a questa terribile malattia di fare ancora di più. Ha già distrutto il mio fisico del quale ero orgoglioso, ha cancellato il mio lavoro, ha fiaccato la mia psiche con mesi di terrore conoscendone bene l'evoluzione, mi ha già allontanato dai miei affetti ed in futuro mi costringerebbe a diventare un peso dannoso per i delicati equilibri familiari. Ho ancora un ruolo ed una responsabilità: tutelare i miei figli a qualunque costo... e per farlo non devo danneggiare troppo il luogo sicuro della loro infanzia con una presenza sempre più destabilizzante. Loro sono il mio orgoglio, la mia proiezione nel futuro e sono stati la mia vita finché è stata tale. Quindi lo devo fare, è molto semplice!” (la Repubblica, Torino, 10 settembre 2019).
 
Le parole riportate, come altre testimonianze analoghe, rivelano una visione del mondo ben lontana dall’individualismo o dal solipsismo, e confutano alla radice anche un’idea sostenuta al riguardo dal cardinal Bassetti, ossia che il suicidio sarebbe sempre “un atto di egoismo, un sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare”. Ben lontani dal voler sottrarre agli altri alcunché, le parole di Remo Cerato rivelano un forte senso di responsabilità per gli altri e un alto senso della propria dignità: valori che la Sinistra dovrebbe riconoscere, sostenere e promuovere. Ecco perché è morale la richiesta di suicidio medicalmente assistito, e comunque è inclusa nel diritto all’amorevolezza e compatibile con esso. Anche le Chiese protestanti italiane si muovono in questa linea, come ricordato da Luca Savarino (QS, 1 agosto 2019).
 
Quanto al contributo di Ivan Cavicchi (QS, 9 ottobre), lo ringrazio per avermi riconosciuto “il merito di essere stato in Italia il caposcuola della bioetica laica”: un complimento che mi lusinga e mi imbarazza a un tempo. Infatti, Cavicchi boccia senz’appello l’intera bioetica presentandola come una “anti-filosofia” che ha una forte “vocazione normativista”, ossia la “solita pretesa di sempre: prescrivere ai medici, ai malati, alla società tutta, le proprie verità”. Per questo, la bioetica aspirerebbe a essere “l’ombelico del mondo”, senza però riuscirci anche perché non considera la “questione medica” e le 100 tesi che la discutono.
 
Non capisco che cosa ci sia di male nell’avere una vocazione normativista, cioè nel voler cercare di capire, e anche di stabilire, se l’aborto (il suicidio medicalmente assistito, ecc.) sia o no eticamente giusto, e perché. L’etica è un’istituzione sociale importante, e è bene che ci si impegni nel cercare di capire se pratiche come l’aborto, la gravidanza per altri, l’eutanasia, ecc.  siano o no moralmente lecite. Inoltre, a ben vedere, Cavicchi stesso non si sottrae alla vocazione normativista: infatti, nel suo contributo non fa altro che dare giudizi su ciò che si deve fare o non di deve fare, su chi è buono e chi è cattivo. Cioè, fa quel che condanna in altri.  Con la differenza che, invece di precisare i termini del problema da affrontare, acquisire distanza critica e soprattutto dare ragioni pro o contro la tesi affermata, pare sopraffatto dalla foga di arrivare al precetto e non controlla il discorso.
 
Per esempio, osserva che nella mia lettera ci sarebbe “un passaggio […] che spiega perché la bioetica non può tollerare né i discorsi sull’amorevolezza, né la posizione autonoma sulla sentenza della Corte assunta dal presidente della Fnomceo”.
 
Non è chiaro quale sia il mio passaggio incriminato, ma assicuro Cavicchi che può stare sereno serenissimo che, qualunque cosa sia la bioetica, essa può benissimo “tollerare” tutti quei discorsi e altri ancora! Infatti, mi sono limitato prima a distinguere i diversi piani di discorso, e poi a mettere in luce eventuali manchevolezze interne agli stessi: operazione che non è segno di intolleranza, ma è esercizio legittimo (anzi doveroso) di critica intellettuale al fine di far crescere il dibattito culturale. Se ho sbagliato su qualche punto, sono pronto a ravvedermi. Invece di una generica censura di intolleranza, sarebbe stato meglio avere indicazioni su dove avrei sbagliato e le ragioni del presunto errore, perché in questo modo cresce la riflessione.
 
In un altro passo, Cavicchi prima plaude alla “visione del rapporto medico malato ricca, umana, relazionale, quindi filosofica” sottesa al diritto all’amorevolezza proposto da Livia Turco, e poi sostiene anche che  “la solidarietà, o la pietà, o la compassione, non possono essere “assistenza medica” perché se fossero assistenza sarebbe inevitabilmente per ragioni deontologiche anti-suicidaria”.
 
A prima vista quella riportata sembra una sorta di contraddizione:  l’amorevolezza implica la solidarietà, ecc. e, se il diritto all’amorevolezza rimanda all’“assistenza medica”, com’è che si dice anche che solidarietà ecc. non possono essere assistenza medica? Lo si capisce se si considera che, nel contesto specifico, Cavicchi ridefinisce “assistenza medica” in base alla attuale deontologia medica, che è anti-suicidaria. Ma questa ridefinizione implicita dei termini usati rivela, appunto, scarsa attenzione al linguaggio e scarso controllo del discorso.
 
Anche peggio è la trattazione dello “scientismo morale e/o morale scientista”, termini con cui Cavicchi indica la posizione che a suo dire starebbe alla base della bioetica, cioè che “l’etica non può essere […] un valore ideale, ma si deve basare solo sulla scienza”.  Peccato che, dai tempi di David Hume (1711-1776), chi si occupa di etica sa benissimo (o dovrebbe sapere) che altro è l’“è” e altro è il “si deve”, ossia in altre parole che “la scienza descrive il mondo com’è”, mentre “l’etica prescrive come il mondo deve essere, o valuta se è buono o cattivo”. La definizione data da Cavicchi è frutto di parole in libertà che non hanno senso.
 
Verso la fine, Cavicchi vuole riaffermare “la necessità di un ragionamento etico a tutto campo emancipandolo dalle logiche scientiste della bioetica” come premessa alla notizia che “personalmente farei a meno della bioetica”: la sua dichiarazione di gusto personale ci rallegra, ma è rilevante tanto quanto sapere che non gli piace la Coca Cola o che preferisce il the alla pesca. L’autocertificazione, poi, di fare un “ragionamento a tutto campo” fa pensare che il suo sia un discorso più ampio e completo di quello fatto da chi, seguendo la logica scientista, ragiona invece “nell’orticello” o nel “giardino di casa”.
 
Ma che cos’è mai questa “logica scientista”? Cavicchi ahimè! non lo precisa ma, a naso, dovrebbe essere un “eccesso di scienza”, cioè il volere un discorso troppo rigoroso, coerente, controllato e sensato: le caratteristiche minime della scienza, di ogni scienza. A ben vedere, però, non ha senso dire che si danno eccessi di rigore, di coerenza, ecc., più di quanto abbia senso dire che una circonferenza è eccessivamente rotonda. Se è così, allora la richiesta di emancipazione dalla “logica scientista” equivale alla richiesta di esenzione dalla logica, dal controllo del discorso, ecc., ossia alla richiesta di poter dire tutto e il contrario di tutto, credendo che basti qualche battuta ad effetto, sostenuta dal solito parolone o da una citazione dotta che incute timore, per poter affermare di fare etica “a tutto campo”.
 
Checché ne pensi Cavicchi, in etica, come in ogni altro campo del sapere, il discorso deve essere sensato, rigoroso, coerente e controllato: è seguendo questi criteri che la bioetica è nata, e – gli piaccia o no – è diventata il più grande movimento culturale dell’ultimo mezzo secolo. Come ho sostenuto in altre sedi, la bioetica è la riflessione culturale sulla Rivoluzione biomedica ossia quel grande processo storico che sta portando al controllo del mondo organico (come la Rivoluzione industriale iniziata circa tre secoli fa e in via di completamento con la robotica e l’informatica ha portato al controllo del mondo inorganico).
 
L’acquisizione della capacità di controllo della vita (organica) è un cambiamento epocale (analogo al controllo del fuoco o la scoperta della ruota), e comporta un radicale cambiamento delle circostanze storiche: la bioetica è nata e si sviluppa perché c’è l’esigenza di sottoporre a vaglio critico i valori ricevuti e forse trovare una nuova tavola dei valori. La sentenza della Corte Costituzionale sul suicidio medicalmente assistito va vista in questa prospettiva più ampia che ho delineato, come passo teso a chiarire se l’art. 579 cp., che è stato elaborato quando la medicina si trovava in condizioni del tutto diverse dalle attuali, è ancora valido nelle circostanze attuale per quanto riguarda l’“aiuto” al suicidio. Né va dimenticato che la decisione sul punto comporta l’adesione all’uno o all’altro “paradigma”, ossia un diverso modo di vedere e apprezzare il mondo.
 
Proprio perché siamo in un mondo in ebollizione, concordo con Cavicchi che “oggi la medicina e la professione medica hanno bisogno di ridiscutersi”, ma dissento dalla sua tesi che “la bioetica non è su questo terreno in grado di dare contributi. Gioco forza bisogna tornare all’etica medica di una volta”. Dal punto di vista fattuale rilevo come gli Ordini di varie città (Piacenza, Torino, Rimini, Modena, e forse altre) hanno organizzato o organizzano corsi o master di bioetica per sollecitare la ridiscussione della medicina: nelle realtà locali l’aratro della bioetica lavora e scava in profondo.
 
Dal punto di vista etico, poi, non si capisce per quali ragioni si debba “tornare all’etica medica di una volta” (cioè quella ippocratica, come sostiene il Presidente Fnomceo, Filippo Anelli), né tantomeno perché tale ritorno vada fatto “gioco forza”, quasi fosse richiesto da una sorta di necessità. Se il mondo è in un rapido e profondo progresso che porta a ridiscutere tutto, perché non rimettere in discussione o almeno sottoporre a vaglio critico anche i precetti e i valori etici? Rispondere che “gioco forza bisogna” equivale o alla ricetta da Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», oppure a una mossa retorica per mettere da parte il problema.
 
Ma se è vero che la biomedicina ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere, allora non possiamo non chiederci se le tradizionali norme che hanno coordinato la vita sociale nelle precedenti condizioni storiche siano ancora adeguate nelle nuove. Non farlo sarebbe come dire che si deve continuare a indossare il cappotto d’estate, perché l’abbiamo sempre fatto d’inverno, un’idea assurda: come al cambiare della temperatura bisogna cambiare il tipo di vestiario per garantire il benessere dell’interessato, così va fatto coi valori e precetti morali, il cui scopo è favorire un coordinamento sociale per intima convinzione degli agenti e capace di assicurare un adeguato livello di benessere. Ecco perché non c’è ragione alcuna per dire che “gioco forza bisogna tornare all’etica medica di una volta”.
 
La bioetica non aspira affatto a essere l’ombelico del mondo, e circa la “questione medica” e le 100 tesi di Cavicchi in effetti c’è un ritardo, ma un’ampia discussione su di esse è in programma, non foss’altro perché sono cinque più di quelle di Lutero, e avranno un effetto ancor più dirompente. Le 95 di Lutero hanno cambiato in profondità la vita religiosa e sociale dell’Occidente, le 100 di Cavicchi produrranno una trasformazione epocale dell’intera assistenza sanitaria e con essa della società tutta.
 
Il ritardo nella disamina è dovuto ai tanti (troppi) impegni accademici, che si uniscono alle difficoltà oggettive incontrate nella lettura: le 95 tesi di Lutero sono limpide e cristalline, ammontano a circa 15.000 battute spazi inclusi (i pochi fogli affissi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg), che si leggono con facilità e piacere  mentre le 100 tesi di Cavicchi occupano circa 705.000 caratteri (spazi inclusi, 332 pagine a stampa) e la prolissità della prosa rende a volte difficile seguire il filo del discorso. Anche alcuni colleghi hanno trovato difficoltà nella lettura, e per rimediare abbiamo pensato di dedicare un anno intero (o forse due) all’approfondimento del tema, con la speranza però di riuscire a finire prima.
 
Maurizio Mori
Professore ordinario di bioetica e filosofia morale, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università di Torino
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus
Componente del Comitato Nazionale per la Bioetica
Direttore di Bioetica. Rivista interdisciplinare

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