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Mercoledì 06 NOVEMBRE 2019
A proposito di task shifting e di collaborazione fra le Professioni



Gentile Direttore,
sollecitato da altri contributi che ogni tanto compaiono sul quotidiano da lei diretto, le mando alcune mie riflessioni sul tema del “task shifting” fra professionisti sanitari. La prima riflessione è che sia difficile oggi sostenere che i modelli di relazione fra medici e infermieri possano essere ancora quelli che si erano consolidati in passato, con altre condizioni date. Nei contributi di alcuni medici, ci leggo ancora (forse inconsapevolmente) una concezione dell’infermiere come la “mano esecutiva” della loro esclusiva e prioritaria azione professionale.
 
Questo, però, è sempre meno accettabile e opportuno oggi. I medici stessi si rendono conto che l’agire, il pensare e il sentire del passato non è più in sintonia con la cultura e i contesti socio-sanitari attuali. Vedo quindi con favore le riflessioni che stanno facendo al loro interno, confidando che la ricerca di un nuovo paradigma medico non si traduca poi di fatto nel riproporre, sotto vesti nuove e con un linguaggio più moderno, la tradizionale dominanza professionale.
 
Anche gli infermieri sono cambiati, e ciò non significa che ciò sia avvenuto o stia avvenendo solo in meglio. La nostra formazione di base si è elevata di livello ed è diventata universitaria, arrivando sino ai massimi livelli accademici (dottorati). Sono cambiate le norme che regolano la formazione e l’esercizio professionale ed è cambiato (o sta cambiando) l’immaginario collettivo verso l’assistenza infermieristica. Sotto la spinta di questi cambiamenti, e sicuramente anche per il de-finanziamento del nostro SSN, in alcune aree del Paese sono state sperimentate nuove forme organizzative utilizzando le competenze infermieristiche (triage, 118, see and treat, ambulatori e reparti a gestione infermieristica, infermiere di famiglia, …). Esperienze che convivono purtroppo accanto a situazioni di lavoro francamente inaccettabili e di sofferenza sia per i pazienti e sia per gli operatori.
 
In questo contesto in cambiamento, fatto di chiari e scuri, mi chiedo se sia pensabile che nei rapporti professionali nulla debba cambiare? Che senso ha formare infermieri laureati per poi non prevedere, se non ostacolare, il pieno esercizio delle nuove competenze acquisite? E ancora, come potrebbe essere possibile utilizzare queste nuove competenze senza modificare e innovare la tradizionale organizzazione del lavoro sanitario?
 
Alzare lo sguardo e vedere cosa sta succedendo in altre parti del mondo, potrebbe aiutarci a vedere anche il problema del task shifting come un’opportunità e non solo come un demonio da esorcizzare a protezione delle varie e immutabili cittadelle professionali.
 
La stessa WHO si è resa conto di questo, nel momento in cui ha dovuto affrontare il grave problema dell’HIV e la sua diffusione, soprattutto nel continente africano. Nel 2008 ha emanato un documento denominato “Task Shifting: global recommendations and guidelines” nel tentativo di dare regole a un fenomeno in atto, ritenuto necessario e utile per far fronte a quel grave problema sanitario. Non farlo avrebbe solo comportato molte vittime in più e, per fortuna, ha prevalso una pragmatica soluzione alla tutela della vita e della salute delle persone rispetto alla rigida difesa dei confini professionali. In quel documento vi è anche il tentativo di recuperare il potenziale di autocura e di auto assistenza dei malati e delle comunità. Quello che in piccolo, molto in piccolo, avevamo cercato di fare con il nostro servizio di assistenza domiciliare citato in un altro articolo (QS - 1 maggio 2016). Un approccio esclusivamente centrato sugli operatori sanitari rischia di sottovalutare, se non di soffocare, le capacità di self-care delle persone e delle comunità. Aspetti su cui ci aveva già invitato a riflettere Ivan Illich.
 
Il fenomeno del task shifting non si è però attuato solo in aree a basso sviluppo economico ed è oggi realtà in molti Paesi simili al nostro (Inghilterra, Scozia, Irlanda, USA, Canada, Australia, …). In GB vi è la figura del Surgical Care Practitioner che è autorizzato ad eseguire direttamente piccoli e limitati interventi di chirurgia (con l’approvazione del Royal College of Surgeon). Sono attivi i “Walk-in Centres” gestiti di norma da infermieri, di libero accesso alla popolazione per il trattamento di piccole ferite e disturbi di minore entità. Da tempo esiste inoltre il Nurse Ecographer in grado di eseguire autonomamente esami ecografici. Negli USA sono in aumento i Nurse Practitioner (NP) che, con l’accordo dei medici, possono eseguire esami diagnostici e prescrivere un limitato numero di farmaci. Vi è ormai letteratura significativa che evidenzia come la qualità del servizio reso da queste figure sia equiparabile a quello assicurato dai medici nelle medesime condizioni. In quei contesti, un “caso Venturi” sarebbe impensabile e del tutto anacronistico.
 
Queste evoluzioni possono costituire un momento di crisi (nel senso di rischio/opportunità), sia per infermieri e sia per medici. Per gli infermieri, l’opportunità sta nell’ampiamento delle loro funzioni, il rischio nello snaturare “l’essenza” del proprio ruolo. Vendere cioè la propria anima professionale per svolgere attività altre rispetto al proprio “core” professionale e considerate a torto di maggior prestigio. Per i medici l’opportunità sta nell’avere più tempo per dedicarsi al loro “core” professionale, riducendo le attività a minor valore aggiunto rispetto alla loro competenza (attività stabili, standardizzabili, delegabili o gestibili a distanza), il rischio sta in una possibile perdita di esclusività/identità.
 
Utilizzando il contributo offerto da una collega americana, Jean Watson (una delle tante e importanti “Madri” dell’infermieristica), nelle professioni sanitarie esiste una parte centrale (core) e una parte periferica (definita “trim”). Il “core” è la parte specifica, identitaria, fondamentale e infungibile di ogni Professione. Il “trim” sono gli aspetti non sostanziali e modulabili in funzione dei contesti sanitari e delle relazioni fra le Professioni.
 
Il “core” di una Professione è definibile dai suoi esercenti, mentre il “trim” è modulabile e negoziabile attraverso la dialettica fra le parti. Se non erro, questa era anche la possibilità sottesa, e forse non ben espressa e sfruttata, al famoso comma 566 della Legge di Stabilità 2015.
È solo in questa area (trim) che i confini fra le professioni possono essere mobili e in parte sovrapposti come evidenziato dalle esperienze estere e da alcune, per ora limitate, esperienze italiane. Questa parziale flessibilità, se concordata e condivisa, può essere una delle modalità per tutelare il nostro SSN, che è un importante patrimonio della nostra comunità.
 
Considerando gli infermieri come opportunità si potrebbero realizzare, a costi relativamente contenuti, riorganizzazioni o nuove implementazioni di alcuni servizi in uno scenario che sarà probabilmente ancora di risorse limitate. Senza dimenticare il previsto aumento dei bisogni socio-sanitari correlati all’invecchiamento della popolazione, all’incremento delle malattie cronico-degenerative e delle situazioni di disagio sociale e marginalità. Situazioni in cui il prendersi cura infermieristico ha molto da dire e da fare.
 
Accanto al crescere della consapevolezza della necessità di una nuova e concreta idea di sanità, servono anche le capacità nel riprogettare servizi e ruoli professionali senza che nessuno pensi di avere la soluzione magica in tasca o riproponga, con un linguaggio nuovo, vecchie narrazioni. A tal fine sarebbe utile che ogni Professione impari a mettersi in discussione con un pizzico di umiltà e capacità di ascolto, abbandonando una concezione “tolemaica” del proprio ruolo. E il viaggio lo si faccia insieme.
 
In una visione “copernicana”, al centro vi possono essere solo le persone e le comunità con il loro bisogni/problemi di salute. Per rispondere a questi, servono oggi diverse professionalità e discipline che, in funzione del problema prioritario in quel momento da gestire, possono svolgere un ruolo ora di “figura” e ora di “sfondo”. Figura, quando è richiesta la propria “competenza core” e sfondo, quando sono altre le competenze che servono alla persona in quel dato momento.
 
Non più quindi logiche di dominanza, ma di collaborazione e di rispetto delle reciproche competenze e di focalizzazione sulle persone di cui ci si debba prendere cura (“cure and care”). Riflessioni che un’altra “Madre” dell’infermieristica (Virginia Henderson) aveva già proposto a metà dello scorso secolo.
 
Nessuna Professione sanitaria può oggi pretendere di essere sempre e solo “figura” e mai “sfondo”. Senza questa crescita di comune consapevolezza, una co-evoluzione fra le Professioni, nell’interesse delle persone da curare e assistere, difficilmente potrà avvenire in modo condiviso e armonico.
 
Dario Valcarenghi
Infermiere ricercatore
Responsabile Ufficio Sviluppo e Ricerca Infermieristica, Ospedale cantonale, Canton Ticino, Svizzera

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