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Lunedì 10 FEBBRAIO 2020
Ancora su Tafira Raqeeb



Gentile Direttore,
vorrei condividere due riflessioni riguardo agli interventi dei colleghi Riccio, Brandi/Iannucci, e Ravera sulla sentenza della Corte inglese (disponibile in rete) circa il caso di Tafida Raqeeb. La prima. Leggere la sentenza chiarisce alcune importanti questioni.

La diagnosi: stato vegetativo in esito di massiva lesione encefalica emorragico-ischemica (Sentenza – par.19). I medici inglesi, secondo le loro linee-guida, hanno sostenuto che la prosecuzione dei trattamenti non fosse nel miglior interesse (best interest) di Tafira (S. – par.35-38).

La Corte ha deciso la continuazione dell’assistenza, essendo irrilevante la sede di attuazione (UK/Italia) (S. – par.147-192).

I criteri decisionali della Corte. Avendo convenuto tutti i medici sull’assenza di sensibilità nocicettiva, continuare i trattamenti non sarebbe stato contro il miglior interesse di Tafira quindi non vi erano ragioni da opporre alla volontà dei genitori di proseguire le cure all’ospedale Gaslini da loro proposto (S. – par.19,23,24,30-42).

Il contrario di quanto deliberato nei casi Gard e Evans quando le Corti inglesi si opposero alla volontà dei genitori perché, persistendo ancora nei due pazienti una minima sensibilità nocicettiva, continuare i trattamenti avrebbe comportato sofferenze certe senza miglioramento clinico.
Non vi è stata quindi convergenza tra il punto di vista dei medici inglesi e quello della Corte come sostenuto da Riccio e Brandi/Iannucci.

I genitori erano pronti a sostenere tutte le spese (S. – par.13,16). Questo è l’unico cenno al tema dei costi nella sentenza.

Pertanto, nessuna argomentazione economica è stata usata dai medici inglesi o dalla Corte (Brandi/Iannucci: “… C’è da presumere che l’ospedale Gaslini abbia fornito gratuitamente le cure a Tafira, le stesse che il sistema giuridico/sanitario britannico aveva invece deciso di interrompere. Quest’ultimo lo aveva fatto, ovviamente, non per motivi etico/ideologici, ma in un’ottica “economica”: la “scienza” medica m’informa – aveva probabilmente detto il Giudice inglese – che il coma vegetativo di Tafira è profondo e irreversibile, quindi io ritengo che non ci sia ragione per tenere ancora in piedi un’inutile ma costosissima assistenza sanitaria. Questo il ragionamento utilitaristico dello Stato britannico e del suo Giudice.”).

La mia seconda riflessione si riferisce alle considerazioni di Brandi/Iannucci e Ravera sulla lettera di Riccio.
Riccio pone due domande eticamente rilevanti: “è questo il best interest della piccola?
Per i genitori veder continuare la vita, almeno biologica, della figlia è motivo di consolazione, ma questo è sufficiente a giustificare l’invasività dei trattamenti cui è stata sottoposta?”

Entrambe originano dalla clinica. Per tutti i medici il danno era tale da rendere improbabile persino il passaggio dallo SV a quello di minima coscienza. Gli inglesi hanno sottolineato l’alta probabilità di severe complicanze da considerare attentamente in termini di appropriatezza clinica della prosecuzione dei trattamenti e di proporzionalità etica (S. – par.34) nella prospettiva di un corretto rapporto oneri fisici/benefici. Gli italiani hanno proposto di provare a costruire un percorso assistenziale tale da permettere a Tafira il rientro a casa con i genitori (tracheostomia/eventuale ventilazione meccanica/PEG) (S. – par.21-38).

Le due domande servono allora a suscitare un dialogo su cosa sia meglio fare in una situazione così difficile. Argomentiamo liberamente ma non liquidiamole come “opinioni che muovono da vertici ‘ideologici’… facendo le viste di difendere la ‘scientificità”(Brandi/Iannucci).
Ravera paventa una china scivolosa (“la vita umana non più come valore in sé”).

Ma oggi non è questo in discussione (non per i medici, per altri forse sì) quanto il fatto che è la stessa medicina tecnologizzata a porre in alcuni casi il problema della continuazione/interruzione dei trattamenti. Così egli non valuta il miglior interesse per ogni singolo malato nella sua soggettiva esperienza di malattia, ma assume che la tutela della vita, in quanto valore assoluto, rappresenti un criterio valido per tutti, anche per coloro per i quali rimanere in vita potrebbe trasformarsi paradossalmente in una tortura.

Vorrei allora riportare due frasi dei curanti inglesi di Tafira: “Whether it is right that there is no consideration of whether more treatment is right for the child is debateable. I have tried to focus on Tafida” (S. – par.29)…“We have the technology to maintain the lives of children with severe neurodisability, the question for each individual child is whether it is right to make use of it” (S. – par.190).

Ravera cita poi il testo di Owen. Una recente revisione della letteratura considera la stimolazione profonda dell’encefalo negli stati alterati di coscienza un trattamento inefficace, non privo di rischi eticamente deprecabili come indurre nel paziente anche solo un barlume di consapevolezza delle proprie drammatiche limitazioni senza migliorare il suo benessere generale o come agire senza il suo consenso.

Dopo la teoria poniamoci tre domande pratiche: nel caso malaugurato che Tafira andasse incontro a complicanze che ne mettano a rischio la sopravvivenza: cosa sarebbe appropriato clinicamente e eticamente fare? Altre cure intensive o le cure palliative come ora raccomandato anche dal CNB?
Nella prima opzione: perché? Nella seconda: perché ora e non prima? Per i genitori forse, ma non per lei. Ma è giusto?
È evidente la difficoltà, tuttora forte per noi medici, di affrontare un dibattito etico che, pur volendosi estraneo alle ideologie, non riesce a liberarsene.
 
Giuseppe Gristina
Medico, anestesista rianimatore

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