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Sabato 11 APRILE 2020
Coronavirus. Manager e operatori non sono sullo stesso piano. Ecco perché Ripa di Meana sbaglia

La realtà che contraddistingue le relazioni tra management e corpi sanitari è di segno esattamente contrario a quanto rappresentato da Ripa Di Meana. Di sicuro in questa emergenza si è sulla stessa barricata o sulla stessa barca ma, mentre il management scruta l’orizzonte sul cassero della nave, i medici stanno nel fondaccio della barca a remare al ritmo dei tamburi

Conosco Francesco Ripa Di Meana dalla seconda metà degli anni ’70. Facevamo parte di un gruppo di colleghi che costituì una delle prime cooperative di giovani medici disoccupati. Colleghi, appena laureati, che si erano formati nella lotta alle baronie e che credevano in una medicina “sociale” fortemente rinnovata e apertamente schierata a favore delle fasce più deboli e meno garantite di cittadini e malati.
 
Ricordo con piacere tutti quei colleghi perché nessuno di loro ha tradito gli ideali della gioventù e quel bisogno di mettersi in gioco che avevano spinto molto di noi a ascriversi a medicina. Rompendo, non senza difficoltà, con la tradizione che riservava quegli studi solo a chi disponeva di un capitale sociale e familiare consolidato.
 
Per questo trovo imbarazzante commentare l’intervento su QS di Ripa Di Meana del 10 aprile scorso dal titolo “Ecco perché è necessario uno scudo per manager e operatori”.
Il presidente della Fiaso costruisce il suo ragionamento, in cui chiede un pari trattamento per menager e medici nei confronti di possibili azioni di rivalsa attivate in corso dell’attuale emergenza COVID, partendo da un preciso assunto: “In questa lotta contro il virus il management è impegnato in prima linea, tanto quanto medici e infermieri. E non siamo schierati su parti contrapposte della barricata, siamo tutti dalla stessa parte.
 
Di tale assunto tuttavia ha validità solo la prima parte legata alla comune condivisone del tempo e del luogo dell’emergenza. E’ talmente evidente che sarebbe inconcepibile solo immaginare che, mentre medici e infermieri morivano sul campo di battaglia, i manager se ne potessero stare tranquillamente dietro le loro scrivanie a elaborare complesse strategie di miglioramento dei nostri dissestati servizi.
 
Ne ha dato, di questo impegno, testimonianza anche la Dottoressa Frittelli quando, sempre su questo giornale, ci ha dato conto di come la linea WhatsApp dei direttori generali fosse bollente fino a tarda notte nel tentativo di reperire mascherine protettive, che forse, con il senno del poi, si sarebbero dovuto stoccare precedentemente.
 
Se dunque nessuno può contestare la prima parte dell’assunto, forti dubbi evidenzia l’affermazione che manager e personale sanitario sono schierati dalla stessa parte della barricata.
 
E’ questa narrazione di pace universale che denota, purtroppo, l’assenza di percezione dello stato reale che contraddistingue l’attuale fase delle relazioni tra management e professionisti sanitari.
 
Il fatto che una persona avveduta e illuminata come Francesco Ripa Di Meana abbia una visione così distorta nella datità di gran parte delle aziende sanitarie e ospedaliere farebbe rinnegare a Platone il suo mito della caverna in base al quale le idee immutabili che informano la realtà, vengono proiettate dal fuoco sui muri della caverna perché si rendano visibili almeno come ombre ai comuni mortali.
 
La realtà che contraddistingue le relazioni tra management e corpi sanitari è di segno esattamente contrario a quanto rappresentato da Ripa Di Meana. Di sicuro si è sulla stessa barricata o sulla stessa barca ma, mentre il management scruta l’orizzonte sul cassero della nave, i medici stanno nel fondaccio della barca a remare al ritmo dei tamburi.
 
Nel corso degli anni nelle aziende sanitarie e ospedaliere si è assistito a una “torsione autoritaria” di cui non sono diretti responsabili i direttori generali, dovendo ringraziare di questo l’ex ministro della P.A. Renato Brunetta e i suoi epigoni, ma a cui i direttori si sono prontamente adeguati.
 
Il taglio delle unghie ai sindacati e l’inutilità del consiglio dei sanitari, un’opportunità per molti medici di uscire dall’anonimato e farsi notare dal direttore generale, ha comportato una perdita di status, di ruolo e di potere contrattuale da parte dei professionisti; una perdita di tale entità da avere spinto molti di loro ad uscire precocemente dal lavoro per non continuare a subire prepotenze ed angherie.
 
Non c’è nessun medico, a memoria d’uomo, che mi abbia riferito di avere avuto, da dieci anni a questa parte, un rapporto di fattiva collaborazione con il proprio management. Ovunque ai medici sono stati imposti organizzazione del lavoro, pianificazione aziendale, orari, turnazione etc in modo asseverativo e autoritario.
 
Nella stragrande maggioranza dei casi le direzioni generali sono diventati fortilizi inaccessibili con alcune punte di ridicolo toccate al sottoscritto, quando per potere interloquire col direttore sanitario, doveva prima fare il riassuntino alla sua segretaria particolare!
 
I direttori generali hanno perso qualsiasi contatto con gli operatori perché questi non rappresentano più un interlocutore di cui dovere necessariamente tenere conto. Il cortocircuito si è ridotto a un loop bidirezionale tra direzione aziendale e assessorato alla sanità con una disintermediazione totale verso i professionisti direttamente coinvolti sul campo; per anni considerati ininfluenti per le decisioni aziendali e ora trasformasti in eroi nell’impari lotta al virus Sars- COV-2 con tanto di trailer di medici scafandrati bollinati e diffusi sui siti aziendali dai soliti bocconiani attenti al potere simbolico dei media.
 
Non è accettabile proporre, con un colpo di spugna, l’azzeramento di responsabilità che vanno mantenute ma che devono, tuttavia, essere modulate tenendo conto, questo sì, di un contesto profondamente mutato rispetto alla situazione ordinaria.
 
La responsabilità professionale di tipo assistenziale rimane e tale deve restare in capo del professionista che prende in carico il paziente e che usa scienza e coscienza per utilizzare la meglio i mezzi di cui dispone; mezzi che non si può certo inventare se inesistenti ma che deve cercare altrove, trasferendo il paziente o altro, nel caso in cui la struttura non sia adeguata al trattamento del paziente. Questo si è sempre fatto e nessun medico è stato condannato se si è tenuto a tali principi.
 
Il management sanitario, dal direttore sanitario a direttore di presidio, ha la responsabilità diretta e inalienabile, insieme al direttore generale, di cui è il diretto collaboratore, e che mantiene la responsabilità complessiva dell’azienda, di garantire la sicurezza organizzativa delle cure. Un direttore di presidio sanitario non ha più incombenze pratiche per quanto riguarda l’organizzazione dei turni di servizio essendo in uso degli appositi algoritmi gestionali delle presenze e turnazioni e ha come unico compito quello della corretta gestione dei rifiuti ospedalieri e della sicurezza dei pazienti e dei professionisti. Una sicurezza che riguarda gli impianti ma ancora di più le infezioni ospedaliere e le eventuali contaminazioni di reparti e degenti.
 
La liberatoria invocata Da Ripa Di Meana è inaccettabile se con questa si pretende esimere dalle responsabilità organizzative chi ha come unico compito quello di garantire un ambiente safe. Una condizione che purtroppo non è stata garantita nella gestione di alcuni ospedali, trasformati in luoghi di diffusione del contagio, o di alcune case di cura, dove sono stati trasferiti pazienti affetti da COVID senza una diretta verifica dell’idoneità delle strutture a garantire la scurezza degli anziani in esse ricoverate.
 
Questo livello di responsabilità non può essere cancellato perché significherebbe uccidere una seconda volta gli oltre 100 medici morti in servizio, le centinaia di pazienti che hanno contratto l’infezione che li ha uccisi in luoghi che ne dovevano preservare la salute e le migliaia di anziani decimati nelle RSA per la totale e irresponsabile mancanza di cultura sanitaria.
 
Il servizio sanitario, abbiamo più volte sostenuto, è stato desertificato dalle sciagurate politiche di questi ultimi 15 anni. Di questo non hanno diretta responsabilità il management aziendale e nessuno certo li accusa di questo.
 
Il management aziendale è però responsabile di avere spesso creato un clima di lavoro ostile e contrario ai tanto decantati principi di proficua collaborazione di molti bocconiani patentati.
Da accertare senza sconti rimangono invece le eventuali responsabilità di non avere garantito la sicurezza individuale e collettiva di operatori e pazienti.
Una responsabilità che, si spera non venga mai dimostrata, ma che non può essere esclusa a principio e che è pertanto indispensabile accertare se, passata l’emergenza, si vuole ripartire su basi diverse.
 
Dobbiamo uscire dalla crisi in cui versa il paese: una crisi sanitaria, economica e sociale dalle proporzioni inimmaginabili che diventerebbe anche una crisi morale se fornissimo copertura a chi ha sbagliato professionalmente oltre ogni ragionevole dubbio e aldilà di plausibili difficoltà oggettivamente rilevabili.
 
Questo non è accettabile perché aggiungerebbe al danno la beffa per i tanti che in questa drammatica vicenda hanno perso la vita e che perderebbero anche la dignità di essere ricordati come vittime innocenti.
 
Roberto Polillo

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