quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Lunedì 18 MAGGIO 2020
Medici convenzionati o dipendenti? Nessuno dei due. Serve una “terza via”

Sia il lavoro convenzionato che quello dipendente, per come sono ancora oggi organizzati e definiti contrattualmente, rappresentano due rottami del passato entrambi pieni di inconvenienti di aporie e di contraddizioni. Considerando il grado alto di complessità che la professione medica deve governare, e che il suo lavoro è un’opera complessa per definizione, e che il medico è l’autore di tale opera, la liberalizzazione è meglio della statalizzazione e il contratto di prestazione d’opera molto più vantaggioso di qualsiasi contratto di dipendenza e di qualsiasi convenzione

Quando ho letto l’intervista di Andrea Filippi con la quale, il segretario della Cgil medici, ha proposto il superamento tout court delle convenzioni e quindi l’assunzione in blocco come dipendenti di tutti i medici convenzionati (QS,  8 maggio 2020), non ho pensato subito a dissentire cioè a contraddirlo per marcare una differenza di opinioni, che pur esiste, ma mi sono chiesto perché una tesi anziché un’altra?  Perché per qualcuno parlare di ripensare il lavoro è concepibile e per altri no? Perché è così difficile, anche per un sindacalista che apprezzo e stimo molto, avere un pensiero di riforma?
 
L’invarianza del lavoro
Come tutti sanno sia nel merito della “questione medica” che della “questione lavoro”, rispetto alla mia amata CGIL, la mia ricerca da anni segue un’altra direzione.
 
Partiamo da tre semplici constatazioni storiche:
- la sanità è essenzialmente lavoro professionale, se il lavoro non cambia allora non cambia neanche la sanità,
- il lavoro in sanità, da intendersi come prassi, nonostante tre riforme sanitarie, ancora oggi resta una grande invarianza cioè nonostante tanti e diversi inquadramenti giuridici e contrattuali dei lavoratori, le prassi professionali, sono sostanzialmente rimaste più o meno quelle di 40 anni fa,
- l’invarianza delle prassi, è alla base di tanti problemi del sistema sanitario, a partire da quelli della sostenibilità, della scarsa rispondenza culturale del lavoro al cambiamento sociale, di adeguatezza dei servizi nei confronti di una domanda di cura sempre più complessa, del costo del lavoro, ecc.
 
A partire da queste semplici, oggettive, documentabili constatazioni la mia conclusione politica è semplice: il lavoro in sanità va riformato. Esso è rimasto parecchio indietro e la sua regressività rende regressivo il sistema rendendolo più costoso meno adeguato meno efficace e il lavoro meno remunerabile.
 
Sulla base di tali premesse, per me, sia il lavoro convenzionato che quello dipendente, per come sono ancora oggi organizzati e definiti contrattualmente, rappresentano due storiche invarianze, cioè due rottami del passato entrambi pieni di inconvenienti di aporie e di contraddizioni.
 
Entrambi, per esempio, retribuiscono il lavoro indipendentemente dalle prassi e dagli effettivi risultati raggiunti. Cioè in entrambi, anche se con modalità diverse, la gran parte della retribuzione è ancora una variabile indipendente dal lavoro reale e dai problemi del sistema.
 
E per me questo non va più bene per tante ragioni compresa quella che non è retributivamente conveniente per chi lavora. Un salario retribuito a priori per tante ragioni non potrà mai assicurare grandi retribuzioni. Esso sarà solo un costo da contenere e da incrementare come è possibile.
 
Per Andrea Filippi una riforma del lavoro e in particolare del lavoro medico, non è all’ordine del giorno e non è nell’agenda del suo sindacato, quindi non è concepibile, quello che è concepibile perché concepibile per il suo sindacato, come dimostra la sua proposta, è riclassificare quello che c’è.
 
Escamotage per non cambiare mai niente
La riclassificazione è semplicemente una forma di invarianza.
Il medico convenzionato diventa dipendente ma resta ontologicamente il medico che è sempre stato, ma con la possibilità di essere usato in un altro modo cioè secondo le regole della dipendenza che in genere sono di mero asservimento.
 
In genere si cambia la denominazione per cambiare la connotazione giuridica ma sempre a lavoro invariante.
 
Nella “piattaforma unitaria” 2019/2020 si legge che la vera sfida per il rinnovo del contratto è “la revisione del sistema di classificazione al fine di riconoscere l’accrescimento delle competenze, delle responsabilità e dell’autonomia che i professionisti hanno acquisito, anche in considerazione dell’evoluzione dei percorsi formativi e professionali”.
 
Questa volta a fare da ariete o da apripista all’escamotage della riclassificazione è “l’incarico di funzione”, che altro non è se non un espediente per distribuire “competenze avanzate”, con lo scopo di “garantire” “percorsi di carriera” semplicemente più vantaggiosi.
 
Il sindacato crede che a partire dall’incarico di funzione, sia possibile aggiornare i modelli organizzativi del sistema “al fine di favorire e promuovere processi di integrazione multi-disciplinare e organizzativa, superando obsolete forme di organizzazioni del lavoro basate sulla divisione per compiti”. Che sia l’incarico di funzione a determinare dei cambiamenti nel paradigma del lavoro è francamente risibile. Non credo che basti riclassificare quello che c’è per cambiare l’organizzazione della sanità.
 
Tutti sanno che l’incarico di funzione è il ritorno del comma 566 un’idea molto caldeggiata dalle regioni e dai fautori delle competenze avanzate:
- per abbassare il costo del lavoro,
- per accrescere la flessibilità nell’impiego del lavoro professionale,
- per togliere ai medici delle competenze e assegnarle a costi più bassi ad altre figure professionali. (QS, 14 gennaio 2019).
 
Chiedo quindi: a che serve avere tutti medici pubblici se poi per essere pubblici i medici in ragione delle competenze avanzate e degli incarichi di funzione, avranno meno competenze e i cittadini meno garanzie?
 
Giocare ai 4 cantoni
Quindi “riclassificare” è una finta riforma.
Se vi prendete la briga, come ho fatto io, di rileggervi il dpr 761 cioè lo “statuto giuridico dei lavoratori della sanità” del 1979 vi accorgerete che le sue categorie concettuali sono fondamentalmente quelle usate nella piattaforma unitaria 2019/2020. Cioè null’altro che 40 anni di variazioni sul tema o se preferite 40 anni di riclassificazioni.
 
Sono 40 anni che, rigorosamente a lavoro invariante, si riclassifica qualcosa cioè si parla di “articolazione dei ruoli” di “passaggio di funzioni” di “riconoscimento dei servizi prestati” di “esercizio delle mansioni inerenti al profilo e alla posizione funzionale” di “posizione funzionale”, di “aggiornamento obbligatorio” di “tabelle di equiparazione” di “incarichi” ecc ecc.
 
Cioè sono 40 anni che il sindacato sul lavoro in sanità, gioca ai quattro cantoni, cioè agisce in uno spazio giuridico assolutamente delimitato, che non cambia mai, sempre con gli stessi giocatori, nel tentativo di occupare il cantone dell’altro cioè di strappare qualche vantaggio contrattuale in un gioco infinito di rincorse, magheggi giuridici, interpretazioni e qualche colpo di mano.
 
L’interesse dei medici
Ma a parte giocare ai 4 cantoni, vorrei entrare nel merito della questione posta da Andrea Filippi. Egli a me pare trascuri diverse cose:
- che esiste una “questione medica” cioè una crisi della professione, che, storicamente comincia ad appalesarsi dopo il passaggio dalla professione liberale a quella dipendente,
 
- che è vero che i medici, con la dipendenza, acquisiscono innegabili vantaggi professionali ma come ci spiega la “questione medica” sul piano dello status professionale nel tempo, perdono terreno, iniziano a snaturarsi, perdono di prestigio, diventando sempre più delle trivial machine, sempre più burocratizzati e quel che è peggio perdendo la fiducia della gente,
 
- che la dipendenza non è detto che sia una soluzione alla “questione medica” dal momento che dal punto di vista giuridico contrattuale essa, non è priva di aporie che sono  quelle che alla fine derivano soprattutto dal contrasto che si è creato sin dalla riforma del 78, tra la specificità e l’unicità irriducibile della professione medica e la sua omologazione al pubblico impiego grazie alla quale cade  la specificità e l’unicità della professione, cioè la professione entra a far parte di un gigantesco quanto indistinto funzionariato pubblico,
 
- che non mi sembra saggio riclassificare i medici ignorando gli interessi legittimi in gioco. Mi chiedo che interesse hanno i medici convenzionati a diventare pubblici e il contrario. Cioè mi chiedo se sia giusto riclassificare giuridicamente i medici anche per nobili motivi, senza discutere ciò che per loro è legittimamente più conveniente. Nella mia esperienza è difficile accettare dei cambiamenti se questi non sono controbilanciati con qualche vantaggio anche minimo.
 
Lo Stato la sanità e le libertà
A parte la “questione medica” nella proposta di Filippi vi sono altre  questioni da chiarire per esempio quella:
 
- di ritenere, l’abolizione delle convenzioni, condizione sufficiente a fare la riforma di quel sistema duale territorio/ospedale sancito con la riforma del 78 lo trovo francamente ingenuo. Esattamente come quella cosa che si fa sotto le lenzuola per superare la dicotomia territorio/ospedale bisogna essere almeno in due. Forse sarebbe meglio dire che a causa di certe convenzioni e di certi contratti di dipendenza l’integrazione tanto auspicata non è mai avvenuta. Ma se è così il problema è duplice: tanto la convenzione che la dipendenza,
 
- che per risolvere le tante aporie delle convenzioni sia per forza necessario abolirle. Mi chiedo se per aderire allalegge peraltro voluta dai medici di medicina generale (art. 1 L. 189/2011) cioè per aderire a un nuovo modello organizzativo multi professionale ed integrato, inserito in una rete di servizi territoriali sotto la guida di una programmazione distrettuale, bisogna per forza essere dipendenti pubblici. Ho sempre pensato che per risolvere tutti i problemi legati alla medicina generale sarebbe bastato semplicemente applicare con coerenza tutte le cose previste dalla convenzione. Cioè che esistesse un grosso problema di enforcement. Siamo propri sicuri che con le regioni che abbiamo, con le aziende che abbiamo, basti diventare dipendenti pubblici per non avere problemi di enforcement?
 
In sintesi e andando all’osso della questione politica posta da Andrea Filippi, a parità di lavoro medico a me pare che esistano due alternative possibili:
- la statalizzazione della professione,
- la liberalizzazione della professione.
 
Quale soluzione conviene di più?
 
Per un’altra idea di lavoro: dal dipendente all’autore
 Per me, come ho scritto nelle 100 tesi, la risoluzione più conveniente della “questione medica”, è la de-statalizzazione della professione, che non vuol dire che non si è più operatori pubblici ma solo che si resta operatori pubblici ma in un altro modo cioè:
- ridefinendo prima di tutto la propria opera e quindi la prestazione d’opera andando ben oltre il mondo asfittico delle competenze,
- accrescendo quindi le libertà professionali e il grado di autonomia definendo nello stesso tempo una maggiore responsabilità,
- garantendo risultati.
 
Questo vale sia per i convenzionati che per i dipendenti.
 
Secondo me, considerando il grado alto di complessità che la professione medica deve governare, e che il suo lavoro è un’opera complessa per definizione, e che il medico è l’autore di tale opera, la liberalizzazione è meglio della statalizzazione e il contratto di prestazione d’opera molto più vantaggioso di qualsiasi contratto di dipendenza e di qualsiasi convenzione.
 
Cioè per me tra il convenzionato e il dipendente vi è lo spazio politico per una terza via per definire un altro genere di lavoratore.
L’autore è semplicemente una idea di lavoratore più adeguata ai tempi e alle loro irriducibili complessità e che in ragione di tante cose, alla fine riesce a guadagnare più del convenzionato e più del dipendente.
 
Conclusione
Io so che a forza di scavare, le miniere si esauriscono, e che la miniera, che abbiamo scavato in questi 40 anni, per definire il lavoro, a forza di scavare, è ampiamente esaurita. Per cui andrebbe chiusa. Non è più conveniente per nessuno.
 
So anche che a forza di riclassificare i lavoratori tutti noi siamo finiti in una palude piena di coccodrilli e che come mi ha insegnato proprio la CGIL l’unità del lavoro e dei lavoratori si conferma un valore fondamentale.
 
Infine so quello che ci ha insegnato Ricardo, Sraffa, Marx e più recentemente il covid-19 e cioè che noi in sanità produciamo un valore d’uso che si chiama salute e che la salute è una ricchezza altrettanto importante del pil, e che essa dipende prevalentemente dal lavoro professionale che serve a produrla e che il valore di questo lavoro deve essere pagato per quello che effettivamente vale, sapendo che soprattutto oggi quello che effettivamente vale dipende:
- dalla capacità di chi lavora a usare le conoscenze scientifiche,
- dalle prassi come sono definite cioè dai modi di agirle,
- dal ruolo del lavoro nel governo della sanità,
- dal suo contributo nella gestione dei costi,
- dalla qualità dei servizi che da esso dipende,
- dalla fiducia che sa creare nella gente,
- dalla sua capacità di garantire cure adeguate ai bisogni personali delle persone,
- dalla bravura del professionista a cavarsela difronte alla complessità.
 
Per me l’unica cosa sensata che oggi dovremmo fare è uscire dalla palude, riunificare il mondo del lavoro della sanità con una idea più moderna di lavoro, rimettere questa idea al centro di un grande processo di riforma e trovare il modo di farci pagare come si deve la ricchezza che produciamo.
 
Ivan Cavicchi
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA