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Martedì 23 GIUGNO 2020
No slogan sui servizi territoriali  



Gentile Direttore,
passata la fase acuta dell’epidemia il pericolo è che temi di grande rilevanza quali “più servizi sanitari territoriali” diventino slogan; per questo è necessario che si lavori da subito a obiettivi e progetti concreti. Provo ad elencare alcuni punti su cui a mio parere sarebbe necessario mettere idee e risorse.

Il primo punto, un po’ trascurato dalla discussione di questi mesi,  è quale sia l’organizzazione e la solidità dei Dipartimenti di prevenzione DP e dei loro servizi di Sanità  pubblica. L’epidemia ha dimostrato in maniera evidente la differenza tra le regioni dove i DP funzionano  e dove no, dove c’è cultura e approccio di comunità e dove ci si limita all’attesa degli eventi. Un DP attrezzato, rapido nell’agire e profondamente radicato nel territorio fa la differenza. È però necessaria anche una seria riflessione da parte delle Università e delle Scuole di specializzazione su quale tipologia di professionisti formare. A mio parere ora sono troppo orientate a sfornare medici di direzione ospedaliera e poco alla medicina di comunità. Sarebbe necessario riprendere la solida tradizione di Sanità Pubblica del nostro Paese.

Il secondo punto è a che tipo di servizi territoriali si pensi. Credo che i servizi adeguati siano quelli che mettono assieme Ia facile accessibilità, capillarità, conoscenza e legame strettissimo con la comunità. Quindi l’insieme coordinato di mmg, pls, servizi distrettuali, RSA, Enti Locali e associazioni. Solo così si potrà passare dal contare quante prestazioni si fanno al “come stanno i cittadini e che bisogni hanno” arrivando alla vera medicina di comunità. Quindi dalle prestazioni alla salute. Solo così si ci si farà carico del tema dei temi ovvero le diseguaglianze e l’equità che anche in questa epidemia hanno pesato in maniera importante sull’accesso ai servizi e sulla mortalità.

L’ultimo punto è l’annoso tema del rapporto ospedale e territorio. Si è ben capito che non sono più sufficienti, dove si sono fatti, i pur importanti protocolli di “continuità” o di “presa in carico”. È necessario che gli ospedali, soprattutto quelli più piccoli, diventino a tutti gli effetti parte della rete dei servizi di comunità. Non più luoghi di attesa del bisogno che si presenta alle loro porte ma riferimento specialistico della popolazione a cui si rivolgono. La telemedicina ha fatto più passi avanti in un mese di chiusura che nei dieci anni precedenti. Fare un consulto, un esame a distanza, una cura ad esempio alle persone ospiti nelle Rsa anziché continuare l’avanti indietro da pronto soccorso e ricoveri avrebbe probabilmente evitano molti contagi. Proviamo immaginare come si può strutture un ospedale dentro la comunità e non separato. È un tema complesso ma dove questo ha funzionato si sono viste bene le differenze.

Chissà se riusciremo a mettere questi punti all’ordine del giorno, superando l’esercizio preferito della politica sanitaria di questi ultimi anni che ha immaginato che il rimedio per tutto fosse ridisegnare ogni due tre anni i confini delle aziende e cambiare le direzioni. Credo che si possa fare se agli “eroi” , agli “angeli” dell’epidemia si restituirà il ruolo di protagonisti che hanno dimostrato di meritare ampiamente. Non solo medaglie quindi ma potere reale.

Giorgio Simon
Già Direttore Generale AAS Friuli Occidentale

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