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Venerdì 04 SETTEMBRE 2020
Infarto Nstemi. Si vive più a lungo con procedura invasiva

Anche nei pazienti ultra-ottantennni la procedura invasiva per il trattamento di un infarto del miocardio senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI) si associa a una maggiore sopravvivenza. L’evidenza emerge da uno studio condotto in Gran Bretagna e pubblicato da The Lancet. Oltre a offrire un vantaggio in termini di sopravvivenza, la gestione invasiva dell’infarto NSTEMI si associa anche a una minore incidenza di ricoveri per insufficienza cardiaca

(Reuters Health) – La procedura invasiva offre un vantaggio di sopravvivenza di cinque anni e un minor numero di ricoveri per insufficienza cardiaca ai pazienti ultraottantenni con infarto del miocardio senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI). A suggerirlo è uno studio inglese coordinato da Amit Kaura, dell’Imperial College di Londra e pubblicato da The Lancet.

I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 1.500 persone, con un’età media di 86 anni. Il 56% dei partecipanti aveva ricevuto un trattamento non invasivo per il NSTEMI e, durante un follow-up mediano di tre anni, il 41% è morto. Secondo i ricercatori, la mortalità cumulativa ‘aggiustata’ a cinque anni era del 36% con la gestione invasiva e del 55% con la gestione non invasiva.

“Sebbene il trattamento invasivo sia generalmente sicuro, il rischio di complicanze, inclusa la morte, è maggiore nei pazienti più anziani, il che può dissuadere i medici dall’eseguire tali procedure su di loro”, spiega Kaura, secondo il quale “anche se la decisione sul modo migliore per trattare qualsiasi paziente anziano dipende dalla situazione individuale, l’età non dovrebbe costituire un ostacolo”.

Oltre al vantaggio in termini di sopravvivenza, la gestione invasiva è anche associata a una minore incidenza di ricoveri per insufficienza cardiaca. Lo studio inglese ha evidenziato anche che i pazienti non erano a un maggior rischio di complicanze, quali ictus o emorragia, se ricevevano un trattamento invasivo.

“Il beneficio in termini di sopravvivenza osservato nello studio è sorprendente”, ha commentato Bjorn Bendz dell’Oslo University Hospital, co-autore di un editoriale che accompagnava la ricerca. “I risultati dello studio potrebbero aiutare a valutare meglio la relazione tra rischio e beneficio nel trattamento di questo difficile gruppo di pazienti”.

Fonte: The Lancet

Lisa Rapaport

(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

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