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Lunedì 21 SETTEMBRE 2020
No al sovranismo regionale, sì a un rinnovato regionalismo responsabile



Gentile Direttore,
le elezioni regionali sono già alle spalle e possiamo ora tentare qualche riflessione non condizionata dalla contingenza elettorale. È noto che la definizione delle misure per contrastare l’emergenza Covid, e la loro applicazione nelle Regioni, ha fatto emergere un preoccupante quadro istituzionale caratterizzato da una diffusa contrapposizione tra Regioni e Stato come non era mai successo dalla loro nascita (1970) in poi.

Il governo dell’emergenza della pandemia continua purtroppo ad essere contraddistinto da una pluralità di centri decisionali nazionali e regionali non sempre capaci di coordinarsi e spesso in conflitto tra loro. Si possono citare, ad esempio, annunci ministeriali e commissariali su misure prese in totale solitudine ancora prima di averne verificato la praticabilità, o ordinanze dei presidenti delle Regioni in difformità agli accordi preventivamente condivisi con il governo. Ordinanze che spesso si sono rivelate inapplicabili perché chiaramente infondate sul piano giuridico, utili soltanto per differenziarsi rispetto allo Stato e ad altre Regioni e quindi finalizzate a consentire ai presidenti delle Regioni (che, ricordiamo, non sono governatori), di essere presenti nel dibattito politico nazionale e all’interno dei loro partiti di appartenenza.

Tutto ciò ha contribuito a diffondere una sorta di “sovranismo regionale” di cui non c’è proprio bisogno: è ridicolo, è il presagio di una rottura del Servizio Sanitario Nazionale che ne indebolisce ancora di più il governo a favore degli interessi privati. È inoltre evidente che questa esasperata ricerca di differenziazione nei rapporti Stato/Regioni e tra le Regioni stesse crea confusione nell’opinione pubblica e sfiducia verso tutte le istituzioni pubbliche. Ciononostante pare che ci sia un’accelerata del governo per concedere maggiore autonomia regionale in materia sanitaria, così come è stato richiesto lo scorso anno da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.  Ritengo invece che sia indispensabile fermarsi e riflettere.

Le Regioni dispongono già, come si è visto in questi mesi, di ampi poteri in materia sanitaria. Un’ulteriore autonomia aumenterebbe le differenze mettendo in crisi l’universalismo del nostro SSN. Quello che occorre invece è sia la capacità dello Stato di garantire concretamente un sistema unico nazionale dei servizi, sia la capacità della classe politica regionale di assumere un ruolo anche nazionale.

In materia sanitaria, anziché maggiore autonomia regionale, è necessario definire una modalità univoca e rigorosa che permetta di affrontare le grandi emergenze con maggiore efficienza; ciò richiede innanzitutto una più forte capacità dello Stato di assumere decisioni praticabili, anche se impopolari, e l’acquisizione da parte dei responsabili dei governi regionali del senso del limite nella consapevolezza della scarsa efficacia del regionalismo quando questo diventa esasperato.

Sicuramente occorre rivedere le norme riguardanti il funzionamento della Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni, istituita nel 1983 con l’obiettivo di favorire la cooperazione istituzionale. La Conferenza è la sede nella quale la negoziazione politica tra le amministrazioni centrali e regionali si esprime attraverso pareri, intese e deliberazioni ed è obbligatoriamente sentita nelle materie che sono di competenza delle Regioni o su ogni oggetto di interesse regionale. La sua attività ha tuttavia un limite in quanto manca il monitoraggio sulla concreta attuazione dei documenti approvati che così spesso restano sulla carta.

Un esempio per tutti: nel 2014 era stata raggiunta un’intesa per il Patto della salute 2014-2016 che prevedeva, tra gli altri, di innovare le procedure per l’accesso alle professioni sanitarie al SSN, una nuova disciplina per la formazione specialistica, nuove politiche per il farmaco, sblocco del turnover del personale, nuove procedure pubbliche per garantire la sicurezza dei dispositivi medici. Questi impegni non sono stati mantenuti e la dimostrazione sta nel fatto che sono stati nuovamente indicati nel Patto della salute 2019-2021!

L’attività della Conferenza Stato/Regioni, per il settore sanitario, deve essere sburocratizzata, deve concentrarsi sulle questioni principali, deve individuare le resistenze e le motivazioni che si oppongono all’attuazione degli accordi presi per poterle rimuovere. Questo è il presupposto necessario sia per garantire trasparenza, sia per evitare che gli accordi raggiunti in Conferenza si riducano a semplici documenti di ‘desideri’ politici da sbandierare nell’immediato per poi scoprire soltanto qualche mese dopo che non hanno prodotto neppure un modesto risultato.

Le Regioni inoltre devono subito impegnarsi a sviluppare una capacità di auto coordinamento, presupposto per un rinnovato regionalismo fondato su una comune responsabilità istituzionale, che consenta di definire posizioni condivise, diffondere nei sistemi sanitari regionali le ‘buone pratiche’ e trovare un punto di mediazione condiviso (indipendentemente dalle maggioranze politiche regionali e nazionali) nel richiamare lo Stato ad esercitare le sue competenze. Quando le Regioni hanno saputo esercitare questo ruolo in una dimensione nazionale, i risultati non si sono fatti attendere: l’esempio più noto è quello delle vaccinazioni obbligatorie.
 
Antonio Saitta
Già Assessore alla Sanità del Piemonte
Già Coordinatore della Commissione Salute delle Regioni

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