quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Lunedì 28 SETTEMBRE 2020
Una nuova (potente) arma per combattere il Covid: la solidarietà

Perché la solidarietà è stata dimenticata nonostante la forza delle cose di un tempo davvero difficile? E perché, nel pur ampio dibattito pubblico che ha accompagnato la pandemia da COVID-19, ci si è limitati ad evocare le sanzioni a carico di chi non rispettava i divieti prescritti per contenere la diffusione dell’infezione senza richiamarci a questa straordinaria virtù? 

La pandemia da COVID-19 ha precipitato nel nostro lessico parole inusuali, spesso recuperate dalla lingua inglese (così Lock Down, smart working, trend, covid hospitaldrive trough,  spikespillover, screeningtask forceclustercall, recovery fundcoronabond, ecc.) sconosciute ai più fino a qualche mese fa.
 
Anglicismi usati per lo più in maniera retorica, quasi a reinventare i significanti del nostro straordinario patrimonio linguistico che non aveva certo bisogno di ciò. Un’anglomania fatta di prestiti estemporanei con un elevato tasso di dispersione anche se questi termini, considerati nel loro insieme, hanno una consistenza rilevante visto che non c’è articolo di giornale o intervento dell’esperto che ne usi qualcuno.
 
Uno Tsunami anglicus per usare le parole di Tullio De Mauro, un diluvio di inglesismo, un azzardo compulsivo di una strategia comunicativa usata per identificarsi ed elevarsi socialmente con un lessico per così dire precotto privo di quella che Gramsci chiamava l’individualità espressiva, cioè la nostra capacità di usare una personale soluzione creativa nell’esprimersi che è la vera ricchezza e bellezza del nostro linguaggio.
 
In questi picchi di monotona e stucchevole stereotipia c’è però un grande assente: la solidarietà che si proietta oltre il perimetro generazionale ed oltre i confini dei singoli Stati implicando responsabilità comuni.
 
Alcuni interrogativi emergono subito: perché la solidarietà è stata dimenticata nonostante la forza delle cose di un tempo davvero difficile? E perché, nel pur ampio dibattito pubblico che ha accompagnato la pandemia da COVID-19, ci si è limitati ad evocare le sanzioni a carico di chi non rispettava i divieti prescritti per contenere la diffusione dell’infezione senza richiamarci a questa straordinaria virtù?
 
La risposta a questi interrogativi non è agevole fors’anche perché la nostra epoca è un tempo tinto di razzismo, di xenofobia, di misoginia e di rabbia sociale verso il diverso alimentata da quel modo di fare politica che guarda alle pance degli elettori con logiche di rifiuto e di rinazionalizzazione. Ma soprattutto perché abbiamo perso di vista i nessi tra la solidarietà e la dignità umana nel senso che il sacrificio della prima si converte immediatamente in violazioni della seconda. Come avverte la nostra Carta costituzionale che definisce i caratteri della solidarietà (art. 2) indicando le sue connessioni con gli altri principi informatori della democrazia di cui essa inscindibilmente fa parte.  
 
Nella dimensione costituzionale la solidarietà non è, infatti, una nozione chiusa ma un insieme di doveri inderogabili declinati in riferimento alla sfera politica, a quella economica ed al legame sociale: una clausola generale di ampiezza cosmopolita che ci invita ad abbandonare l’individualismo egoico della post-modernità per passare all’azione solidale da costruire attraverso l’impegno comune per lasciare in eredità alle generazioni future la nostra stessa umanità.
 
Ma c’è anche una seconda domanda, probabilmente più ingenua, che affolla la nostra curiosità: perché la solidarietà non è stata considerata nell’armamentario che abbiamo a nostra disposizione per contrastare la diffusione del virus che continua a circolare in tutto il mondo sia pur con ampie variabilità? Perché, cioè, i vari richiami ai comportamenti virtuosi da realizzare (distanziamento sociale, uso della mascherina e lavaggio ripetuto delle mani) non hanno trovato sintesi in quella relazione particolare tra diritti e doveri che trova sintesi nella solidarietà?
 
La risposta anche a questi interrogativi non è agevole ma ciò su cui bisogna puntare il dito accusatore sono le istituzioni perché la solidarietà non è solo un’impresa del singolo ma un loro specifico dovere. Sono le istituzioni che hanno il dovere di produrre solidarietà  dandole non solo legittimazione ma anche forza e coerenza perché la solidarietà non può essere relegata alla sola sfera morale del singolo.
 
Poco si è però fatto in tal senso per sviluppare quella che è purtroppo divenuta un’utopia della globalizzazione: la democrazia di prossimità che avvicina le istituzioni ai cittadini. Un’utopia però non solo razionale ma soprattutto necessaria a far sopravvivere l’umano generando speranza per le generazioni più fragili e per quelle future. Ricordando che sono proprie le prime ad  aver pagato lo scotto maggiore della pandemia da COVID-19 che, in queste persone, si manifesta con sintomi molto importanti che possono portare a morte come purtroppo avvenuto in primavera.
 
Gli anziani e le persone fragili sono, dunque, persone particolarmente suscettibili a sviluppare un’infezione conclamata da COVID-19 con sintomi acuti che richiedono la loro ospedalizzazione anche se queste persone, per quanto dimostra l’attuale andamento della curva epidemica, sono risultate, sul piano dei comportamenti individuali, più virtuose rispetto alle generazioni più giovani pur essendo state oggetto di numerosi stigmi e di restrizioni particolarmente forzate.
 
Le quali  hanno sicuramente inciso sul loro stato di salute essendo oramai noti, sul piano scientifico, gli effetti patogeni della solitudine e dell’isolamento sociale che, come hanno dimostrato i coniugi Cacioppo (2015) e Vivek Murthy (2017), sono associati a una riduzione della speranza di vita rappresentando un fattore di rischio simile all’aver fumato 15 sigarette al giorno per 40 anni ed un fattore di rischio addirittura maggiore rispetto all’obesità, incrementando del 26% il rischio di mortalità prematura.  
 
Tenendo presente che il forzato Loch Down imposto alle persone più fragili ed agli anziani per contenere la diffusione dell’infezione, accanto al contesto di paura e di colpa di essere potenziale vittima o causa di trasmissione del virus, ha sicuramente incrementato la discrepanza soggettiva tra la situazione sociale effettiva e quella desiderata (Käll et al.  2020), il senso di vulnerabilità auto-percepita, i disturbi acuti e cronici da stress oltre ad una maggior propensione a vivere stati d’ansia e di insonnia anche nei giorni immediatamente successivi alla fine dell’isolamento (Bai et al. 2004; Brooks, Webster et al., 2020). Ciò a conferma del fatto che le persone più fragili (i disabili) e gli anziani non possono essere confinati e che la loro protezione richiede specifici interventi finalizzati alla loro inclusione sociale con strumenti digitali di comunicazione e di “social network”, mettendo anche a loro disposizione dei mediatori informatici che possano aiutare soprattutto chi non ha familiarità con i nuovi dispositivi tecnologici.
 
Queste persone meritano attenzione e protezione e ad esse si deve indirizzare la nostra e quella delle istituzioni che la devono promuovere non solo con la strada delle sanzioni che non porta da nessuna parte. Agire comportamenti responsabili per proteggere soprattutto queste fasce fragili della nostra popolazione rappresenta così non solo un dovere morale ma un dovere costituzionale inderogabile (e non solo manifestazione di magnanimità o di benevolenza) che configura lo Stato stesso come sua estrinsecazione e prefigura una evoluzione del modo di interpretare il diritto/dovere di cittadinanza rendendo ciascuno di noi responsabile, aperto verso la società ed attento agli interessi intra ed inter-generazionali.
 
Potrà la solidarietà fortificarsi nel tempo della globalizzazione e della sospensione che ha improvvisamente attraversato le nostre esistenze? Qualcuno pensa di no ritenendo essere ciò una vera e propria utopia. Io penso il contrario e se questa proposta è un’utopia il mio pensiero è che essa sia necessaria a superare le distanze esistenti proponendo la sua riemersione in modalità nuova, forse ancor poco sperimentata. Responsabilizzando le nostre azioni ed i nostri comportamenti nell’interesse non solo personale ma di quello delle persone più fragili ed anziani che appellano le nostre personali coscienze ed il ruolo delle istituzioni.
 
Senza stigmi perché gli anziani non siano nuovamente posizionati nella purtroppo folta schiera degli umiliati ed offesi (Trabucchi, 2020). Umiliati perché gli anziani si sono spesso trovati ai margini degli interventi di sanità pubblica sia nelle case di riposo, sia nelle proprie case e sia negli ospedali; offesi perché percepiti come un peso insostenibile per l’organizzazione, solo dei costi economici e non nel pieno diritto di essere parte attiva della nostra comunità.
 
Al punto tale da essere considerate persone poco degne, addirittura discriminate nell’accesso alle cure rianimatorie salvavita da alcuni documenti (quello ad esempio della SIAARTI) che riducono la vita a sola quantità (speranza di sopravvivere) con un coro, inespresso o apertamente detto: “… tanto sono dei vecchi”. Perché la dignità è una faccenda davvero seria e perché la vita è un dono prezioso che non può soggiacere a queste logiche ed alla cultura dello scarto più volte censurata da Papa Francesco che proprio in questi giorni ha rilanciato l’esigenza di vivere nella solidarietà.
 
Credenti e non credenti sono invitati a farlo ed il Seminario organizzato a Trento il 6 ottobre p.v. (con la presenza del Vescovo di Trento, del Prof. Marco Trabucchi e del Dott. Pier Paolo Benetollo) è un primo passo che vuole condividere pubblicamente questa esigenza improrogabile. Dunque: il mantra che oggi dobbiamo responsabilmente professare è: proteggiamo e difendiamo gli anziani. Facciamolo tutti senza ritardi, con maturità e responsabilità, senza remore. E facciamolo con convinzione e con sana consapevolezza perché, senza solidarietà sociale tra le generazioni, la nostra comunità è destinata a scomparire.
 
Fabio Cembrani
Direttore U.O. Medicina legale 

© RIPRODUZIONE RISERVATA