quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Mercoledì 27 GENNAIO 2021
Crea-Tor Vergata: “La pandemia ha reso palese la mancanza di vision del sistema salute italiano e la sua incapacità di rinnovarsi. Non sprecare il Recovery ma serve un approccio bottom-up

Presentato oggi il 16° Rapporto Sanità del Crea. Sul fronte della spesa sanitaria (dati ante pandemia) si conferma il gap con gli altri Paesi dell'Europa occidentale rispetto ai quali spendiamo il 35,1% in meno, percentuale che sale al 40,2% considerando la sola spesa pubblica. Per i ricercatori guidati da Federico Spandonaro ora è il momento di guardare finalmente oltre e attuare tutte quelle riforme che da troppi anni sono in stallo. EXECUTIVE SUMMARY

Una quota di finanziamento pubblico della spesa sanitaria sempre più ridotta, al punto di risultare inferiore a quella dei Paesi dell’Europa dell’Est (al 74,1% in Italia; al 74,5% nei Paesi Eu-Post 1995; all’80,5% in tutti i Paesi Eu). Una sanità per la quale si spende il 35,1% in meno (percentuale che sale al 40,2% se consideriamo la sola spesa sanitaria pubblica) rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale e con un gap in crescita.
 
Un disavanzo del Ssn che negli ultimi 3 anni ha ricominciato a crescere, anche se di poco, assestandosi attorno al miliardi di euro e che, soprattutto esploderebbe se non fosse comepnsato da circa 4 miliardi di euro di compartecipazioni alla spesa da parte dei cittadini. 

E ancora, c’è un problema di equità (nel 2018, sono 3,1 milioni le famiglie che hanno dichiarato di aver cercato di limitare le spese sanitarie per motivi economici, e di queste 819.482 le hanno annullate del tutto) e sono molte le criticità che investono il personale sanitario: il deficit di personale, solo parzialmente compensato con il ricorso ad assunzioni a tempo indeterminato, continua a concentrarsi soprattutto negli infermieri e nell’assistenza extra-ospedaliera, che peraltro stenta ancora a decollare. I medici, sempre più anziani, pagano invece la carenza di alcune specializzazioni.
 
Eppure l’Italia, nonostante la stretta ai cordoni della borsa, le differenze di spesa rilevanti tra le diverse Regioni (soprattutto sul fronte del contributo della spesa privata delle famiglie), e tante altre criticità, secondo l’indice composito di Salute e Benessere sviluppato da ASviS si posiziona al settimo posto in Europa. Tradotto, nonostante le scarse risorse, l’outcome di salute prodotto nel nostro Paese è relativamente alto, dimostrando un utilizzo complessivamente efficace ed efficiente delle risorse.

È questa in estrema sintesi la fotografia scattata dal Rapporto Sanità del Crea “Oltre l’emergenza: verso una ‘nuova’ vision del nostro Ssn” curato da Federico Spandonaro, Daniela d’Angela e Barbara Polistena del Dipartimento di Economia e Finanza dell’Università Tor Vergata di Roma.
Il Rapporto, alla sua sedicesima edizione, analizza i consuntivi relativi al 2019, quindi epoca pre- Covid, ma anche i primi effetti della pandemia sebbene, avvertono gli analisti, “con dati provvisori, (molto) parziali e, quindi, soggetti a modificarsi o smentirsi nel prosieguo”.
 
E proprio l’emergenza Covid 19 ha spinto i ricercatori a lanciare la loro proposta, per andare verso una “nuova” vision del Ssn. Anche perché la gestione della pandemia, messa in atto in questi mesi, ha incassato non poche bacchettate: “La mancanza di piani operativi, opportunamente predisposti per fronteggiare eventuali crisi pandemiche, può essere annoverata fra le mancanze di vision – sottolineano Spandonaro, d’Angela e Polistena nel Rapporto – pur ribadendo che ogni attenuante va applicata per le modalità e l’intensità di evoluzione della pandemia, dobbiamo registrare che il sistema ospedaliero italiano aveva già dato segni, più o meno ogni anno, di stress a fronte delle ricorrenti influenze stagionali. Ma questo segnale è stato sottovalutato, se non ignorato, probabilmente perché è mancata una reale consapevolezza che sarebbero state possibili emergenze in scala maggiore”.
 
La politica sanitaria nazionale per gli analisti del Crea è rimasta sorda e indifferente ai moniti lanciati in passato a partire dai rischi della deospedalizzazione. C’è stata poi una carenza di “strumenti di monitoraggio capaci di intercettare eventuali problematicità, quali il rischio di saturazione dell’offerta”.  E l’assenza di vision, avvertono, è anche alla base del “rischio di cadere ora nell’errore opposto: ovvero aumentare a dismisura la capacità produttiva, con il doppio effetto di oberare il sistema di futuri oneri impropri e anche di non risolvere davvero il problema”.
 
Un esempio di grande attualità è l’incremento dei posti letto di terapia intensiva, “evidentemente ineludibile in fase emergenziale, ma che rischia di trasformarsi in un boomerang, nella misura in cui il loro raddoppio implica, in condizioni di ritorno alla normalità, di avere un dimezzamento dei tassi di occupazione, che in fase pre-Covid erano già, non altissimi (meno del 50%, dai dati disponibili). In prospettiva possiamo paventare due scenari – aggiungono – o i posti letto saranno “dotati” degli organici e di tutte le risorse accessorie necessarie per renderli operativi al 100%, generando un onere difficilmente sostenibile nel medio-lungo periodo, o (come temiamo probabile) con il passare del tempo, per ridurne i costi, sa-ranno tagliate le risorse, lasciando in essere le sole infrastrutture tecnologiche, con il risultato finale che al bisogno non avremo letti davvero attivabili in modo tempestivo. Un po’ come comprare degli spazzaneve in città dove nevica una volta ogni 20 anni, per poi scoprire che quando servono non partono, perché sono stati fermi troppi anni”.
 
Tra le azioni rimaste meramente sulla carta, c’è anche quella del potenziamento dell’assistenza primaria. “Andrebbe sviluppata – suggeriscono  – una riflessione sul tema del rapporto fra Ospedale e Territorio, prendendo atto che, come l’esperienza che stiamo vivendo sembra indicare, non ha più senso pensare alle due categorie in termini alternativi e quasi conflittuali, neppure in termini gerarchici. Sembra, però, quanto meno doveroso provare a immaginare un sistema in cui, rinunciando ad alcuni ideologismi, si riconosce all’ospedale la sua funzione di polo di attrazione di fatto, intorno al quale si sviluppano (o dovrebbero svilupparsi) servizi di ricovero, ma anche di prevenzione, diagnosi, assistenza domiciliare; semplificando, un sistema di offerta integrato, in cui territorio e ospedale siano un tutt’uno che si concentra sulla soddisfazione dei bisogni dei pazienti”. E questo schema implica il ripensamento delle funzioni, se non addirittura della utilità dei Distretti ai quali andrebbe realmente attribuita la pianificazione e programmazione dell’offerta.

C’è poi il nodo della “frattura carsica” che si è generata nel sistema, fra chi vuole superare il rapporto convenzionale dei Mmg e Pls e chi vuole mantenerla. “Probabilmente il tema della dipendenza/convenzione è mal posto – sottolineano gli esperti del Crea – se il tema è il ‘controllo’ si fa fatica a capire perché un dipendente debba essere più governabile di un professionista convenzionato (i dubbi che sia più condizionabile sono più che leciti, vista la difficoltà di licenziamento); se il tema è che le differenze di trattamento fra dipendenti e convenzionati sono ingiustificate, ha ovviamente un senso, e ne vanno valutate le possibilità di superamento; se il tema è ideologico, allora va approfondito seriamente che significhi e che valore normativo abbia la questione del rapporto fiduciario. Quello che pare certo – proseguono – è che non sia accettabile un sistema in cui non c’è rapporto fra la funzione della medicina di base e gli altri setting. Il tema non è solo, e non tanto, l’aggregazione dei professionisti, quanto la loro integrazione con gli altri servizi”. E questo discorso vale in prospettiva anche per gli infermieri “che possano avere una funzione essenziale per lo sviluppo del territorio non c’è dubbio: ma non è chiaro come si deve esplicare”.

Tirando le somme per il Crea bisogna uscire dalla logica top-down, ossia dalle mera ripartizione dei Fondi su capitoli di spesa (una politica che storicamente si è dimostrata inefficace ed inefficiente), per sviluppare un algoritmo trasparente che misuri il rendimento atteso delle progettualità (per il Ssn e per il Paese). E in base a questo, dare priorità a tutti i progetti che riguardano le aree strategiche, quindi assistenza primaria, digitalizzazione, ammodernamento infrastrutturale, ma anche e soprattutto la ricerca. Progetti che potranno essere trasparentemente raccolti “promuovendo bottom-up una gara di idee”. Un approccio, proseguono gli analisti, che consentirebbe di innescare un processo virtuoso consolidando così la vision di sistema, indirizzando la programmazione e limitando il rischio di logiche a silos e sprechi: “Tutte condizioni davvero essenziali per non sprecare l’opportunità, forse irripetibile, che si è generata a seguito della pandemia”.

“Non possiamo permetterci di commettere l’errore di investire per manutenere l’esistente o tentare di recuperare ritardi su politiche ormai obsolete alla luce della dirompente innovazione che caratterizza il settore – concludono Spandonaro, d’Angela e Polistena – è, invece, necessario creare le condizioni per la transizione verso un nuovo e innovativo modello di servizio sanitario: un modello che risulti efficacie ed efficiente anche fra 10 o più anni. Per investire in modo oculato – aggiungono – è necessario avere una vision ben strutturata, che può definirsi solo con un apporto corale di idee, abbandonando un diffuso conformismo che si nasconde dietro slogan a volte ondivaghi e spesso non supportati da evidenza scientifica; ci vuole anche piena consapevolezza sul fatto che la programmazione delle azioni deve essere ‘ancorata’ alla vision di sistema”.
 
Ester Maragò

© RIPRODUZIONE RISERVATA