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Lunedì 19 APRILE 2021
Un “Patto per la Rifioritura” per la salute mentale



Gentile Direttore,
il Patto per la Rifioritura è una proposta che, oltre ad abolire l'interdizione/inabilitazione, prevede la ridefinizione, in senso estensivo e rafforzativo, dell'amministratore di sostegno (AdS) e la formulazione del cosiddetto patto di rifioritura, cioè di un contratto “vincolante” sottoscritto dagli attori coinvolti in un progetto terapeutico. Le mie considerazioni si muovono nel campo della salute mentale in cui lavoro da circa 30 anni. La proposta di abolizione del vecchio istituto dell'interdizione/inabilitazione è scontata sul piano giurisprudenziale e operativo. Sul resto la proposta resta poco chiara, soprattutto nella sua articolazione operativa.

Si tende a fare troppa leva sul giudice tutelare (GT), nella maggioranza dei distretti giudiziari, soprattutto periferici, composto da un unico giudice, frequentemente onorario, a volte precario. Nella mia realtà il GT ha in carico circa 300 AdS, coadiuvato da un cancelliere e un paio di amministrativi, e spesso deve comprendere e decidere su situazioni molto complesse. Si caricano troppo i GT di cose che andrebbero gestite nei servizi sociali e sanitari. Nella realtà operativa si ricorre all'AdS spesso perchè su alcuni casi non si hanno altre risorse cui fare riferimento, senza doversi augurare che il paziente commetta un reato (si spera “minore”) da cui ne derivi la pericolosità sociale e la conseguente coercizione trattamentale penale.

Negli anni ho assistito a troppi casi che hanno subito questa sorte. Per non parlare dei continui cambi di AdS, per rifiuto di questi o peggio per loro inadeguatezza, o perchè non se ne trovano di disponibili senza dover ricorrere alla nomina “anonima” del sindaco del comune di residenza, spesso poco interessato alle problematiche del paziente. Rivedere i criteri di reclutamento e formazione degli AdS è un utile accompagnamento alla proposta di legge. Il punto da cui partire è che la malattia mentale (MM) è una malattia vera, che richiede di essere curata con rispetto, mediazione ma soprattutto con strumenti operativi che fanno capo a linee guida validate e ad operatori/tecnici qualificati.

Non si tratta semplicisticamente solo di “fragilità”. Inoltre non c’è chiarezza su quale sarà la natura giuridico-normativa del patto/contratto stesso: un dispositivo, un decreto del GT o cos’altro? Da esso ne discendono le responsabilità giuridiche. Chi tratterrà il paziente che vuole allontanarsi da una comunità terapeutica contraddicendo il patto? Chi si farà carico della somministrazione della terapia farmacologica rifiutata? Ma la vera domanda da porsi è se in alcuni pazienti, affetti da gravi patologie spesso resistenti ai trattamenti e con il fallimento di numerosi progetti alle spalle, sia o meno presente la capacità di formulare un consenso/dissenzo informato valido al trattamento ritenuto necessario e se sia presente una chiara consapevolezza di malattia. Questo fa la differenza rispetto agli altri problemi sanitari.

Nella MM questa incapacità può essere episodica, oppure più articolata in un periodo di tempo prolungato ma ben definibile. Nel primo caso si entra nell’ambito della possibile rapida reversibilità grazie ad un trattamento appropriato. Sono i casi in cui il tso può avere la sua utilità. Nel secondo caso l'incapacità e/o la non consapevolezza possono essere più stabili in un periodo di tempo, sempre definibile e sottoposto a rivalutazione. Sono situazioni in cui il consenso/dissenzo è talmente labile e poco consistente per cui il paziente può asseverare qualunque contratto per poi contraddirlo dopo pochi giorni o poche ore, o rifiutarsi di sedersi ad un tavolo che comporti il tema della cura. Queste persone necessiterebbero di un trattamento assertivo con obblighi precisi e continuativi nel tempo, con le dovute verifiche periodiche e i contrappesi giuridici di garanzia. Tra l'altro la firma di un contratto terapeutico è una modalità adottata da anni in alcune realtà, con esiti incerti e fragili.

E’ anche vero che questa labilità la si può superare facendo assumere all'AdS l'onere della “firma” del patto, vicariando così il paziente. Ciò cambierebbe poco i termini del problema poichè è noto che dove l'AdS è investito dal GT di un mandato sanitario, e in alcune realtà accade già da tempo, o per le persone con tutore, il problema di riuscire a curare chi è affetto da gravi patologie si pone nella stessa misura rispetto a chi è invece sprovvisto di tali forme di “tutela”.

Il tema centrale deve essere il diritto del paziente ad essere adeguatamente curato, da coniugare con la sua capacità o meno di esprimere un consenso al trattamento necessario, nel rispetto delle sue convinzioni personali ma anche delle linee guida scientifiche validate e le buone prassi. Penso ai gravi disturbi di personalità e alle forme psicotiche gravi parzialmente o affatto responsive ai trattamenti. In questi casi è più utile uno strumento giuridico che permetta di agire in modo longitudinale, articolando in modo mirato l'obbligatorietà di alcuni trattamenti, con i dovuti contrappesi, garanzie legali e periodiche verifiche.

E' un intervento più complesso e “diluito” nel tempo, più gentile rispetto al tso, tale da permettere di dare risposte a situazioni difficili e gravi per le quali l'istituto del tso resta sostanzialmente di efficacia parziale. Sappiamo che le patologie gravi con cui i servizi si fronteggiano quotidianamente, sono soprattutto i gravi disturbi di personalità, le psicosi resistenti e il dilagare delle doppie diagnosi. Per dare delle risposte di cura a tali patologie il tso del 1978 è uno strumento insufficiente. Serve un'articolazione degli interventi complessa e concordata con le figure di garanzia, che ne diano l'avallo giurisdizionale individuando compiti e ruoli operativi ben precisi.

A volte non si tratta tanto di divergenze in merito alla scelta del trattamento, quanto piuttosto di non concordanza sulla presenza/assenza di malattia mentale e di conseguenza sulla necessità o meno di effettuare un trattamento. Se non c'è la capacità di esprimere un valido consenso/dissenzo allora non ci può essere autentica libertà di scelta. C'è solo la sofferenza della persona. Si tratta di capire chi debba valutare tale capacità e definire quali ricadute operative dare nel momento in cui si accerta che non c'è. Chi debba avere la titolarità del progetto di cura e come possa esercitarla definendo ruoli e competenze, anche per chiarire chi sarà il titolare omissivo/commissivo di eventuali danni del/al paziente.

 La moltiplicazione degli attori senza individuare normativamente i ruoli rischia di lasciare dietro di se una scia di deresponsabilizzazione confusa e improduttiva. Infine in merito al cosiddetto “ufficio per le fragilità”, se idealmente questo può essere condivisibile, la sua declinazione operativa resta precaria, e stento a percepirne l'utilità per i casi gravi di MM. Per altri problemi socio-sanitari potrebbe essere utile e funzionale, penso alle dipendenze, alla disabilità adulta e altro. Per la salute mentale esprimo di nuovo delle perplessità.

Per concludere, se nel formulare proposte normative non bisogna abdicare a certi principi, allo stesso tempo non si può prescindere da un confronto con la realtà fattiva dei servizi territoriali, di chi conosce certe situazioni con cui si confronta quotidianamente nella difficoltà di trovare soluzioni anche a causa di strumenti normativi inadeguati.

Dr. Nicola Casarella
Psichiatra, responsabile CC.SS.MM. 2 DSM ASL Roma 4

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