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Martedì 11 MAGGIO 2021
Il Pnrr e la sanità territoriale. Il rischio che non cambi nulla



Gentile Direttore,
in questi giorni il PNRR comincia a prendere consistenza e a mostrarci nello specifico come sarà la sanità del futuro. Da medico di famiglia sono particolarmente interessata alla riforma della sanità territoriale e quello che sta emergendo dai documenti presentati mi lascia molto perplessa.
 
In primo luogo appare abbastanza singolare che una riforma della medicina del territorio parta con un notevole ridimensionamento del numero dei medici (il 16% in meno dal 2027). Sorge un dubbio che più che una riforma sia un adeguamento alle necessità: molti medici di famiglia se ne stanno andando in pensione e non c’è modo di sostituirli a breve e quindi si fa di necessità virtù.
 
Ancora una volta si parla poi di necessità di risparmiare perché a regime la macchina per funzionare dovrà reperire dei soldi e questi si troveranno nel modo di sempre: “ riducendo le ospedalizzazioni dei pazienti cronici (134,3 mln), riducendo gli accessi inappropriati al pronto soccorso (719,2 mln) e abbassando la spesa dei farmaci riducendo le inappropriatezze (329 mln).” (QS 10 maggio).
 
Anche questo non è certo una grossa novità: sono anni che veniamo tartassati sulla spesa farmaceutica, sugli accessi al PS e i letti in ospedale sono ridotti ormai al lumicino e questa pandemia lo ha ben reso evidente. Continuiamo su questa strada?
 
Ma passiamo all’impianto fondamentale:
- Case di comunità
- Assistenza domiciliare
- Ospedali di comunità
 
Lasciando per un attimo da parte il significato di “case della comunità”( è solo un nuovo modo di chiamare le case della salute? Si sottende a un ingresso della comunità e quindi del terzo settore nella gestione della sanità?) quello che mi interessa capire è che bacino di utenza abbia una singola casa di comunità.
 
Facendo due conti a spanne se le case di comunità dovranno essere 1288 e la popolazione italiana si aggira sui 60 milioni di abitanti se ne deduce che una singola casa della comunità avrà un bacino di utenza tra i 40 e i 50 mila cittadini. E’ pensabile che si raggiungano un tale numero di utenti con 10 medici, 5 amministrativi e 8 infermieri?
 
Io lavoro in una piccola realtà di 15.000 abitanti in una medicina di gruppo integrata con più o meno i numeri previsti per la casa di comunità (avendo però più amministrativi di infermieri) e vi assicuro che è un problema già rispondere la telefono: abbiamo due linee telefoniche con due segretarie che rispondono ininterrottamente dalle 8.00 del mattino alle 20.00 di sera e ciò nonostante la percezione del cittadino è che non rispondiamo mai al telefono.
 
Se l’idea è quella di far convogliare tutta l’assistenza del territorio nelle case di comunità temo che lo sperato potenziamento della medicina del territorio sarà una pia illusione. Probabilmente non è chiaro quali sono i bisogni sempre in crescita del territorio.
 
C’è sì un grosso investimento per l’attività domiciliare, per assistere circa 800.000 persone. Ma chi dovrà andarci a casa? Sembra principalmente l’infermiere domiciliare. Ma se c’è bisogno di un medico sarà sempre quello delle case della comunità o ce ne saranno altri? Le due assistenze correranno su binari paralleli anziché comuni? Personalmente non mi è chiaro.
 
Per quanto riguarda le Cot (Centrali Operative Territoriali) e gli Ospedali di comunità neanche qua siamo di fronte a novità: erano già previsti e in Veneto dove vivo sono in parte già funzionanti. La Cot ci ha aiutato almeno all’inizio della pandemia a gestire la situazione e gli ospedali di comunità pur pochi e con pochi posti possono dare sollievo a qualche famiglia non in grado di riprendersi a casa malati ancora gravi, ma con i numeri previsti non credo avremmo di che stare allegri.
 
Il piano appare quindi un ripescaggio di cose già esistenti senza nessun tentativo di innescare quel cambiamento di cui tutti sentiamo bisogno.
Stiamo lavorando allo stremo delle nostre forze eppure la nostra presenza sembra non particolarmente necessaria se si pensa addirittura a un ridimensionamento delle nostre figure professionali.
 
Ma a parte questo, non c’è nessun accenno alla formazione. Non si cambia un sistema se non si mette mano alla formazione del personale. Il corso di laurea in medicina è uno dei più lunghi in Europa; la specializzazione anziché favorire, limita e impedisce un rapido ingresso nel mondo del lavoro; manca da anni un ricambio generazionale …. Di tutto questo non si parla.
 
Il capitale umano su cui si dovrebbe puntare primariamente perché è la forza senza la quale il resto è vuoto, continua a non essere considerato.
 
L’impressione è che ancora una volta sia una occasione sprecata per cambiare davvero la sanità: purtroppo non ne avremo altre.
 
Ornella Mancin
Medico di famiglia

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