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Venerdì 23 LUGLIO 2021
L’errore in medicina e le debite scuse
Gentile Direttore,
ho letto con molto interesse l’articolo pubblicato il 20 luglio 2021 da Thalia Margalit Krakower sul JAMA[1]. Ho anche apprezzato buona parte degli argomenti espressi in quell’articolo, nel quale l'autrice, una Assistant Professor of Medicine presso Massachusetts General Hospital, ci ha raccontato della “agony”[2] patita, almeno per cinque mesi, dal suo bambino di sei anni.
Al bambino è stata infine diagnosticata una rara forma di tumore cerebrale. Dopo quella diagnosi il trattamento pare essersi indirizzato nella giusta direzione e tutti noi ci auguriamo che il piccolo sia guarito o stia per farlo. Durante i primi cinque mesi di malattia, però, i disturbi del bambino sono continuati perché, all’inizio, i medici che lo avevano in cura, compresa la pediatra di base, hanno prospettato delle ipotesi diagnostiche errate, che hanno portato fuori strada gli ulteriori accertamenti diagnostici e la terapia.
Thalia Margalit Krakower, che si definisce paziente in questa occasione (a pieno titolo, essendo madre di un minorenne molto piccolo), avrebbe molto desiderato che i medici che avevano posto le ipotesi diagnosi errate avessero ammesso i loro errori e porto le loro scuse. Solo la pediatra di base lo ha fatto e, quando ha riconosciuto gli errori scusandosi per questi, ha riconquistato la stima e l’apprezzamento dei genitori del bambino. Nel suo articolo la Dr.ssa Krakower ci ha spiegato le ottime e innegabili ragioni per le quali è essenziale, per un medico, ammettere l’errore e porgere le scuse.
Siamo perfettamente d’accordo con la madre-Collega. Crediamo anche noi che l’assunzione di responsabilità implicita nel riconoscimento di un errore sia una parte integrante della professione medica. Crediamo anche noi che l’importanza di questo riconoscimento dovrebbe essere segnalata e insegnata con la debita enfasi negli insegnamenti universitari di tutte le professioni sanitarie.
Non ci si può fidare di chi non è in grado di riconoscere i suoi errori: quegli errori non verranno emendati, probabilmente verranno ripetuti e nessun risarcimento morale potrà essere dato a coloro che hanno subito il danno. Come medico, nella mia ormai lunga carriera, ho commesso alcuni errori (pochissimi, per fortuna). Li ho sempre riconosciuti, cercando di fare tesoro di quegli errori e di partecipare al dolore dei miei pazienti e dei loro familiari.
Quindi non posso che concordare con molte delle affermazione dell’Autrice dell’articolo. Mi sento, però, di rivolgere alcune osservazioni alla madre ferita, considerando che Thalia Krakower è un medico ed è da medico che pubblica un articolo sul JAMA.
La prima considerazione è questa. Thalia Krakower dice di essere rimasta ferita dall’imbarazzato esitare dei medici che avevano sbagliato, dalla loro incapacità nel riconoscere l’errore e dalla mancanza delle loro scuse. Non capisco perché Thalia Krakower si meravigli di questa apparente incapacità di riconoscere l’errore medico da parte dei Colleghi. Viviamo in un’epoca nella quale, di fronte a un errore medico, ci sono nugoli di avvocati disposti a patrocinare cause per risarcimenti milionari.
Ammettere di avere commesso un errore, nel corso di una telefonata o di un colloquio diretto, col rischio di essere registrati, per quei Colleghi costituirebbe una “fatale” ammissione di malpractice. Solo la pediatra, che aveva da anni un consolidato rapporto di conoscenza e di stima con i genitori del bambino, ha pensato di poter ammettere con loro i suoi errori: ha forse calcolato che il tentativo di recuperare una relazione di fiducia e di amicizia con quelle persone avesse un valore molto superiore al rischio di una causa legale.
La seconda considerazione è la seguente. Thalia Margalit Krakower sviluppa i suoi argomenti (peraltro condivisibili) a partire da una posizione doppia. Dalla posizione di madre del suo piccolo bambino che ha patito almeno per cinque mesi una terribile “agony” e, insieme, dalla posizione di medico. La prima posizione l’autorizza, essendo stata paziente insieme e al posto del figlio, a chiedere le scuse dei medici che hanno sbagliato diagnosi. La seconda posizione però, visto che lei è medico e professore associato in medicina, sembrerebbe rendere opportune, perché siano credibili tutte le considerazioni che sviluppa nel suo articolo, anche le sue scuse. Le scuse al suo piccolo figlio e agli altri familiari.
E’ verissimo che non solo non è giusto che un medico si occupi della salute di un suo familiare e che non è nemmeno opportuno. E’ egualmente vero che la sofferenza di una persona che ci è cara annebbia inevitabilmente la nostra capacità di ragionare correttamente. Però, in fondo in fondo, per cinque mesi Thalia Margalit Krakower, medico, ha condiviso una impostazione diagnostica errata e questo, supponiamo, dispiace a lei come dispiace molto anche a noi.
Mario Iannucci
Psichiatra psicoanalista
Esperto di Salute Mentale applicata al Diritto
Note:
https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2782182
[2]E’ questo il termine usato dalla Collega Krakower. L’ho lasciato in inglese, perché in italiano si può tradurre sia con “agonia” che con “tormento”, “dolore indicibile”. Forse, considerato l’epilogo della vicenda descritta da Thalia Krakower, sarebbe stato meglio usare gli ultimi due termini italiani, ma ho preferito lasciare “agony”. Si capirà perché.
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