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Infarto miocardico acuto (Ima): mortalità a 30 giorni (media esiti Italia 9,98%)


02 OTT - La tempestività è il fattore più importante per la sopravvivenza di una persona colpita da infarto miocardico acuto (Ima). Studi di comunità hanno, infatti, dimostrato che la letalità degli attacchi cardiaci acuti nel primo mese è tra il 30% e il 50%, e di queste morti circa la metà si verifica entro due ore. Se la mortalità al momento dell’infarto è rimasta costante negli ultimi 30 anni, è però diminuita notevolmente la mortalità dei pazienti che riescono ad arrivare in ospedale vivi: negli anni Ottanta moriva entro il mese il 18% dei pazienti, oggi muore il 6-7%, per lo meno nei trial di grandi dimensioni, grazie ad una revisione sistematica di studi sulla mortalità in era pre-trombolitica, nella metà degli anni ’80.
La mortalità a 30 giorni dopo Ima è quindi considerata un indicatore valido e riproducibile dell’appropriatezza ed efficacia del processo diagnostico-terapeutico che inizia con il ricovero. In questo contesto, al fine di effettuare analisi più approfondite sulla risposta assistenziale al paziente infartuato, è stato definito un set di indicatori con l’obiettivo di valutare la qualità dell’assistenza a livello di strutture ospedaliere o di area di residenza del paziente. Il valore degli indicatori può variare tra aree territoriali e strutture; questo fenomeno, oltre che dalla diversa qualità delle cure, può essere causato dalla eterogenea distribuzione, dovuta al case mix, di diversi fattori di rischio come ad esempio età, genere, condizioni di salute del paziente. L’episodio di Ima è costituito da tutti i ricoveri ospedalieri avvenuti entro 4 settimane dalla data del primo ricovero per Ima. (VEDI TABELLA)
 
 
 
L’analisi. Rispetto all’infarto miocardico acuto i numeri segnalano una situazione di estrema eterogeneità sia tra le diverse Regioni, ma pure all’interno delle stesse. Va però sottolineato che per quanto riguarda questo indicatore i dati vanno presi con le molle: il dato di mortalità pari a zero, sottolinea l'Agenas, è inverosimile, e potrebbe nascondere una erronea attribuzione di diagnosi. Tradotto in parola più chiare potrebbe essere stata attribuita ad una Sdo una diagnosi di infarto che infarto non è. 
Ciò premesso emerge che la Puglia presenta le due strutture che hanno registrato gli esiti più favorevoli. Stiamo parlando del Presidio ospedaliero S. Caterina Novella di Galatina che a fronte di 65 interventi valutati non ha registrato nessun caso di mortalità, e dell’ospedale Sacro Cuore di Gesù di Gallipoli che su 103 intereventi ha registrato un indice di mortalità a 30 giorni dello 0,8%.
Ma allo stesso tempo ha nel suo territorio l’Ospedale di Venere che su 173 interventi valutati ha fatto segnare un indice di mortalità de 26,1%. Stesso dicasi per il Friuli Venezia Giulia dove vi sono strutture con esiti molto differenti. L’ospedale S.M.A. di Sacile su 268 interventi ha registrato un esito dello 0,8% e al contempo l’Ao S.M. di Pordenone c su 52 interventi ha evidenziato un indice del 41,4%.
 
Differenza all’interno della stessa Regione anche in Veneto. Lospedale di San Donà di Piave in Veneto che a fronte di 157 interventi ha registrato un indice di mortalità del 2,7%, mentre l’Ospedale Sant’Antonio su 75 interventi ha evidenziato un indice di mortalità a 30 giorni del 23,9%.

02 ottobre 2013
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