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La grande confusione delle Aziende Zero nei sistemi sanitari regionali

di Carlo Bottari, Ettore Jorio

Cosa dovranno fare concretamente; come si porranno nel rapporto con la burocrazia regionale e come con le aziende della salute, siano esse territoriali che ospedaliere/universitarie; come si comporteranno con i decisori politici regionali e, ove ci sono (Calabria e Molise), con i commissari ad acta, sono gli interrogativi di maggiore rilievo. E ancora. La loro esistenza funzionale confliggerà o no con l’autonomia imprenditoriale del sistema aziendale ordinario?

25 NOV -

Il sistema della salute, con il proliferare delle leggi regionali introduttive delle Aziende Zero, sta vivendo un clima di grande confusione. La loro istituzione pone, infatti, dei seri problemi interpretativi in relazione al loro collocamento istituzionale.

Cosa dovrà fare concretamente; come si porrà nel rapporto con la burocrazia regionale e come con le aziende della salute, siano esse territoriali che ospedaliere/universitarie; come si comporterà con i decisori politici regionali e, ove ci sono (Calabria e Molise), con i commissari ad acta, sono gli interrogativi di maggiore rilievo. E ancora. La sua esistenza funzionale confliggerà o no con l’autonomia imprenditoriale del sistema aziendale ordinario?

A fronte di tutti questi dubbi, dalla cui soluzione dipenderanno le sorti di un servizio sanitario che ha dimostrato nell’evento epidemico tutte le sue debolezze, si avverte la necessità di pretendere dal legislatore di dettaglio - almeno fino a quando la legislazione sanitaria rimarrà una materia concorrente e dunque a maggior ragione dopo quando verosimilmente sarà integralmente assorbita dalle Regioni in applicazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione - una maggiore cura e, certamente, tolta la brutta abitudine, assunta da alcune, di copiare acriticamente ciò che le altre omologhe promulgano.

Al riguardo, alcune leggi regionali sono già in officina, nonostante la loro recente approvazione, ovvero in procinto di farvi ingresso, attesa una loro non propria attenta stesura. Per intanto, è da osservare che tra tutte e sei le Regioni che hanno istituito le Aziende Zero[1], solo la Calabria, che ha quasi pedissequamente imitato quella veneta, è corsa ai ripari. Lo ha fatto conscia di dovere rivedere tutta la sua disciplina afferente alle regole della sanità, vecchie di 18 anni, che hanno co-determinato, di fatto, il suo commissariamento ad acta da ben 14 anni (di cui due di protezione civile) con una rovinosa caduta dell’offerta di salute.

Lo ha fatto relativamente a ciò che non andava nella legge regionale 32/2021 che ha istituito l’ente di governance, la sua Azienda zero. A riguardo, ha infatti legiferato: l’attribuzione della autonomia imprenditoriale, piuttosto che le solite sei autonomie risalenti a prima del 1999; l’eliminazione dell’obbligo di rilascio di un inconcepibile visto di congruità da apporre su ogni genere di bilancio a cura del direttore generale del Dipartimento regionale alla Salute; la cancellazione dell’assurda sottomissione dell’esercizio delle sue funzioni al massimo burocrate regionale, subordinando così una azienda nata per fare meglio di quanto non ha funzionato.

La sua autonomia da chiunque è il suo piatto forte da servire a tavola dell’organo politico di riferimento - gli organi regionali (presidente e giunta) e commissario ad acta se nominato per sostituire i primi ex art. 120, comma 2, della Costituzione - perché finalmente eserciti e realizzi dignitose politiche sociosanitarie regionali.

Bene ha fatto in tal senso la Regione Veneto, che di sanità percepita è il migliore esempio da imitare, ad aggiustare ab origine l’utilità reale - quasi a dimostrare di volere concretizzare una sorta di Agenzia – rispetto a quanto avesse fatto tre mesi prima la Liguria[2].

Il servizio sanitario nazionale deve ritornare quello che il legislatore statale, dopo tante sofferenze parlamentari, decise con la sua introduzione perfezionata con la legge 23 dicembre 1978 n. 833. Un monolite giuridico preteso per rendere esigibile il diritto alla salute universalmente e uniformemente, così come sancito dal novellato art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione nell’identificazione dei Lea da assicurare su tutto il territorio nazionale. Due previsioni imperative che tali non sono state, tant’è che oggi si constata un Paese con l’assistenza a macchia di leopardo e una nazione in preda alle “fiere”, nel senso di mettere a rischio la loro vita quotidianamente per assenza di una offerta sociosanitaria al di sotto dei minimi accettabili.

La Calabria è la prova provata di tutto questo, ferita da obbrobri legislativi passati, funzionali a: negare l’autonomia imprenditoriale[3]; consentire accessi a carriere manageriali altrimenti negate; introdurre criteri abilitativi inauditi di nomine a direttori generali aziendali che consentivano (e consentono) di organizzare la propria carriera; generare confusione sull’offerta ospedaliera attraverso il tutto e il contrario di tutto; introdurre facilitazioni di approvazione dei bilanci aziendali per silenzio assenso; riconducendo la norma a principi fondamentali dello Stato vecchi di 12 anni, già puntualmente modificati da cinque anni prima (1999); trascurando i contenuti dell’assistenza distrettuale e tante altre cose che non meritavano affatto la disattenzione di cinque legislature e di quattro commissari ad acta. Non solo. Per arrivare alla incompletezza delle più semplici procedure indispensabili per costituire l’unica Azienda Ospedaliera Universitaria lasciata funzionare nei fatti ma sine titulo, perché sprovvista di provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri che ne garantisse la nascita di diritto. Un “ammanco” amministrativo grave, tanto da richiedere oggi un provvedimento che ne sani l’esistenza giuridico-economica indispensabile per effettuare la prevista fusione per incorporazione dell’azienda ospedaliera “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro nella Azienda Ospedaliera Universitaria da perfezionarsi con la denominazione “Renato Dulbecco”. Il tutto, a mente della sentenza della Corte costituzionale n. 50/2021 e della legge regionale 33/2021, cui necessiterebbe anche un consistente ritocco da parte del Consiglio regionale calabrese.

1.1 Azienda Zero: pensata bene, nata male ma che si spera di riparare

Ritornando alla modalità normativa di introduzione e funzionamento di Azienda Zero, occorre rilevare che essa non è affatto delle migliori. Ma soprattutto, necessita rilevare che quella vigente delle anzidette sei regioni è stata scritta in modo tale da generare una confusione totale in relazione al suo essere esistenziale, al suo intrattenere i rapporti con le istituzioni regionali, siano essi decisori politici che organi burocratici, alla ineludibile collaborazione con il resto del sistema sanitario aziendale, al suo adempiere in materie e funzioni specifiche, delle quali non ne potrebbe assumere la competenza, almeno fino a quando rimangano vigenti i testi dei d.lgs. 502/92, d.lgs. 165/2001, d.lgs. 118/2011. Ciò è accaduto a causa degli errati presupposti giuridici traditi da una concezione prevalentemente aziendalistica, portati avanti con troppa facilità e senza pensare affatto alla mission erogativa della salute ai cittadini.

Per rimediare a tutto ciò, si renderà necessario generare un serio confronto tra quanto esplicitamente espresso nei principi fondamentali espressi dal legislatore statale (legge 833/78 e vigente d.lgs. 502/92) - in materia di assegnazione delle competenze istituzionali assegnate alle aziende sanitarie, territoriali e ospedaliere/universitarie conseguentemente regolate nel dettaglio nelle rispettive leggi regionali - e quanto disciplinato dalle Regioni nella istituzione delle aziende zero. La comparazione tra quelle vigenti pone, infatti, una serie di interrogativi riferibili, se non ben concepite, alle funzioni esercitabili da queste ultime, di sovrapposizioni più o meno apparenti, di conflittualità nell’assunzione di provvedimenti fondamentali, di incompatibilità sistemiche e di incomprensibili interessi unicamente diretti, peraltro su presupposti errati, alla tenuta della contabilità piuttosto che ad assicurare una buona assistenza sociosanitaria all’utenza. Ciò è accaduto nonostante il dramma Covid-19 che ha dimostrato con tutta la sua forza contrapposta alla debolezza del sistema salute l’inesistenza di un servizio pubblico, da rendere funzionante in regime di concorrenza amministrata con la rete degli accreditati/contrattualizzati, meglio gravemente affetto da una inefficienza, inefficacia e una diseconomia non riscontrabile ovunque.

Nel concludere il tema, ci si augura un celere massiccio rimbocco delle maniche per mettere riparo e ordine alle cose.

La comparazione tra le norme complessivamente vigenti pone, infatti, una serie di interrogativi riferibili: alle specifiche funzioni esercitabili da queste ultime; alle sovrapposizioni più o meno apparenti da più parti rilevate tra i compiti assegnati alle Aziende Zero e quelle tradizionali attribuite alle aziende della salute; alla conflittualità nell’assunzione dei provvedimenti di programmazione di sua competenza con i doveri del decisore politico (Regione ovvero commissario ad acta, ove presente); alle incompatibilità sistemiche e agli incomprensibili interessi che appaiono unicamente diretti alla tenuta della contabilità piuttosto che ad assicurare una buona assistenza sociosanitaria all’utenza.

Per intanto, come detto, sono sei le Regioni ad averla istituita (e tante altre in procinto di farlo) che, ancorché con l’esigenza di riportare, chi per un motivo chi per un altro, i rispettivi testi legislativi in officina, hanno la necessità di metterle in corsa, nel senso di renderle operative, così come ha fatto già la Liguria con la sua Alisa.

Stante l’esigenza di renderle efficacemente attive, occorre contribuire, in una logica collaborativa, ad offrire una risposta agli anzidetti interrogativi, specie a quelli più ricorrenti, cui dare comunque da subito adeguate risposte.

Cosa dovranno fare concretamente e come si interfacceranno con le aziende sanitarie e ospedaliere/universitarie. Prioritariamente assumere l’autonomia imprenditoriale, inconcepibilmente trascurata nonostante sancita nel 1999 (d.lgs. 229) per tutte le aziende del Ssn. Poi esercitare il compito di prima inter pares nella governance regionale finalizzata alla gestione del Ssr. Al riguardo, le loro direzioni generali dovranno necessariamente essere collaborate da un organismo consultivo e segnatamente partecipativo (esempio veneto: Comitato dei Direttori generali di tutte le aziende della salute). Un organo aziendale strumentale alla definizione delle metodologie più idonee a rilevare i fabbisogni epidemiologici e a delineare la mappa dei rischi relativi presenti sul territorio regionale nonché ad esprimere l’esito della verifica dei monitoraggi effettuati in materia contabile, di politiche degli acquisti e di personale, di relazione con il pubblico, sui quali ultimi temi dovrà esprimere, sotto la presidenza del massimo burocrate regionale in materia di tutela della salute, il proprio parere obbligatorio.

Una tale previsione è, di fatto, dimostrativa della non sovrapposizione, da taluni spesso immotivatamente lamentata, delle Aziende Zero alle aziende territoriali e ospedaliere/universitarie, componenti il sistema sanitario regionale, che mantengono tutta la loro autonomia imprenditoriale. Le stesse, senza sottoposizione alcuna alle Aziende Zero, saranno organizzate in ossequio all’atto aziendale, programmeranno le loro attività secondo strumenti di pianificazione locale ed eserciteranno le politiche assunzionali e di gestione del personale, del contenzioso, di acquisto di beni e servizi, di bilancio, sia preventivo che consuntivo e quant’altro. In buona sostanza, le medesime potranno contare, ciascuna sulla propria Azienda Zero di riferimento, quale ente tutorio - garante dell’unitarietà e egualitarismo erogativo dei Lea nonché della concentrazione dei bilanci - strumentale a concretizzare il passaggio ad una diversa configurazione del sistema della salute, eventualmente sempre più prossima alla agenzificazione.

Come si porranno nel rapporto con la burocrazia regionale salutare. Il regime di raccordo con la burocrazia regionale rimarrà, sempreché non venga legiferato diversamente da quelli in vigenza, tale e quale a quello mantenuto dalle aziende della salute, fatta eccezione per la riassunzione delle competenze in esclusiva della redazione del bilancio di previsione e consuntivo afferente alla GSA e del bilancio consolidato preventivo e consuntivo del SSR, da sottoporre entrambi all’approvazione della Giunta regionale e, ove esistente, dal Commissario ad acta. Ovviamente tutto dipenderà dai regolamenti che, previsti in quantità considerevoli, saranno ritenuti indispensabili per conseguire una maggiore efficienza, efficacia, economicità e utilità del sistema rispetto a quello preesistente.

Come si comporteranno con i decisori politici regionali e, ove ci sono (Calabria e Molise), con i commissari ad acta. Questo è uno dei temi più centrali della problematica, atteso che le disposizioni in vigenza scoprono il nervo più debole: quello della rappresentanza e del raccordo tra l’esercizio delle attribuzioni assegnate agli organi di governo regionale e quelle assegnate alla dirigenza ovvero ai titolari degli enti incaricati della gestione.

In proposito: ai primi continuerà ovviamente a persistere la titolarità di esercizio delle funzioni politico-amministrative, funzionali a determinare gli obiettivi e la programmazione nonché a svolgere l’attività di controllo sulla gestione degli indirizzi impartiti; ai secondi, intendendo per tali le Aziende Zero, le stesse assumeranno la sintesi della attività gestionale resa dalle aziende della salute, in quanto tale assumerà un ruolo di fondamentale coordinamento, monitoraggio e verifica delle attività gestorie esercitate da queste ultime, confrontandosi sul tema con il decisore politico. Un ruolo che, ben inteso, non sottrae alcun grado di autonomia alle aziende della salute né tampoco di sovrapposizione ovvero sostitutivo, sempreché vengano mantenuti in capo ad esse i più generali compiti di valutazione del proprio operato, tra questi quello dell’estimo delle performance del personale dipendente e dei soggetti accreditati da contrattualizzare ex art. 8 quinquies del vigente d. lgs. 502/92.

Una particolare attenzione meritano le Regioni commissariate ex art. 120, comma 2, della Costituzione. Un tema che ad oggi riguarda solo la Calabria, atteso che il Molise non ha istituito alcunché. Ebbene, il tema non viene a porsi se non nel verso della stretta collaborazione, che è indispensabile che venga a materializzarsi, tra il binomio di nomina governativa, commissario e sub commissario, per pervenire ad una maggiore sintesi gestoria da assumere routinariamente per verificare gli obiettivi specifici assegnati all’organo commissariale da parte del Governo, di accompagno al suo mandato sostitutivo degli organi regionali, da valutare periodicamente ai severi Tavoli romani di verifica e monitoraggio quanto alla puntualità degli adempimenti.

Il secondo dei temi: l’accreditamento (art. 8 quater) e i contratti (art. 8 quinques) nel vigente d.lgs. 502/92 con le modifiche introdotte dalla legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021.

L’accreditamento ha attratto la maggiore attenzione nel sistema della salute aziendalizzato nel 1992, soprattutto per come implementato nel 1999 a cura della riforma ter. Sull’argomento si è scritto tanto e di più, tanto da aver svelato ogni eventuale recondita sofferenza interpretativa della prima ora. I master SPISA hanno di certo contribuito ad un siffatto onere esegetico, attribuendo ai masterizzandi lo svolgimento di lavori finali ad hoc di serio approfondimento sulla tematica e sulla formulazione dei contratti ex art. 8 quinquies.

La concorrenza amministrata, per dirla alla Pastori, è sempre stato un argomento di grande interesse per Luciano Vandelli e della Spisa, ma anche di chi scrive, dal momento che si è sin da subito presunto che dalla corretta esecuzione della stessa sarebbe dipesa la qualità dell’offerta salutare.

Così non è avvenuto, perché all’istituto dell’accreditamento si è data una funzione del tutto diversa da quella idealizzata nella sua specificità di istituzionale, caratterizzata dal quel sano agonismo da istaurare tra l’offerta salutare pubblica e quella privata incentivante la qualità dell’offerta erogativa.

Con il passare del tempo, l’accreditamento è stato, infatti, trattato come qualcosa nata per affidare al privato una missione collaborativa che andasse ben oltre la necessità, molto più in là dell’essenziale. Il binomio accreditamento/contratto divenne, pertanto, nei fatti un insieme indissolubile, come se fosse divenuto la diffusa alternativa alla convenzione di vecchia specie. L’accreditamento venne, facendo così, ad assumere un valore economico quasi autonomo, requisito negato esplicitamente dallo stesso legislatore (art. 8 quater, comma 2), atteso che divenne un titolo usualmente propedeutico alla ricorrente formulazione dei rispettivi successivi contratti di erogazione per species.

2.1 Senza fabbisogno non si fa sana programmazione

Tutto questo nasce dalla grossolana sottovalutazione che si è assicurata alla rilevazione del fabbisogno epidemiologico il quale, anziché essere correttamente ritenuto il motore portante della programmazione sanitaria, da misurare sui territori regionali con la dovuta ragionevolezza e scienza, lo si è irragionevolmente desunto dai dati forniti con la solita obsolescenza dall’Istat piuttosto che da un sistema di rilevamento/rendicontazione generica basato sui flussi trasmessi dalle Regione desunti a casaccio per guadagnare il più possibile premialità spesso non altrimenti godibili.

Così facendo, non si sono quindi formalizzati gli strumenti prodromici pretesi dal legislatore del 1978, consistenti nella mappa del fabbisogno di salute con la conseguente emersione della mappa dei rischi epidemici, direttamente connessi a quella che era la raccolta degli indici di deprivazioni socio-economici-culturali della popolazione di riferimento, sul quale insieme redigere l’intervento dei servizi sanitari regionali programmati per il prossimo triennio.

Quindi, nessun rilievo e nessuna programmazione che fosse degna di chiamarsi tale, tanto da non consentire più alcuna redazione del programma sanitario nazionale dal 2006 in poi.

2.2 Senza programmazione non c’è misura per l’accreditamento

Di conseguenza, era naturale che accadesse l’ancora peggio, sul piano delle garanzie sulla sicurezza e idoneità dei luoghi di diagnosi e cura. A tutt’oggi infatti in diversissime aree del Paese non sono state rilevate neppure le strutture ospedaliere pubbliche degne - quantomeno sul piano strutturale (solo per non infierire sullo status quo di talune regioni, si trascura volutamente quello organizzativo e tecnologico, solo perché impediti dal divieto di assunzioni e dai discrimini di finanziamento in conto capitale) - di rilascio di accreditamento. Un gap che ha inficiato, per differenza, la determinazione del fabbisogno da coprire con il ricorso agli erogatori privati, individuati ovviamente per offerta specialistica ambulatoriale, per ospedaliera, ordinaria e diurna, afferente alla cura medica e chirurgica, per riabilitazione, per istituzionalizzazione per gli affetti da cronicità e per le persone in fase terminale.

Tutto questo ha portato che in alcune Regioni persistessero a tutt’oggi presidi ospedalieri sprovvisti di accreditamento istituzionale, in quanto tali non abilitati al ricovero. Per altri versi è capitato di altro, come naturale conseguenza del primo, ovverosia si è proceduto al rilascio degli accreditamenti in favore dei privati a mano libera, senza limiti imposti dalla programmazione mirata assente, rappresentativa dell’offerta pubblica.

Dunque, si è costituito a dismisura un esercito di accreditati privati non già misurati per differenza con le rispettive offerte assicurate dal sistema direttamente gestito dai servizi sanitari regionali, sino ad arrivare a pratiche di rinnovo che a ritenerle fuori legge non ci si sbaglia mica.

2.3 La sopravvenuta lettera delle disposizioni riguardanti accreditamento e contratti

La legge sulla cosiddetta concorrenza costituisce l’occasione giusta per cambiare in meglio le leggi regionali di riferimento specifico e per ricercare soluzioni all’ambaradan determinato con una eccessiva offerta di accreditati privati, peraltro che si autogenera annualmente anche attraverso gli istituti di estensione delle attività così come con il ricorso inappropriato, per esempio, alla voltura del titolo giuridico.

Le legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021, approvata definitivamente in Senato lo scorso 2 agosto, interviene non poco nella sanità, più esattamente sui farmaci ed emoderivati, su nomina dei “primari” e sulla formazione manageriale. Cambia tutto in tema di criteri di rilascio dell’accreditamento istituzionale e di stipulazione dei contratti degli accreditati con le aziende sanitarie.

Il titolo dell’art. 15 (Revisione e trasparenza dell’accreditamento e del convenzionamento delle strutture private nonché monitoraggio e valutazione degli erogatorii privati convenzionati), che disciplina per l’appunto le modifiche ai rispettivi artt. 8 quater e quinques, la dice lunga sullo stato di confusione cui si faceva riferimento nell’attribuire un valore economico all’accreditamento a tal punto da considerarlo, in una al contratto, come se fosse la vecchia convenzione. Un istituto, quest’ultimo, riservato esclusivamente dalla vigente legislatura, solo e soltanto ai medici di medicina generale, ai pediatri di libera scelta e alle farmacie. Da qui, la confusione cui si è fatto precedentemente riferimento che ha falsato la ratio del ricorso ad un siffatto istituto, soprattutto di garanzia dell’utenza, venuta meno addirittura, in alcune regioni, anche in relazione della sicurezza e della idoneità all’uso e alla frequenza delle strutture ospedaliere pubbliche.

2.3.1 Cosa cambia con la legge annuale della concorrenza.

A leggere bene il disposto, muta molto e in meglio la disciplina, sia a garanzia della qualità di prestazioni essenziali erogate all’utenza che di velocizzazione degli ammortamenti degli investimenti tecnologici degli imprenditori impegnati, che si vedrebbero facenti parte di una categoria forse numericamente più ristretta ma più tutelata in termini di raccolta della domanda.

L’accreditamento deve essere concesso in relazione alla qualità e ai volumi da erogarsi per il soddisfacimento del fabbisogno e, quanto al rinnovo e alla sua estensione, sulla base dei risultati dell’attività svolta, da doversi quindi misurare annualmente anche in termini di qualità.

I contratti saranno stipulati con le aziende sulla base della programmazione sanitaria regionale, che quindi andrà fatta bene, che determinerà il ricorso alla erogazione privata per tipologia di prestazione. Un valore non facile da ottenersi se non sulla base di attente verifiche periodiche e minuziosi monitoraggi dell’accaduto assistenziale. Dunque, viene insediata una procedura agonistica per selezionare il soggetto da contrattualizzare.

Il tutto inteso a razionalizzare l’offerta salutare e renderla più competitiva nella sua composizione complessiva, distinta tra quella erogata dal pubblico e quella assicurata dal privato accreditato/contrattualizzato.

2.4 Le brutte abitudini della legislazione di dettaglio

Tutto questo bailamme ha portato le Regioni, soprattutto quelle abituate a tagliare e incollare i propri provvedimenti legislativi da quei Consigli regionali riconosciuti come imitabili, ad assumere il brutto vizio di approvare acriticamente le proprie leggi, senza spesso neppure sapere di cosa si legiferasse. Una abitudine tanto consolidata da lasciare residuare, per assurdo, nei propri testi indicazioni geografiche appartenenti alla regione titolare delle leggi riprodotte testualmente.

Uno degli eventi che ha inquinato tutta la lettera normativa regionale in materia sociosanitaria è quello che afferisce al trasferimento, inter vivos e mortis causa, delle autorizzazioni e dell’accreditamento di cui agli artt. 8 ter e quater del vigente d.lgs. 502/92. Al riguardo, è stata prevista ovunque per il perfezionamento dell’evento - sia sotto il profilo amministrativo che civilistico-fiscale - la formazione di un atto di voltura della titolarità della struttura interessata, con provvedimenti amministrativi al seguito, sia autorizzativi che di accreditamento.

In proposito, è appena il caso di ricordare che, essendo due provvedimenti amministrativi condizionati al possesso di requisiti, rispettivamente minimi e ulteriori, organizzativi, strutturali e tecnologici, una loro qualsivoglia modificazione, riferibile agli originari destinatari componenti la più solita compagine sociale ovvero direzionale, debba essere fatta con un omologo provvedimento preceduto dalla conferma del possesso dei requisiti richiesti dalla normativa.

Un qualsivoglia atto di natura civilistica, intervenuto per regolare l’atto di cessione tra vivi ovvero per prendere atto e completare gli effetti di una successione mortis causa, va certamente a comportare quantomeno la modifica dei requisiti organizzativi, comprendendo in questi la presenza di soggetti aventi causa diversi, come identità personale, dai loro dante causa, il cambio di eventuali direttori responsabili e di soggetti professionali in essi impegnati in posizioni lavorative fondamentali per l’erogazione di servizi e prestazioni essenziali.

Una attività, questa, che richiede all’ente regolatore, la Regione, in presenza della regolarità dell’atto traslativo e della idoneità dei requisiti posseduti, di adottare un provvedimento, seppure non discrezionale, di riconoscimento della legittimità dell’intervenuto avveramento della causa del titolo negoziale di trasferimento (testamento e successione, atto di cessione di un diritto reale a qualsiasi titolo riconosciuto dall’ordinamento). Con esso, previo l’ineludibile accertamento della documentazione di aggiornamento del possesso dei requisiti in capo ai soggetti legittimamente subentranti, determinare l’efficacia costitutiva della nuova titolarità aziendale, sancendo l’intervenuto trasferimento di titolarità con provvedimento autorizzatorio, ma di natura concessoria, che riconosce in capo al soggetto avente causa l’intervenuto possesso del titolo giuridico che ne determina la nuova titolarità e proprietà.

D’altronde, il mancato riconoscimento da parte della Regione dell’intervenuto trasferimento civilistico, proprio perché condizionato all’avverarsi del suo rilascio, rende l’atto di cessione invalido e dunque privo di ogni effetto civilistico e fiscale.

Viceversa la voltura, cui l’ordinamento fa esplicito e diffuso riferimento in tutte (o quasi) le leggi regionali regolative nel dettaglio del sistema cosiddetto delle «3A», non è attributiva di alcuna efficacia costitutiva bensì dichiarativa. In quanto tale non affatto generativa di alcun riconoscimento dell’intervenuta cessione a qualsiasi titolo civilistico. Essa rappresenta, infatti, un mero atto amministrativo di natura reale, attraverso il quale l’autorità competente non dà luogo ad un nuovo provvedimento sostitutivo del precedente bensì si limita a novellare l’intestazione soggettiva di un rapporto oggettivo esistente (per esempio, un permesso di costruire) in un apposito registro, istituito ad hoc. Per l’appunto, quello degli accreditati, ove vengono rappresentati – al fine di favorire la conoscenza dei terzi - tutti coloro i quali sono da considerarsi tali, perché destinatari di un provvedimento amministrativo di riconoscimento dell’intervenuto trasferimento, mortis causa ovvero inter vivos, della struttura già accreditata in capo al loro dante causa, esclusivamente generativo del passaggio di titolarità. E non già, limitandosi, come avviene oggi (quasi) ovunque, ad accertare l’intervenuto subingresso di un nuovo soggetto e a prenderne semplicemente atto così come si fa, a seguito di una cessione di azienda commerciale avvenuta, a volturare l’autorizzazione comunale alla vendita dei prodotti, per esempio, alimentari.

Con una tale consolidata abitudine non è difficile immaginare - trattandosi di soggetti per lo più già operanti in regime di prestazioni a carico del SSN in forza della stipulazione dei contratti conclusi con le rispettive aziende sanitarie ex 8-quinquies del vigente d.lgs. 502/92 - quante difficoltà vengono a porsi, a causa della mancata adozione di un provvedimento amministrativo previsto dall’ordinamento in tema di perfezionamento di atti di natura concessoria conseguenti ad un intervenuta cessione aziendale, in termini di rispetto delle norme poste a tutela del riciclaggio e della lotta ai fenomeni mafiosi.

Carlo Bottari

Università di Bologna

Ettore Jorio
Università della Calabria

[1] In ordine cronologico: Liguria n. 17/2016 (con la denominazione di “Alisa”); Veneto L.R. n. 19/2016; Piemonte L.R. n. 18/2007, per come modificata dalle LL.RR. n. 26/2021 e n. 2/2022; Lazio L.R. n. 17/2021; Calabria L.R. n. 32/2021.

[2] Liguria: Legge regionale 29 luglio 2016, n. 17, recante “Istituzione dell’azienda ligure sanitaria della Regione Liguria (A.LI.SA.) e indirizzi di riordino delle disposizioni regionali in materia sanitaria e sociosanitaria”, Bollettino Ufficiale n. 15 del 30 luglio 2016; Veneto; Legge regionale 25 ottobre 2016, n. 19, recante “Istituzione dell'ente di governance della sanità regionale veneta denominato "Azienda per il governo della sanità della Regione del Veneto - Azienda Zero". Disposizioni per la individuazione dei nuovi ambiti territoriali delle Aziende ULSS”, Bollettino Ufficiale n. 102 del 25 ottobre 2016

[3] Una disattenzione commessa da dodici Regioni nel disciplinare i rispettivi servizi sanitari regionale, tanto che l’autonomia imprenditoriale delle loro aziende sanitarie è a tutt’oggi ancora sancita soltanto, nonostante imposta dal legislazione statale del 1999, da: Basilicata L.R. n. 12/2008, art. 2.2; Emilia-Romagna L.R. n. 29/2004, art 3.1; Liguria L.R. n.41/2006, art. 17.2; Molise, L.R. 9/2005, art. 3.3; Piemonte L.R. n. 18/2007, art. 18.5; Sicilia L.R. n. 5/2004, art. 9.1; Toscana L.R. n. 40/2005, art. 31.1; Val d’Aosta, L.R. n. 5/2000, art. 9.3; Provincia autonoma di Trento L.P. n. 16/2010, art. 27. A proposito, ad opera di alcune istituzioni regionali/provinciali (Regione Calabria; Provincia autonoma di Bolzano) è stata fatta addirittura una cernita sulle sei tipologie, vigenti ante riforma ter del 1999, di autonomia arrivando ad attribuire alle aziende della salute l’autonomia di gestione, quella tipica delle strutture operative delle medesime.



25 novembre 2022
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