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Se la Consulta allarga i confini del suicidio assistito

di Maurizio Mori

La Corte costituzionale (sentenza 242/19) ha equiparato l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale alla azione attiva con cui una persona si procura la morte, ma poiché l’interruzione è attuata da terzi, non si capisce perché anche l’azione finale che procura la morte non possa essere compiuta da terzi, ma debba rimanere in capo solamente all’interessato

22 MAG -

Sabato 13 maggio 2023 a Cagliari l’Azienda ARNAS G. Brotzu ha organizzato un Convegno su “L’Etica e la cura del fine-vita. Legge Lenzi n. 219/2017 e disposizioni anticipate di trattamento”, evento che merita di essere segnalato sia per l’alto livello delle relazioni sia perché il suo svolgersi ha confermato la grande attenzione dedicata dall’ARNAS all’assistenza sanitaria allargata e sociale: circa 150 persone, tra cui molti cittadini, per oltre otto ore hanno seguito i lavori con attenzione e sollevato domande di grande significato.



Mario Riccio sull’allargamento della 4a condizione circa il “mezzo di sostegno vitale”
Tra le tante relazioni presentate al Convegno, tutte di grande interesse, il dr. Mario Riccio è partito esaminando le principali questioni bioetiche sollevate dalla sentenza n. 242/19 della Corte costituzionale che, com’è noto, ammette l’assistenza medica al suicidio in presenza di 4 condizioni e cioè quando la persona è:
  1. «capace di prendere decisioni libere e consapevoli»;
  2. «affetta da una patologia irreversibile»; la quale sia
  3. «fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili»; che sia
  4. «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale».

Riccio ha sottolineato come all’inizio la quarta condizione all’inizio pareva essere molto ristretta e riguardare solo i trattamenti con macchine (respiratore, nutrizione artificiale, etc.), ma presto, grazie alla sentenza relativa al caso Davide Trentini di Massa, che sul punto ha accolto la tesi della difesa, la condizione si è ampliata fino a includere anche altre forme di intervento sanitario e ora la nozione di «trattamento di sostegno vitale» è più larga di quanto non fosse in partenza.

Ha poi raccontato alcune vicende concernenti il primo caso di suicidio medicalmente assistito avvenuto legalmente in Italia cui ha prestato assistenza: quello di Mario il Marchigiano (nome di fantasia) corrispondente a Federico Carboni, avvenuto a Senigallia il 16 giugno 2022. Riccio ha messo in luce come fino all’ultimo non fosse affatto scontato che Federico avrebbe schiacciato il tasto di attivazione della pompa per l’infusione del farmaco letale: Federico era tetraplegico e faceva fatica anche a muovere le dita e “se non fosse riuscito a premere il tasto in modo appropriato, non avremmo potuto far nulla, perché nessuno può sostituire la sua azione”, ha detto Riccio.

L’assistenza medica prevede la preparazione degli aspetti di contorno, ossia i farmaci richiesti, le modalità di somministrazione e altri annessi, ma il nucleo del suicidio, ossia l’azione ultima che provoca la morte, è in capo all’interessato e solo a lui: questo punto, connesso alla definizione stessa di suicidio, pare sia fisso e indiscutibile. “Se Federico non avesse da solo schiacciato il tasto, ha continuato Riccio, non avrei potuto fare nulla di più per aiutarlo, perché se l’avessi schiacciato io non sarebbe stato più “suicidio”, ma “eutanasia”, con le diverse conseguenze del caso. Consapevole della necessità di essere lui a compiere l’atto, Federico si è impegnato molto e è riuscito nell’impresa: ce l’ha fatta, ma fino all’ultimo non era detto che ci riuscisse”.

A sentire questo resoconto, scarno ma efficace, il primo interrogativo che mi si posto è stato: ma è umano imporre a una persona già tanto provata di fare una fatica finale così gravosa per chiudere l’esistenza? È davvero questo che richiede la cintura protettiva prevista dalla Corte a tutela dei pazienti vulnerabili? È giusto chiedere a uno che è già molto sofferente di dedicare le ultime sue forze in questo modo? A prima vista sembrerebbe più ragionevole dire che proprio per via della sua vulnerabilità il paziente dovrebbe essere agevolato nei suoi propositi, senza richiedergli uno sforzo quasi sovrumano per raggiungere l’obiettivo. Il semplice buonsenso parrebbe suggerire questo: sarebbe stato più che sufficiente che Federico comunicasse la propria volontà a un medico di fiducia (il dr. Riccio) e che questi provvedesse a realizzarla, senza stare a richiedere che fosse lui stesso a compiere l’ultimo atto.

Oltre a questa considerazione di tipo morale le parole di Riccio ne hanno sollecitato altre di tipo logico circa la definizione di suicidio e la distinzione tra suicidio e eutanasia, che propongo.

Sull’allargamento del concetto di suicidio: la ratio della Corte costituzionale

Il discorso di Riccio ha lasciato intendere che l’assistenza al suicidio riguarda solo ciò che ho chiamato gli aspetti di contorno del suicidio e che il nucleo centrale del concetto stesso rimane immutato, ossia il fatto che l’azione ultima che causa la morte sia compiuta dall’interessato e solamente da lui. Questo nucleo è ciò che distingue il suicidio dall’eutanasia, pratica questa in cui, invece, l’azione ultima è compiuta da un terzo che agisce su richiesta dell’interessato.

La distinzione sta alla base anche del nostro codice penale che sul tema ha due articoli separati: il 579 che vieta l’omicidio del consenziente (l’eutanasia), e il 580 che vieta l’aiuto e l’istigazione al suicidio. Tutto questo è in linea con la teoria penale standard diffusa per la quale la persona che agisce è un’unità di mente e corpo, in cui la mente elabora gli scopi che vengono poi realizzati dal corpo attraverso azioni fisiche che, come ha scritto Hyman Gross (A Theory of Criminal Justice, Oup. 1979, p. 70) comportano «grandi movimenti esterni» (grand external movements) capaci di cambiare il corso delle cose. La prospettiva è che «la mente progetta, ordina e sorveglia, mentre il corpo esegue le istruzioni della mente» (op. cit.) attraverso azioni volontarie le quali modificano il corso del mondo.

L’agente è responsabile dei cambiamenti realizzati dall’azione volontaria, responsabilità che è personale e non è trasferibile a altri. Eutanasia e suicidio sono azioni differenti che appartengono a categorie diverse perché la responsabilità delle azioni è in capo a soggetti diversi. Il suicidio sembra offrire maggiori garanzie di tutela rispetto all’eutanasia, perché se l’azione ultima è compiuta dall’interessato si ha la certezza che quella era la sua volontà e che a lui va ascritta la responsabilità del gesto. Se, invece, come avviene nell’eutanasia l’azione ultima è compiuta da un terzo, allora si può dubitare che la morte sia stata effettivamente richiesta, e comunque la responsabilità dell’atto ricade su chi ha compiuto. Per questo la distinzione tra eutanasia e suicidio è netta e pare essere non sia modificabile.

Tuttavia, questo quadro concettuale a ben vedere non corrisponde a quello che, a una lettura più attenta, è sotteso alla sentenza 242/19, dal momento che questa ammette il suicidio medicalmente assistito sulla scorta della seguente ragione: «se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale» (n. 2.3).

Nel passo non si precisa che l’aiuto al malato debba essere limitato solo agli aspetti di contorno, ma nell’interpretazione diffusa tutto questo appare ovvio e scontato in quanto l’intera analisi riguarda l’articolo 580 c.p. cioè l’aiuto al suicidio, pratica in cui per definizione l’azione finale è compiuta dall’interessato.

Tuttavia, se si legge con attenzione la suprema Corte chiarisce in modo inequivocabile che la ragione che giustifica l’aiuto al suicidio sta nel fatto che già ora è lecita la sospensione dei trattamenti salvavita che ha come effetto la morte: essendo già lecita la sospensione che provoca un certo effetto, non si vede perché non debba essere altrettanto lecito un altro aiuto (attivo) che porti allo stesso effetto con maggiore rapidità.

Inoltre la Corte precisa anche come a volte la sospensione dei trattamenti richieda una condotta “attiva” come il distacco o lo spegnimento dei macchinari: atti che, ovviamente, sono compiuti da terzi (medici) e non dall’interessato. Pertanto, se nulla osta a che terzi intervengano attivamente a fare azioni che interrompono i trattamenti per por fine a una vita, non si vede che cosa possa ostare a che terzi intervengano attivamente a dare un aiuto che porta allo stesso effetto. Anzi, se così non fosse, si creerebbe una ingiustificata asimmetria tra le azioni richieste: perché a parità di effetti dovrebbe esser lecita l’azione (attiva) per interrompere i trattamenti, ma non per aiutare a morire?

Se la ragione (o il criterio) che giustifica la liceità dell’aiuto al suicidio è la stessa che giustifica la liceità dell’interruzione dei trattamenti, allora, poiché l’interruzione non è attuata da sé medesimi ma da terzi, non si vede perché anche l’aiuto al suicidio debba limitarsi agli aspetti di contorno e non riguardare il nucleo, cioè non possa prevedere che l’azione ultima sia fatta da terzi.

Per converso, ove si volesse continuare a sostenere che l’atto finale va fatto solo dall’interessato, si dovrebbe richiedere che anche l’interruzione dei trattamenti sia attuata da sé medesimi. Ma poiché quest’ultima richiesta appare assurda, non resta che allargare la nozione di suicidio fino a includervi anche l’eutanasia. Ecco perché la sentenza 242/19 in modo implicito ha già esteso il nucleo stesso della nozione di suicidio.

Questo punto è confermato anche dal passo subito successivo della sentenza, in cui la Corte osserva che l’aiuto al suicidio è rispettoso della «esigenza di proteggere le persone più vulnerabili» (cioè i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze), perché «se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri» (2.3).

Anche quando affronta il tema della cintura protettiva a tutela di che è più vulnerabile e della responsabilità per le azioni compiute, la Corte ribadisce che, se una persona nelle condizioni previste è in grado di decidere «di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione» dei trattamenti, allora è anche in grado di «decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri».

Lo stesso criterio vale simmetricamente in entrambe le situazioni, sia per l’interruzione dei trattamenti sia per l’azione che provoca la morte. Ciò significa che non è più vero che l’unica vera prova certa della volontarietà della decisione è che l’interessato compia l’atto finale (come richiede la teoria penale standard), e quindi cambia anche il discorso sulla responsabilità personale connessa agli atti compiuti nel tipo di situazione in esame. Poiché la ratio a giustificazione dell’interruzione dei trattamenti e del suicidio è la stessa ciò che vale nell’un caso vale anche nell’altro, e poiché l’interruzione è fatta da terzi, allora ciò vale anche per l’aiuto a morire, per cui va allargato il concetto di suicidio per farvi rientrare anche l’eutanasia in cui l’atto finale è compiuto da terzi.

Una lettura più attenta della sentenza 242/19 ci porta a dire che, sulla scorta della ratio che informa il discorso della Corte, va allargato il nucleo stesso della nozione di suicidio. Altri spunti in questa direzione sono stati offerti da altre relazioni presentate al Convegno di Cagliari come riporto qui in breve.

Sergio Livigni sull’uso del puntatore ottico e l’evanescenza del concetto di azione
Sergio Livigni ha affrontato il tema della condivisione delle cure in terapia intensiva, ricordando come ormai i pazienti in tali reparti siano tanto fragili che a volte l’unica forma di comunicazione possibile avviene con l’intermediazione del puntatore ottico: fissando lo sguardo nel puntatore ottico il paziente riesce a comunicare col mondo. In questo senso ha proposto la possibilità di allestire un programma apposito che consenta di collegare il puntatore ottico a una pompa per l’infusione di farmaci così che, fissando lo sguardo in modo appropriato, l’interessato possa attivare la pompa e porre fine in questo modo alla propria vita.

L’idea è di sicuro interesse e costituisce un prezioso ausilio a chi si trova in situazioni di fragilità estrema. Viene però da chiedersi che tipo di azione sia quella del fissare lo sguardo nel puntatore ottico. È equivalente al muovere un dito per schiacciare il pulsante o a pronunciare una parola per chiedere la collaborazione di un terzo? Non posso qui entrare nei meandri della “teoria dell’azione”, ma si può non ricordare almeno le linee generali della teoria standard che è sottesa al diritto penale. In questa l’assunto è che la persona attui i propri progetti di vita (ciò che ha in mente) attraverso azioni costituite da «grandi movimenti esterni» che cambiano il corso delle cose.

Perché ci sia il suicidio, chi vuole darsi la morte deve compiere da solo l’atto finale costituito appunto da un grande movimento esterno capace di terminare la propria vita e ciò costituisce la garanzia inoppugnabile della volontarietà dell’azione al riguardo. Esempi paradigmatici di questi movimenti esterni sono ingerire un veleno, tagliarsi le vene, buttarsi dal ponte e simili, atti che richiedono tutti un qualche significativo spostamento fisico nello spazio. La crescita delle tecniche ha facilitato questi movimenti e oggi bastano piccoli atti come schiacciare il grilletto di una pistola o premere il tasto di attivazione di una pompa, gesti che non richiedono «grandi movimenti esterni», ma che rientrano in tale classe perché comportano pur sempre un qualche movimento materiale nello spazio.

È escluso dalla categoria dei «grandi movimenti esterni» il parlare, ossia il dire a un'altra persona: “buttami dal ponte!”, “sparami!”, “premi tu il tasto di attivazione della pompa!”. Eppure, anche il parlare comporta movimenti fisici esterni, come quelli delle labbra, dell’emissione di fiato, etc., che però non sono affatto considerati rilevanti per fare un’azione (i performativi sono limitati a parole specifiche e ben determinate). Come mai?

La risposta più immediata è che nel caso del parlare prevale quella che chiamo la “esigenza di garanzia” a tutela dell’interessato: il mero dire “sparami!” non basta a provare che quella sia la volontà al riguardo, anche perché dopo aver sparato il terzo che l’ha fatto potrebbe aver mentito sul punto (cioè non aver ricevuto la richiesta). Solo il fatto che l’agente compia da sé il movimento esterno nello spazio costituisce il sigillo della volontarietà dell’azione, certezza che non può aversi sulla scorta della mera parola pronunciata. Si può tuttavia ribattere che le esigenze di garanzia sono oggi superabili e che ci sono modi sicuri per accertare la volontà dell’interessato (scrittura, registrazione, etc.), senza richiedere che a lui spetti compiere l’atto finale. Questa posizione è confermata dal fatto che, come rileva la sentenza 242, la stessa garanzia si ha con l’interruzione dei sostegni salvavita.

Un’altra possibile risposta è quella che fa possibile riferimento alla dottrina della sacralità della vita: causare la morte è sempre qualcosa di negativo. Se uno proprio vuole darsi la morte, non glielo si può impedire, ma faccia da sé e non vada a chiedere a altri di collaborazione al male. Questa tesi, però, è debole perché, nelle circostanze date, la persona si trova preda di sofferenze intollerabili (condizione c. della Corte), per cui il togliere qualcuno dalla condizione infernale è un bene: atto richiesto dalla moralità.

La risposta più plausibile all’interrogativo posto circa l’esclusione del parlare come atto idoneo per l’attuazione del suicidio è quella che rimanda alla causalità dell’azione e alle responsabilità connesse all’azione volontaria considerate dal diritto penale. Quando si muove un dito, il movimento fisico nello spazio (anche piccolo) ha come effetto diretto una modifica di parte della realtà; quando invece si parla l’effetto è la pronuncia di parole dotate di significato: i movimenti fisici della fonazione non sono considerati essere rilevanti al cambiamento del mondo, perché tutta l’attenzione è rivolta al significato, che è qualcosa di “immateriale” e quindi fuori dallo spazio e senza effetti diretti sulla realtà esterna.

È vero che tutti sappiamo bene che i discorsi possono infiammare le persone e portarle all’azione, ma ciò avviene perché e quando gli ascoltatori rielaborano il significato delle parole e, sulla scorta di questa, si mobilitano. Il parlare in sé non modifica in modo diretto la realtà del mondo e i movimenti esterni che il parlare comporta non sono rilevanti al riguardo, anche se la parola enunciata può avere un effetto indiretto sul mondo. Per questo il parlare non rientra nella categoria delle azioni idonee al suicidio, anzi ne è escluso.

Ho riepilogato il quadro teorico sotteso alla prospettiva che mette al centro la nozione di responsabilità per le azioni per poter meglio esaminare da questo punto di vista alcuni problemi sollevati dallo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche. Livigni ha ricordato una nuova possibilità aperta dal puntatore ottico, ma in via preliminare ne esamino prima un’altra che potrebbe essere offerta da Alexa, il dispositivo di intelligenza artificiale diffuso sotto forma di assistente vocale apprestato da Amazon e presente in molte nostre case dal 2014.

Supponiamo di modificare il programma di Alexa in modo tale da abilitarla a rispondere in modo personalizzato a un soggetto e solo a lui, e da renderla capace di azionare a comando una pompa di infusione dei farmaci. Ove ciò accadesse, un paziente nelle condizioni previste dalla sentenza 242 e adeguatamente assistito potrebbe pronunciare le parole: “Alexa procedi!”, e subito il dispositivo provvederebbe a azionare la pompa che immette il farmaco letale, provocando la sua morte.

Non so quanto l’esperimento mentale immaginato sia lontano dalla realtà attuale, ma l’ho proposto perché solleva un problema fondamentale. Dire a Alexa “aziona la pompa!” è realizzare il proprio suicidio in modo esattamente equivalente allo schiacciare da soli il tasto col dito? In quest’ultimo caso l’agente compie un movimento fisico nello spazio che produce gli effetti voluti, mentre quando parla a Alexa non è il movimento fisico nello spazio a causare l’effetto, ma è il significato della parola che viene capito da Alexa, la quale provvede.

Se è suicidio dire a Alexa “aziona la pompa!”, perché non dovrebbe esserlo anche il chiedere a un umano (un medico) di schiacciare un tasto che porta allo stesso effetto? Perché la richiesta avanzata a un medico dovrebbe essere classificata come una forma illecita di eutanasia, mentre quella fatta a Alexa rientrerebbe in quella di suicidio (lecito)? Visto che le esigenze di garanzia sono oggi risolvibili, il voler continuare a mantenere la distinzione tra suicidio e eutanasia non è una forma di discriminazione dell’umano (medico) aprioristicamente giudicato essere di per sé meno affidabile di Alexa?

Nella sua relazione Livigni ha ricordato che i pazienti in terapia intensiva a volte non sono neanche in grado di parlare e che l’unica forma di comunicazione possibile avviene attraverso il puntatore ottico che, dopo adeguato addestramento, può essere attivato con lo sguardo. Ma che tipo di azione è il fissare lo sguardo in un puntatore ottico? È qualcosa di più simile ai grandi movimenti esterni che modificano il mondo (come il muovere un dito per premere il tasto) o alla pronuncia di una parola che rimanda al significato immateriale trasmesso da essa? In che senso il fissare lo sguardo in un puntatore ottico è equivalente al muovere da soli un dito?

Confesso di non avere risposte certe. A prima vista sono propenso a sostenere che fissare lo sguardo nel puntatore è più simile al parlare che al muovere un dito, perché ciò che conta dello sguardo è il significato trasmesso al puntatore e non i movimenti muscolari richiesti. Questi sono presenti anche nella fonazione che sta alla base del parlare, dove però rilevante è il significato immateriale insito nella parola. Se così fosse, allora il ricorso al puntatore ottico per attivare la pompa di infusione del farmaco letale diventerebbe equivalente al parlare a Alexa, e torneremmo quindi alla domanda del perché la richiesta fatta a una macchina è classificata come suicidio mentre quella a un umano medico come eutanasia. Se, invece, fissare lo sguardo fosse più simile a un movimento nello spazio come il muovere un dito, allora non ci resterebbe che prendere atto come ormai l’ausilio delle macchine può trasformare in «grande movimento esterno» anche il più lieve movimento muscolare (interno), rendendo “azione” pressoché ogni movimento.

Conclusione
La Corte costituzionale (sentenza 242/19) equipara l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale alla azione attiva con cui una persona si procura la morte, ma poiché l’interruzione è attuata da terzi, non si capisce perché anche l’azione finale che procura la morte non possa essere compiuta da terzi, ma debba rimanere in capo solamente all’interessato.

La simmetricità delle azioni coinvolte richiede uguaglianza di intervento, e per questo una lettura più attenta della sentenza porta alla conclusione che già ora per coerenza è possibile allargare il nucleo della nozione di suicidio così da includervi anche l’azione fatta da terzi (eutanasia).

A corroborare questa tesi sta il fatto che l’avvento dell’Intelligenza Artificiale e delle altre tecniche informatiche fa sì che il fare un’azione non richiede più i «grandi movimenti esterni» messi in atto dall’interessato com’era in passato, e ciò rende più fluido e incerto il concetto stesso di azione. Si deve prendere atto che anche per il nucleo del concetto di suicidio sta capitando quel che già è accaduto con la nozione di “mezzo di sostegno vitale”: come ha rilevato Riccio, all’inizio sembrava essere molto limitata e ristretta, ma poi si è presto ampliata.

Anche la nozione di “suicidio” all’inizio sembrava richiedere che l’atto ultimo fosse compiuto dall’interessato, mentre ora ci accorgiamo che i confini al riguardo sono labili e che la nozione può essere allargata fino a includervi anche l’eutanasia. Ciò significa che nella pratica concreta l’amico Mario Riccio avrebbe potuto aiutare Federico Carboni non solo apprestando gli aspetti di contorno concernenti il suicidio, ma anche intervenendo sul nucleo stesso, cioè compiendo lui l’atto finale che provoca la morte. È bene che il legislatore tenga conto di tutto questo quando si appresterà a elaborare una normativa sulla tematica, com’è auspicabile che faccia presto.

Maurizio Mori
Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, componente del Comitato Nazionale per la Bioetica



22 maggio 2023
© Riproduzione riservata


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