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Programma Nazionale della Ricerca. Mantenere le promesse per rinascere

di Fabrizio Gianfrate

I 2,5 miliardi fino al 2020 tra MIUR, PON e FSC, fino a oltre 4 miliardi con i POR delle Regioni e l’Horizon 2020 dell’EU. Sono da spendere bene, non a pioggia ma a fronte di una programmazione coordinata e intelligente (12 le aree tematiche previste). La ricerca italiana e i suoi operatori ne hanno bisogno disperatamente, specialmente sulle scienze della vita. 

05 MAG - “…E in tre anniii… vinceremo il cancrooo!!” prometteva a gran voce il Premier di allora da Piazza del Popolo in quella primavera del 2010, in un trascinante crescendo rossiniano a chiusura del comizio elettorale, tra scrosci di applausi dei presenti e sorriso estasiato della Ministra competente (si fa per dire: era quella del tunnel per i neutrini scavato tra Svizzera e Abruzzo). Finalmente un grande programma d’investimenti in ricerca, pensarono in molti, mai visti prima. Neanche allora né dopo, però.
 
Quel piccolo episodio incarna una colorita sineddoche di come e perché siamo cronicamente in coda tra i Paesi industrializzati negli investimenti in ricerca. Mi è sovvenuto quando in questi giorni è stato approvato il nuovo PNR, Programma Nazionale della Ricerca, 2,5 miliardi fino al 2020 tra MIUR, PON e FSC, fino a oltre 4 miliardi con i POR delle Regioni e l’Horizon 2020 dell’EU. Sono da spendere bene, non a pioggia ma a fronte di una programmazione coordinata e intelligente (12 le aree tematiche previste).
 
La ricerca italiana e i suoi operatori ne hanno bisogno disperatamente, specialmente sulle scienze della vita. Perché anche le migliori idee hanno bisogno di gambe per camminare, ovvero mezzi veri, risorse e fatti concreti. Invece l’Ocse conferma in un recente report, che per spesa complessiva in ricerca, pubblica e privata, per tutti i settori, restiamo tra le cenerentole in Europa e nel mondo (26 miliardi vs. i 55 della Francia, i 103 della Germania, i 40 dell’UK o i 160 del Giappone).
 
Nel farmaceutico gli investimenti pubblici sono infimi. Meglio quelli privati, che però vanno soprattutto a studi clinici, indispensabili, ma non “inventano” come la ricerca di base (discovery). In rapporto alla dimensione del nostro mercato, il quinto/sesto nel mondo, incrociando le spese in R&D e fatturati, le imprese del farmaco nello Stivale hanno investito nel 2015, trials inclusi, circa il 6% di quanto incassato. La media EU è del 17,2%, il 29% in UK, il 22% in Germania, il 18% in Francia, fino al 57% del Belgio, il 66% della Danimarca, il 122% della Svizzera, dove le farmaceutiche spendono in R&D un quarto più di quanto incassato.
 
In altri comparti del farma, ad esempio il manufacturing, le imprese in Italia vanno invece fortissimo sia per investimenti, anche e soprattutto attratti dall’estero, sia per risultati: produttività al top e, fra poco, per produzione totale supereranno anche la Germania (è vero!), e con un export da record, oltre i tre quarti del prodotto. Anzi, il manufacturing farmaceutico è in assoluto il nostro comparto economico-produttivo più vitale, quello che maggiormente sta sostenendo l’economia nazionale, soprattutto grazie proprio all’export.
 
Inevitabile chiedersi come fare per estendere tanta grazia (meritata) anche alla ricerca. Perché il sistema nel suo insieme, accademia, CNR, oltre alle imprese, contiene competenze molto spesso straordinarie. Le cui enormi potenzialità tuttavia, qui sta il vulnus, non riusciamo a concretizzare. Come se a fronte di singole componenti individualmente validissime, manchi una sorta di catalizzatore che le faccia operare insieme moltiplicandone esponenzialmente i singoli “valori”, a beneficio del risultato finale comune.
 
Forse c’impiomba l’incapacità a collaborare a obiettivi condivisi, la miopia del guicciardiniano “particulare”, l’inesorabile “teorema del prigioniero”, l’economia delle conoscenze al posto di quella della conoscenza, forse la permanenza di modelli e relazioni industriali e organizzativi vetusti, di stampo Taylorista, poco funzionali a intuire e inventare (Silicon Valley e simili insegnano).
 
Così la nostra già non numerosa “meglio gioventù” scientifica, visti gli ancora più esigui e precari posti disponibili in casa, scappa all’estero. E con gran successo, che qualche Ministra “competente” (aridaje…) magari prova abusivamente ad ascriversi. E pensare che spendiamo per formare un bravo ricercatore, dalle elementari al dottorato o al master, centinaia di migliaia di euro. Solo che poi questo “investimento” è spesso capitalizzato da università o aziende di altri Paesi. Magari proprio a discapito di aziende italiane concorrenti, con le cui tasse si è finanziato il sistema scolastico pubblico che li ha formati.
 
Se i migliori sono costretti a emigrare, restano così i “meno bravi” a “perpetrare la specie” (accademicamente parlando). Come nelle guerre durante i secoli: partivano i giovani migliori, restavano i “minus habens” inadatti a combattere, rimasti però gli unici a perpetrare la razza, ovviamente in peggio. Allora compensavano gli invasori, in proposito oggi esportiamo scienziati e importiamo “vù cumprà”.
 
Tuttavia, finito oggi il tempo delle “serendipities”, le scoperte per caso e fallito il modello dei mega centri di ricerca, cattedrali della gerarchia e della burocrazia, specialmente nelle biotecnologie vince il “piccolo e bello” del keynesiano Schumacher, possibile pur senza la dimensione della multinazionale. Vincono collaborazioni e partnership, il network molecolare delle iper-specializzazioni, purché attraverso sinergie incrociate tra imprese, accademia, finanza, regole. Il cancro e altre malattie oggi nefaste si vinceranno con l’accumularsi e l’accomunarsi globale di conoscenze e intuizioni. In cui noi potremmo davvero dire la nostra.
 
Pensando che nel corso dei secoli gli italiani hanno inventato davvero tutto. Popolo d’inventori (e di anarchici), ci descriveva affascinato Stendhal. Come siamo passati dalle stelle di ieri alle stalle di oggi? Politiche cinquantennali dissennate? Modelli culturali inidonei? La “vincente modernità consumistica della ricchezza senza cultura”?
 
O forse la “macchina per istupidire” di Karl Kraus, il primato delle parole sui fatti concreti quando il futuro invece passa inevitabilmente da questi. Come appunto per la ricerca. A cui fanno certamente più male le promesse non mantenute di quelle non fatte. Frequente nel “‘Paese d’ ‘o sole” di Libero Bovio, “addò tutt’ ‘è pparole”, dove lo show prevale sulla realtà, pure se lo chiamano “reality”, o hanno gran successo le pietanze cucinate in Tv che però dal video non puoi mangiare. Siamo fatti della materia dei sogni, chioserebbe Prospero.
 
Mi sono ricordato di quella boutade elettorale da “ganassa” brianzolo sulla ricerca contro il cancro, non per l’aneddoto in sé, in fondo minimale né per l’autore. Ma per come sia sintomatico ed emblematico, quasi didascalico dell’approccio generale alla ricerca nel nostro Paese, che la massima Istituzione del Governo affronti tranquillamente con tanta superficialità e approssimazione l’argomento di ricerca, quello sul cancro, in assoluto più importante al mondo.
 
Ma soprattutto che ciò sia stato comunemente e pubblicamente accettato con la più naturale normalità, e nella silenziosa consapevolezza degli addetti i lavoro che si trattava appunto di parole prive di alcun fondamento, il botto finale acchiappa applausi di fine show, come le lacrime finali di Marlon Brando sul corpo di Cesare, il monologo finale di Orson Welles nel Terzo Uomo, la pirotecnica conclusione del Kean di Gassman, il “felici-bum-tààà” dell’avanspettacolo.
 
O, meglio, il peto finale di Pierino-Alvaro Vitali alla supplente che lo interroga in classe sulla botanica dei fagioli. A cui segue fermo immagine sulla generosa scollatura della procace maestrina e, in sovrimpressione, tra gli applausi gaudenti e festosi dei presenti, la scritta “Fine”. Metafora del Paese, appunto. Al cui futuro nella ricerca, nuovo PNR in primis, serve non sia più così.
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria 


05 maggio 2016
© Riproduzione riservata


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