Osservasalute 2017: il federalismo sanitario è fallito. Italia in media è in buona salute, ma tra Nord e Sud troppe differenze. Il rapporto
Walter Ricciardi (presidente Iss e direttore dell'Osservatorio): “È auspicabile che si intervenga al più presto partendo da un riequilibrio del riparto del Fondo sanitario nazionale, non basato sui bisogni teorici desumibili solo dalla struttura demografica delle Regioni, ma sui reali bisogni di salute, così come è urgente un recupero di qualità gestionale e operativa del sistema, troppo deficitarie nelle regioni del Mezzogiorno”. I primati regionali. LA SINTESI DEL RAPPORTO.
19 APR - “E’ evidente il fallimento del Servizio sanitario nazionale, anche nella sua ultima versione federalista, nel ridurre le differenze di spesa e della performance tra le regioni. Rimane aperto e sempre più urgente il dibattito sul ‘segno’ di tali differenze. Si tratta di differenze inique perché non ‘naturali’, ma frutto di scelte politiche e gestionali”
Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e direttore dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane e Ordinario di Igiene all’Università Cattolica, commenta così i risultati del rapporto 2017 Osservasalute.
E aggiunge:
“È auspicabile che si intervenga al più presto partendo da un riequilibrio del riparto del Fondo sanitario nazionale, non basato sui bisogni teorici desumibili solo dalla struttura demografica delle Regioni, ma sui reali bisogni di salute, così come è urgente un recupero di qualità gestionale e operativa del sistema, troppo deficitarie nelle regioni del Mezzogiorno”.
Il Rapporto è frutto del lavoro di 197 ricercatori distribuiti su tutto il territorio italiano che operano presso Università e numerose istituzioni pubbliche nazionali, regionali e aziendali (Ministero della Salute, Istat, Istituto Superiore di Sanità, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto Nazionale Tumori, Istituto Italiano di Medicina Sociale, Agenzia Italiana del Farmaco, Aziende Ospedaliere e Aziende Sanitarie, Osservatori Epidemiologici Regionali, Agenzie Regionali e Provinciali di Sanità Pubblica, Assessorati Regionali e Provinciali alla Salute).
L’allarme di Ricciardi nasce dai dati.
Il decennio appena trascorso ha confermato una situazione da tempo nota e tollerata:
il profondo divario fra Nord e Meridione sia nelle dimensioni della performance indagate che nella qualità della spesa pubblica e, nello specifico, di quella sanitaria.
La progressiva attenzione al rientro dagli eccessi di spesa e alla copertura dei disavanzi pregressi, peraltro, non è stata accompagnata da una analoga attenzione al superamento delle diseguaglianze in termini di assistenza garantita. Le fonti pubbliche coprono circa il 95% della spesa ospedaliera, ma solo circa il 60% della spesa per prestazioni ambulatoriali e circa il 65% delle spese di assistenza di lungo termine (Long Term Care-LTC) nelle strutture residenziali. Sono dedicate a prestazioni ambulatoriali e LTC i circa 35 miliardi di euro di spesa sanitaria privata, corrispondente a circa il 23% della spesa sanitaria complessiva, di cui solo una piccola parte è mediata dai fondi assicurativi, mentre la gran parte è a carico diretto delle famiglie.
Nel decennio 2005-2015 si è osservato un netto incremento della spesa privata (+23,2%, da 477,3 euro pro capite a 588,1), soprattutto nelle regioni del Nord. Tali regioni si contraddistinguono per alti livelli di spesa pubblica pro capite, buoni livelli di erogazione dei LEA e quote basse di persone che rinunciano alle cure.
“Tale evidenza può essere interpretata - sottolinea
Alessandro Solipaca, Direttore Scientifico dell’Osservatorio - come il risultato di scelte individuali di cittadini che, avendo la possibilità economica, preferiscono rivolgersi al settore privato, ottenendo un servizio più tempestivo o di migliore qualità. D’altra parte non va dimenticato che spesso la compartecipazione alla spesa richiesta dal settore pubblico e confrontabile con la tariffa del privato”.
A guidare la classifica delle regioni con la spesa privata pro capite più alta c'è la Lombardia (608 euro), l’Emilia-Romagna (581 euro) e il Friuli Venezia Giulia (551 euro), che vantano anche strutture sanitarie pubbliche con standard qualitativi più elevati rispetto alle altre regioni. Calabria (274 euro), Campania (263 euro) e Sicilia (245 euro) chiudono questa graduatoria, che appare invariata in tutto il periodo di osservazione.
Ma se nel Meridione i consumi out of pocket delle famiglie sono bassi, la quota di persone che dichiara di non aver soldi per pagarsi le cure è elevata. Si tratta di una persona su cinque, quattro volte la percentuale osservata nelle regioni settentrionali.
Gli esiti di salute, in particolare la mortalità prevenibile attraverso adeguati interventi di Sanità Pubblica, sono più elevati nelle regioni meridionali. La Campania, e in particolare la Calabria, sono le Regioni che nel quadro complessivo delineato dagli indicatori selezionati mostrano il profilo peggiore.
Un’analisi su più parametri, ha permesso di delineare il quadro della performance dei Ssr e della dinamica osservabile nel periodo in studio, dal 2008 al 2015. La proiezione delle Regioni sul piano delinea quattro gruppi di regioni: quelle a bassa performance (Campania, Sardegna, Sicilia in miglioramento, Calabria e Puglia) quelle a media performance (Basilicata in miglioramento, Molise in peggioramento, Abruzzo e Lazio), quelle con buona performance e alta spesa (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Piemonte e Liguria in peggioramento) e quelle ad alta performance (Umbria in peggioramento, Marche, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto e Friuli Venezia Giulia).
Il quadro nazionale della performance in sanità rileva situazioni di buona copertura dei sistemi sanitari nelle Regioni del Centro-Nord, mentre per il Meridione appare urgente un forte intervento in grado di evitare discriminazioni sul piano dell’accesso alle cure e dell’efficienza del sistema.
Dal punto di vista della salute degli italiani, dove la prevenzione funziona, sottolinea il rapporto, la salute è più al sicuro, con meno morti per tumori e malattie croniche come il diabete e l’ipertensione (diminuiti del 20% in 12 anni i tassi di mortalità precoce per queste cause).
Gli italiani, inoltre, cominciano timidamente a occuparsi in maniera più proattiva della propria salute, tendono a fare più sport (nel 2016 il 34,8% della popolazione, pari a circa 20 milioni e 485 mila). Nel 2015 erano il 33,3%, pari a circa 19 milioni e 600 mila), ma scontano ancora tanti problemi, in primis quelli con la bilancia (nel periodo 2001-2016 è aumentata la percentuale delle persone in sovrappeso - 33,9% contro 36,2%; soprattutto è aumentata la quota degli obesi - 8,5% contro 10,4%, poi anche il vizio del fumo che almeno dal 2014 resta in Italia praticamente stabile (al 2016 si stima fumi il 19,8% della popolazione over-14 anni).
Anche sul fronte dei consumi di alcolici il dato sembra assumere contorni a tinte fosche: si assiste a una lenta, ma inarrestabile diminuzione dei non consumatori (astemi e astinenti negli ultimi 12 mesi), pari al 34,4% (nel 2014 era il 35,6%, nel 2015 34,8%) degli individui di età >11 anni.
L’efficacia delle cure e della prevenzione delle neoplasie è migliorata. In particolare per la prevenzione, ottimi risultati, secondo il rapporto, sono conseguiti alla diminuzione dei fumatori tra gli uomini e all’aumento della copertura degli screening preventivi (per esempio il pap test periodico e la mammografia) tra le donne. Lo dimostra la diminuzione dei nuovi casi di tumori al polmone tra i maschi (diminuiti del 2,7% l’anno dal 2005 al 2015) e della cervice uterina tra le donne (-4,1% annuo). È aumentata di 5,7 punti percentuali anche la sopravvivenza a 5 anni per il tumore al polmone e 2,4 punti per il carcinoma del collo dell’utero.
Al contrario, risultati negativi si riscontrano per il tumore polmonare tra le donne, tra le quali i nuovi casi sono in sensibile aumento (+1,6% tra il 2005 e il 2015); questo perché storicamente le donne in Italia hanno iniziato a fumare più tardi che in altri Paesi europei e quindi ancora si scontano le conseguenze dell’insalubre comportamento. Anche per questo tipo di tumore l’efficacia delle cure ha garantito un aumento della sopravvivenza a 5 anni di 5,6 punti percentuali (da 18,2% al 23,8%).
Ma ci sono ancora troppe ombre su salute degli italiani e sostenibilità del Ssn.
Sul fronte della salute gli italiani sono sempre più anziani e tra questi (in particolare tra gli over-75) aumentano quelli con limitazioni fisiche, che non sono in grado di svolgere da soli attività quotidiane semplici come telefonare o preparare i pasti (+4,6% tra 2015 e 2016 negli over-75 che riferiscono qualche limitazione nelle attività.
Confrontando l’Italia con l’Europa, il nostro Paese ne esce con un quadro rassicurante: è tra i Paesi più longevi d’Europa e del mondo - secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2015 si colloca al secondo posto dopo la Svezia per la più elevata speranza di vita alla nascita per gli uomini (80,3 anni) e al terzo posto dopo Francia e Spagna per le donne (84,9 anni), a fronte di una media dei Paesi dell’Unione Europea (UE) di 77,9 anni per gli uomini e di 83,3 anni per le donne. Anche rispetto agli anni di vita attesa all’età di 65 anni gli uomini e le donne italiane vivono in media un anno in più del valore medio europeo (rispettivamente, 18,9 anni vs 17,9 e 22,2 anni vs 21,2 anni).
Tuttavia se si esamina la speranza di vita senza limitazioni, dovuta a problemi di salute, la situazione cambia: ad eccezione della Svezia, gli altri Paesi ai primi posti della graduatoria per speranza di vita alla nascita degli uomini, come Spagna e Italia, scendono, rispettivamente, al 7° e 11° posto; per le donne, Francia e Spagna scendono al 6° e 8° posto, mentre l’Italia va nella 15a posizione, quindi anche al di sotto della media dell’Ue.
E ancora, va rilevata la maggiore prevalenza di artrosi, che caratterizza gli anziani italiani rispetto a quelli degli altri Paesi europei (46,6% delle persone che riferiscono una condizione di artrosi, uno dei più alti valori in Europa subito sotto Portogallo e Ungheria, rispettivamente 47,2% e 52,0%, contro i valori più bassi della Gran Bretagna, 6,1% e dell’Estonia, 8,2%), e il loro basso livello di attività fisica.
Quanto alle buone pratiche sanitarie va rilevato come in Italia si consumino ancora più antibiotici rispetto al resto d’Europa: nel 2015, nell’Ue, il consumo medio di antibiotici per uso sistemico nella popolazione, escludendo gli ospedali, è stato di 22,4 DDD per 1.000 abitanti, con valori compresi tra 10,7 DDD/1.000 ab die nei Paesi Bassi e 36,1 DDD/1.000 ab die in Grecia. L’Italia, con 27,5 DDD/1.000 ab die, è tra i Paesi con il consumo più alto di antibiotici, 6o posto nella graduatoria.
Sul fronte della sostenibilità del servizio sanitario, il decennio appena trascorso ha confermato una situazione da tempo nota e tollerata: il profondo divario fra Nord e Meridione sia nelle dimensioni della performance indagate che nella qualità della spesa pubblica e, nello specifico, di quella sanitaria; poi che la spesa out of pocket (sostenuta privatamente dai cittadini) è aumentata in maniera disuguale nel Paese (in particolare è cresciuta dell’8,3% nel periodo 2012-2016). L’aumento è stato elevato nelle regioni del Nord, nel Centro i valori di tale spesa sono stati costanti, mentre sono diminuiti nelle regioni meridionali.
E Osservasalute fa l’esempio dei tumori per mettere in evidenza le differenze Nord-Sud: nelle aree del Centro-Nord la sopravvivenza è omogenea per tutte le sedi tumorali esaminate, indicando una sostanziale equivalenza non solo dei trattamenti, ma anche delle strategie di diagnosi (introduzione dei programmi di screening), mentre al Sud e Isole risulta generalmente inferiore della media del Centro-Nord.
Per quanto riguarda i tumori soggetti a programmi di screening organizzato, gli effetti dell’introduzione di misure efficaci di prevenzione secondaria sono visibili nelle aree del Paese dove si è iniziato prima e dove la copertura è ottimale. Una documentata minor copertura di popolazione e una ritardata implementazione degli screening organizzati sono fattori da considerare per spiegare le diverse performance osservate nel Paese. Ad esempio a Trento lo screening preventivo per il tumore del colon retto raggiunge una copertura del 72% della popolazione, mentre in Puglia la copertura degli screening preventivi per questo tumore arriva appena al 13 per cento.
E resta come grande problema quello dell’aumento dell’età legata però alle cronicità e alla non autosufficienza.
Analizzando il fenomeno delle limitazioni nelle classi di età anziane, il rapporto osserva che tra gli ultra-sessantacinquenni l’11,2% ha molta difficoltà o non è in grado di svolgere le attività quotidiane di cura della persona senza ricevere alcun aiuto, quali mangiare da soli anche tagliando il cibo, sdraiarsi e alzarsi dal letto o sedersi e alzarsi da una sedia, vestirsi e spogliarsi, usare i servizi igienici e fare il bagno o la doccia. Le quote di persone non autonome in queste attività si attestano al 3,2% tra gli anziani di 65-74 anni, al 12% tra quelli nella classe di età 75-84 e al 36,2% tra gli ultraottantacinquenni.
Il 30,3% degli ultrasessantacinquenni ha molta difficoltà o non è in grado di usare il telefono, prendere le medicine e gestire le risorse economiche preparare i pasti, fare la spesa e svolgere attività domestiche leggere, svolgere occasionalmente attività domestiche pesanti. Tali prevalenze si attestano al 13% nella classe di età 65-74 anni, al 38% per gli anziani tra i 75-84 anni e al 69,8% tra gli ultra ottantacinquenni.
Da questo nasce una richiesta di aiuto e una difficoltà di gestione della quotidianità. Le reti di relazioni che si sviluppano intorno ad una persona potrebbero, in qualche modo, affiancare le persone con limitazioni nella gestione della quotidianità.
E il problema riguarderà sempre più anziani, sostiene Solipaca: le proiezioni per il 2028 indicano, infatti, che tra gli ultrassesantacinquenni le persone non in grado di svolgere le attività quotidiane per la cura di se stessi (dal lavarsi al mangiare) saranno circa 1,6 milioni (100 mila in più rispetto a oggi), mentre quelle con problemi di autonomia (preparare i pasti, gestire le medicine e le attività domestiche, ecc.) arriveranno a 4,7 milioni (700 mila in più), solo considerando il trend demografico di invecchiamento e gli attuali tassi di disabilità, ma i dati potrebbero rappresentare una sottostima del problema.
“Ci troveremo di fronte a seri problemi per garantire un’adeguata assistenza agli anziani – avverte - in particolare quelli con limitazioni funzionali (che non sono autonomi), perché la rete degli aiuti familiari si va assottigliando a causa della bassissima natalità che affligge il nostro Paese da anni e della precarietà dell’attuale mondo del lavoro che non offre tutele ai familiari caregiver”.
Per di più poi a livello nazionale il numero di medici e odontoiatri del Ssn si è ridotto in modo costante tra il 2012 e il 2015, passando da 109.151 unità nel 2012 a 105.526 unità nel 2015 (-3,3%). Lo stesso trend si riscontra, seppur in maniera più accentuata, se si rapporta il numero di medici e odontoiatri del Ssn alla popolazione; infatti, in questo caso la riduzione del numero di unità è del 5,4%.
Anche per quanto riguarda gli infermieri c’è una riduzione costante, meno marcata (-2,1%), del numero di unità, che passano da 271.939 nel 2012 a 266.330 nel 2015.
E tutto questo lascia scoperta ancora di più l’assistenza.
I primati regionali
19 aprile 2018
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