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Obiezione di coscienza, diritti umani e fine vita (2ª parte)

di Fabio Cembrani

Focalizzandomi sulla questione dell’ipotetico diritto del medico ad astenersi dai contenuti della volontà espressa dalla persona sana (dichiarazione anticipata di trattamento) e da quella malata (pianificazione anticipata della cura), l’errore più eclatante è quello di aver messo sullo stesso piano la legge e la deontologia professionale (art. 1, co 6) fratturando così la linearità della gerarchia delle fonti che pur continua ad esistere

27 APR - Continuo ad essere convinto che sono davvero molte le sviste concettuali, i tradimenti, le sconfessioni ed i veri e propri errori della nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento ed ancora non capisco le ragioni del largo, ancorchè fugace, plauso mediatico seguito alla sua approvazione, il silenzio che ha accompagnato la sua entrata in vigore e l’inerzia passiva di molte Regioni e delle organizzazioni sanitarie.

Focalizzandomi sulla questione dell’ipotetico diritto del medico ad astenersi dai contenuti della volontà espressa dalla persona sana (dichiarazione anticipata di trattamento) e da quella malata (pianificazione anticipata della cura), l’errore più eclatante è quello di aver messo sullo stesso piano la legge e la deontologia professionale (art. 1, co 6) fratturando così la linearità della gerarchia delle fonti che pur continua ad esistere e l’idea, ripetutamente espressa dalla Suprema Corte di Cassazione, che le regole deontologiche, ancorchè prodotte internamente (e senza alcun controllo esterno) dalle diverse categorie professionali, sono fonti giuridiche concorrenti a determinare il comportamento atteso dai professionisti. E concorrere, anche nella lingua italiana, significa contribuire, partecipare, collaborare, integrare o prendere parte con la conseguenza che non può essere il Codice deontologico a sostituire le regole giuridiche se non addirittura a suggerire comportamenti ad esse contrari.
 
Non si può, così, accettare la scelta del legislatore dell’urgenza che ha posizionato sullo stesso piano le norme giuridiche e le regole deontologiche perché la gerarchia delle fonti condiziona queste ultime ai contenuti delle prime, pur potendoli naturalmente integrare.

L’affermare, quindi, che l’art. 1, co 6 della nuova legge legittima il diritto del medico all’esercizio dell’obiezione di coscienza è una affermazione del tutto (a)tecnica che sfrutta però l’ambiguità e l’errore grossolano della nuova norma [Canestrari, 2018] dimenticando che il Codice di deontologia medica distingue l’obiezione dalla clausola (o opzione) di coscienza anche se la FNOMCeo ha, nel passato, confuso i termini delle questioni disciplinando le modalità di esercizio di quest’ultima sovrapponendole a quelle previste dalla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (cfr. Lettera-comunicazione dall’allora suo Presidente sottoscritta l’11 dicembre 2006).
 
Rompendo la circolarità delle idee [Cembrani F. e Cembrani G., 2016], perché la clausola non può essere confusa con l’obiezione di coscienza pur evidenziando la debolezza giuridica della prima e ricordando che essa è stata un’invenzione lessicale del Comitato nazionale per la bioetica (CNB) racchiuso in un parere del 28 maggio 2004 che, limitatamente alla pratica della contraccezione di emergenza realizzata con il Levonorgestrel (LNG), ha riconosciuto al medico la possibilità di appellarsi alla clausola di coscienza e di rifiutare, pertanto, «la prescrizione o la somministrazione del LNG […] in riferimento ai suoi possibili effetti post-fertilizzazione».
 
Quel parere, espresso non dal legislatore ma da un organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, era però circoscritto a questa sola pratica e non già altri campi dell’agire medico che qualcuno vorrebbe ricomprendere tra le aree della relazione di cura comunque oggetto di un comportamento astensivo realizzato dal professionista per motivi riferibili alla sfera coscienziale. Ed ancora: quel Parere non esplicita le formalità per il suo esercizio pratico limitandosi ad affermare che, in relazione ai possibili effetti post-fertilizzanti (o abortivi) prodotti dal LNG riguardo ai quali non esiste convergenza di pensiero a livello scientifico, il medico può rifiutare la sua prescrizione quando il farmaco poteva essere dispensato al pubblico solo con la sua presentazione al farmacista per la sua somministrazione.
 
Locuzione quest’ultima davvero ambigua perché è la donna che lo assume autonomamente per bocca a meno che il suo uso non sia da intendere come l’inespresso desiderio del CNB di estendere la clausola di coscienza anche al personale infermieristico e ostetrico al quale, in ambito ospedaliero, è demandato il compito di accertare la corrispondenza tra la prescrizione medica e il farmaco preparato per la sua somministrazione, di verificare l’avvenuta regolarità di quest’ultima e di controllare i suoi possibili effetti collaterali.

Nonostante la novità linguistica, l’introduzione della clausola di coscienza nell’esperienza di cura non ha certo prodotto la nascita di una nuova categoria giuridica che si sia, per così dire, affiancata all’obiezione di coscienza; né potrebbe essere altrimenti visto e considerato che il CNB non ha, certo, compiti di surroga vicaria del legislatore nella sua opera di regolamentazione giuridica, anche se la conseguenza pratica di questa presa di posizione è di tutta evidenza. Con essa è stata, infatti, prospettata l’idea di una nuova manifestazione pratica della libertà di coscienza (che non può essere, comunque, confusa con l’obiezione di coscienza) sia pur in relazione ad un ben individuato e circoscritto campo dell’agire medico rappresentato, come detto, dalla contraccezione di emergenza.

Alcuni interpreti del diritto hanno, a questo proposito, segnalato che il CNB si è assunto una responsabilità che non ha, sconfinando – in modo inopportuno e del tutto inappropriatamente – in un ambito non di sua pertinenza, riservata al solo legislatore [Paris D., 2013] ; altri interpreti hanno, al contrario, rivolto un plauso al Comitato per aver avuto il coraggio di intervenire su una questione particolarmente complessa e discussa consentendo al medico credente di non partecipare a pratiche finalizzate ad interferire con la gravidanza già iniziata e che, come tali, sono da intendere con finalità abortiva.

Senza banalizzare i contenuti di una discussione spesso caratterizzata da toni aspri e violenti ciò che occorre osservare è che questo parere si è inserito nel solco di una tradizione tracciata, in precedenza, dal Codice di deontologia medica, già nella sua versione approvata dal Comitato centrale della FNOMCeo nel 1998: in quella versione del Codice era stata inserita la previsione (poi confermata nel 2006 e nel più recente aggiornamento del Codice approvato a Torino nel maggio del 2014) che il medico può rifiutare la sua prestazioni professionale nel caso in cui gli siano richieste prestazioni che contrastino non solo con il suo «convincimento clinico» ma anche con la sua «coscienza» (art. 22) fermo restando, evidentemente, il diritto all’esercizio dell’obiezione di coscienza in quegli ambiti connessi con la riproduttività umana (artt. 43 e 44), specificatamente disciplinati dal legislatore e sui quali, evidentemente, la disciplina deontologica non può in alcun modo intervenire: anche se la stessa non avrebbe dovuto confermare il suo carattere rinunciatario, perché era auspicabile il richiamo ad un esercizio autentico di questo diritto di libertà fondato su una forte assunzione di responsabilità di modo che il non facere sia l’espressione di motivi rigorosamente coscienziali e non già umorali se non, addirittura, di comodo, di convenienza e di becera opportunità (Fine seconda parte. Leggi qui la prima parte).

Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale
Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento 


27 aprile 2018
© Riproduzione riservata


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