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Obiezione di coscienza, diritti umani e fine vita (3ª parte)

di Fabio Cembrani

C’è però da chiedersi se l’erroneo diritto all’esercizio dell’obiezione di coscienza del medico nel fine vita della persona non sia la spia di un altro malessere di cui i professionisti non hanno però ancora piena consapevolezza. La verità è che la nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento ha amputato l’autonomia del medico subordinandola alla giurisdizione. Se ne è parlato ancor poco.

28 APR - Le previsioni deontologiche sono espresse in maniera abbastanza chiara e puntuale, con qualche non trascurabile modifica rispetto alla precedente versione visto che gli estensori della nuova versione del Codice ne hanno modificato il titolo, condizionando, comunque, l’informazione e i chiarimenti dati dal medico all’ottenimento della prestazione.
 
Resta confermato che il diritto al rifiuto viene posto su un piano distinto rispetto all’obiezione di coscienza disciplinata dalla legge n. 194 del 1978 e dalla legge n. 40 del 2004 che ne definiscono l’oggetto (anche se in termini non sempre chiari), i limiti, le formalità per la sua presentazione e i destinatari.
 
Ed è di tutto interesse osservare, ancora, che la deontologia medica, pur non facendo mai riferimento lessicale alla clausola (o opzione) di coscienza (come anche il Codice deontologico degli infermieri italiani del 2009, quello delle ostetriche approvato nel 2010 e quello del fisioterapista approvato dall’AIFI nel 2011), non faccia alcun riferimento alla contraccezione di emergenza limitandosi a ricondurre la scelta coscienziale del medico nella sua autonomia diagnostico-terapeutica per rafforzarne il livello di responsabilizzazione che, in siffatte circostanze, non si concreta in una forma di abbandono, essendogli comunque chiesto di fornire, sempre e comunque, alla persona «ogni utile informazione e chiarimento»: un’autonomia, dunque, necessariamente responsabile che, evidentemente, pone il medico nel diritto e nel dovere di agire rispettando sì la propria coscienza (e, dunque, le proprie opzioni morali) e il suo convincimento clinico – secondo il noto adagio del in scienza e coscienza – ma senza abdicare al suo ruolo di garanzia perché il suo comportamento astensivo, sul piano disciplinare, è sanzionabile nell’evenienza in cui lo stesso sia causa di un «grave» e «immediato nocumento» per la salute della persona assistita.

Il Codice di deontologia medica distingue così l’obiezione dalla clausola di coscienza affermando che la prima libertà deve essere agita nel rispetto dei vincoli imposti dalla disciplina giuridica e che la seconda incontra limiti non eludibili nel suo pratico esercizio: al medico è consentito di rifiutare il suo intervento professionale per ragioni di coscienza anche se ad esso viene chiesto, in ogni caso, di fornire alla persona le più utili informazioni e chiarimenti a meno che esso non sia causa di un «grave e immediato nocumento per la salute della persona assistita»: salute intesa, naturalmente, nella sua eccezione più ampia che non può essere certo confusa con la sacralità o l’inviolabilità della vita umana.

La conseguenza di tutto ciò è che il medico non può legittimamente appellarsi all’obiezione di coscienza per astenersi dai desiderata espressi in anticipo dalla persona né reclamare il diritto all’esercizio della clausola (o opzione) di coscienza perché il suo comportamento sarebbe sicuramente lesivo della salute della persona medesima.

C’è però da chiedersi se l’erroneo diritto all’esercizio dell’obiezione di coscienza del medico nel fine vita della persona non sia la spia di un altro malessere di cui i professionisti non hanno però ancora piena consapevolezza. Io credo proprio di sì perché la verità è che la nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento ha amputato l’autonomia del medico subordinandola alla giurisdizione. Se ne è parlato ancor poco nonostante gli annunci traditi della nuova legge siano molto evidenti.

L’art. 1, co 2 della stessa “valorizza la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico” fondandola non solo sull’”autonomia decisionale del paziente” ma anche sull’”autonomia professionale e sul(la) responsabilità del medico” che viene poi tradita in due successive occasioni nonostante l’art. 2, co 2 vieti espressamente l’accanimento e la futilità terapeutica rinviando la soluzione dei contrasti di vedute tra il medico e chi rappresenta la persona alla giurisdizione (nello specifico al Giudice tutelare).
 
La nuova legge si appella così all’autonomia ed alla responsabilità professionale del medico cui ha già dato rilievo la Corte costituzionale (sentenza n. 151 del 2009) perchè la care non trasmigri pericolosamente nella futilità (e nella disumanità) dell’accanimento o delle pratiche cliniche su cui non esiste una piena condivisione a livello internazionale (si pensi, ad es., al trattamento dialitico sostitutivo nelle persone dementi con alti livelli di comorbilità) ma poi, quando emerge uno tra i tanti contrasti che esistono nell’esperienza clinica di chi fa il nostro difficile mestiere, si delega la decisione ad un terzo, delegittimando proprio quella autonomia e quella responsabilità.
 
Spostando la decisione ultima sulla giurisdizione dimenticando che i tempi di quest’ultima non sono mai sincroni con le esigenze di cura e con il ruolo di garanzia che il medico deve pur esercitare e che la giurisdizione dovrebbe occuparsi di quei fenomeni delittuosi più seri che hanno minato le fondamenta democratiche del nostro Paese.
 

Non sarà che, amputati nella loro autonomia, i medici italiani si appellano forse inconsciamente al salvagente salvifico dell’obiezione di coscienza per far sentire la loro voce di guaritori feriti? (Fine terza parte. Leggi qui la prima parte e la seconda parte).
 
Fabio Cembrani 
Direttore U.O. di Medicina Legale
Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento 


28 aprile 2018
© Riproduzione riservata


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