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Il trionfalismo fuori posto della convention Fiaso

di Ivan Cavicchi

Se l’azienda è uno strumento e lo strumento per tanti motivi nel tempo risulta inadeguato anche perché gli scopi sono cambiati, non trovo scandaloso rifletterci sopra. Anzi, trovo scandaloso che una convention sull’azienda dopo 26 anni di storia, non lo faccia

12 NOV - Da molti anni considero la questione “azienda” uno snodo cruciale. Per cui con molto interesse ho letto la relazione fatta da Francesco Ripa di Meana alla prima convention Fiaso. Considerando che si tratta della prima convention a 26 anni dalla nascita delle aziende sanitarie, in tutta franchezza le mie aspettative sono state deluse.
 
Nella relazione c’è una studiata condotta narrativa che, nel più perfetto equilibrismo del relatore, ha ritenuto “opportuno” rinunciare a dire sull’azienda le cose come stanno, a descrivere i suoi problemi, le sue disavventure e quindi le sue incerte prospettive. Una relazione senza verità.
A parte unirsi al coro di chi chiede soldi, la Fiaso si presenta in questa nuova fase politica, con uno scialbore progettuale imbarazzante.
 
Proprietà padroni e servi
La relazione parte da una manifesta contraddizione:
- da una parte dice che le aziende sono di “proprietà” delle regioni appellando queste ultime come “la proprietà” quindi come i “padroni” dei DG
dall’altra si lamenta che i DG sono accusati ingiustamente “di presunta contiguità con la politica”.

La relazione nel suo complesso, a causa delle tante omissioni non certo dovute alla distrazione del relatore, risulta del tutto contigua ai “padroni” e l’immagine, per me deteriore, che essa offre dei DG, è esattamente quella di una professione assoggettata alla politica come se fosse una dipendenza assoluta. Questo non giova né ai DG e meno che mai alla politica e se mi permettete ancor meno alla Fiaso.

Per inciso mi preme contraddire la relazione sul concetto di “proprietà”: per me l’azienda è ancora quella che nel 1994 in un libro scritto a più mani su come “negoziare la sanità” (Cavicchi Borgonovi, France, Mapelli, Valentini, Veronesi) definivamo uno strumento che si caratterizza con gli scopi di chi la usa per differenziarlo dall’impresa cioè da un soggetto che, al contrario, si caratterizza per gli scopi che persegue. La differenza tra strumento e soggetto resta cruciale.
 
Oggi è chiaro che chi usa l’azienda istituzionalmente è la regione, ma socialmente anche i cittadini e professionalmente anche gli operatori. La natura plurima degli scopi che si servono dell’azienda:
fa saltare l’idea di una regione unica padrona;

- pone un problema di armonizzazione degli scopi quelli finanziari della regione, quelli della soddisfazione del diritto per i malati e quella della garanzia deontologica per gli operatori. Come negare che in questi anni gli scopi finanziari della regione spesso sono stati garantiti a scapito di quelli dei cittadini e degli operatori?

- pone un problema di rappresentanza e quindi per forza mette in discussione ciò che nella relazione è definita “la monocraticità della direzione generale” aprendo la strada ad un ripensamento dell’idea di azienda sulla cui necessità in tutta la relazione non c’è traccia.
 
Nel mentre la relazione auspica in modo imperativo “che si concluda l’inutile dibattito Aziende sì/Aziende no” e che si metta “fine alla continua delegittimazione della Azienda e della dirigenza pubblica” il dibattito esiste e la delegittimazione pure. Oggi l’azienda dopo 26 anni di travagli è rifiutata tanto dai cittadini che dagli operatori, talmente rifiutata che da anni si dice trasversalmente che bisogna ripensarla.
Perché la relazione invece di autoincensarsi e di prendersela con le “cassandre” non ci ha spiegato la ragione di questo rifiuto? Siamo proprio sicuri che le aziende non hanno nulla da rimproverarsi?
 
La delegittimazione dell’azienda
L’azienda come ha ben spiegato Francesco De Lorenzo su questo giornale (QS 29 ottobre 2018) nasce da un grande discontinuità paradigmatica:
- da una idea di diritto alla salute assoluto quindi incondizionabile,
- si passa ad una idea di diritto finanziariamente condizionabile quindi relativo.

L’azienda nasce per condizionare l’assolutezza del diritto alla salute o meglio la gestione è vista come lo strumento principale per mediare gli scopi economici con quelli sociali e professionali e comunque per spendere meno. Il modo per condizionare il diritto, poi ripreso con la legge 229 del 99, è quello della razionalizzazione.
 
Oggi dopo 26 anni tanto il postulato del diritto condizionato quanto quello della razionalizzazione, sono apertamente in crisi, cioè tanto l’azienda che la gestione ormai da tempo, di fatto, sono visti dalle politiche economiche finanziarie, quindi dalle leggi di bilancio, come del tutto insufficienti a garantire quella che da alcuni anni definiamo “sostenibilità”. La partita cara la mia Fiaso non è chiusa.
 
I tagli lineari, il de-finanziamento programmato, i patti della salute, la spending review, le spinte verso una maggiore autonomia, il regionalismo differenziato, le politiche di riordino regionale, il dm 70, il regionismo, sono tutte forme di delegittimazione del ruolo e del significato dell’azienda. Tutte queste cose passano sopra la testa dell’azienda e finiscono per essere interventi sulla azienda e contro l’azienda. Ma di questo problema nella relazione non si fa cenno.
 
Da soluzione a problema
Oggi quindi l’azienda non è più la soluzione che si pensava nel ‘92 ma paradossalmente è diventata a sua volta un problema di sostenibilità.
La dimostrazione evidente è il processo di riduzione costante e progressivo del numero delle aziende.  Nel 1992 avevamo 659 aziende nel 2017 ne abbiamo 101. Perché questo taglio sul numero delle aziende? Se l’azienda come dice la Fiaso è un salva-sanità perché mai devo privarmi di questo strumento? Forse che la sanità non è più da salvare? No la sanità è sempre da salvare e secondo me lo è più di prima, ma l’azienda ormai sembra aver fatto il suo tempo.
 
Oggi abbiamo forti processi di accentramento della gestione mi riferisco alle aziende uniche regionali, alla concezione di azienda zero, alle mega aziende per mega territori e contestualmente una forte centralizzazione delle scelte di politica sanitaria, penso al dm 70, al decreto sull’appropriatezza, ai patti per la salute, al regionalismo differenziato cioè a misure che svuotano ad ogni livello le regioni e le aziende della loro autonomia.
 
E come dimenticare il grande paradosso degli ospedali scorporati dalle aziende uniche che diventano a loro volta aziende nel mentre ancora oggi come Sisifo corriamo dietro all’integrazione ospedale e territorio senza mai raggiungere l’obbiettivo.
 
La relazione su questi problemi se la cava con una frase tanto ridicola quanto dorotea: “Il percorso è stato lungo e non sempre lineare”.
 
Un trionfalismo davvero fuori posto
Due affermazioni:
- “Possiamo affermare che l’aziendalizzazione in sanità è stato il modo più concreto e coerente per dare attuazione al diritto alla salute sancito dalla Costituzione”.

 -“Le aziende sanitarie hanno salvato il Ssn”.

Nella relazione, queste due affermazioni, come è intuibile, sono del tutto opinabili e rivelano un trionfalismo e una immodestia davvero, fuori posto per cui la rivendicazione di meriti che la Fiaso fa, per il solo fatto di negare i meriti   degli altri e per essere platealmente in contraddizione con il più semplice principio di realtà sullo stato effettivo delle aziende, risulta irricevibile.  Una brutta figura che la Fiaso poteva risparmiarsi.
Ma la cosa che mi preme rimarcare non è la presunzione della Fiaso ma è la sua visione del mondo.

Oggi l’attuazione del diritto alla salute è molto problematica, e non può essere data realizzata e come scontata, essa per cominciare è molto diseguale nel paese, soprattutto molto condizionata financo da semplice problemi di accesso al sistema delle tutele, per non parlare della insufficienza finanziarie dei lea, delle conseguenze sulla funzionalità dei servizi determinata sia da gravi carenze del personale, che dalla grande questione della sfiducia sociale (contenzioso legale, medicina difensiva).

Soprattutto oggi il diritto alla salute, nel senso inteso dalla Costituzione, è in competizione con le teorie del sistema multi-pilastro, con le false mutue integrative, è inficiato dall’affermarsi di una medicina sempre più amministrata cioè messa in pericolo da un uso economicistico da parte delle aziende delle procedure, dalle grandi questioni professionali, tanto quella medica che infermieristica, che sempre meno sono deontologicamente una garanzia per il diritto del cittadino.

Ma c’è di più: oggi il diritto alla salute è contraddetto platealmente dalla mancanza di politiche per la produzione della salute come bene primario.
Diciamo la verità: alle aziende della prevenzione non è mai importato molto. Esse sono sistemi gestionali pensati in una vecchia cultura riparatrice quindi mutualistica per la cura della malattia. Esse sono culturalmente “mutue” gestite in modo aziendale.

Se pensiamo quindi alla prevenzione il diritto alla salute è stato negato proprio dalla prevalente cultura riparatrice delle aziende. Quindi sarei più cauto nell’affermare che il diritto alla salute è stato attuato grazie alle aziende sanitarie. Ma a parte ciò, va detto che il diritto alla salute, particolarmente oggi è tutto in divenire e almeno, secondo il ragionamento della mia “quarta riforma”, esso oggi nei contesti dati, ha bisogno, per essere davvero attuato, di una nuova stagione riformatrice perché la prima, secondo me, ormai ha esaurito la sua propulsione.
 
La sfida della sostenibilità
C’è un ultimo aspetto della relazione che mi preme richiamare. Lo spunto mi viene offerto da un’altra affermazione incauta “Oggi“ dice la relazione “il mostro della insostenibilità sembra domato”.

Mi permetto di dire che, pur apprezzando la parità di bilancio conseguita dalla maggior parte delle aziende e ovviamente anche i risultati di riduzione della spesa sanitaria complessiva che grazie soprattutto ai tagli sono stati conseguiti in questi anni, secondo me valutando il presente e in particolare gli orientamenti della legge di bilancio in discussione al parlamento, la questione della sostenibilità è ben lungi dall’essere stata domata.

Quello che io penso è che il problema della natura incrementale della spesa sanitaria, da oggi in avanti, soprattutto se usciamo dalla logica del de-finanziamento, si riproporrà ancora con più forza. Il programma di governo prevede nel triennio interventi diversi che comporteranno una crescita inevitabile della spesa sanitaria e che comporteranno nuovi problemi di sostenibilità e quindi la necessità di fare ricorso a modalità di compensazione in relazione all’andamento del pil e del disavanzo pubblico ma soprattutto renderanno inevitabile il ricorso a misure che rendano strutturalmente il sistema sempre meno costoso.

Non solo, ma credo che tutte le formulette usate nella relazione (fare meglio con meno, spendere bene quello che si ha, efficientamento, recupero di risorse ecc) restino ovviamente importanti, perché razionalizzare non è mai una cosa sbagliata, ma nello stesso tempo insufficienti dal momento che fuori dalle misure di razionalizzazione restano:
-le grandi diseconomie strutturali del sistema,
-le grandi anti-economie che si nascondono dietro le grandi invarianze del sistema sia nei servizi che nel lavoro,
- le grandi contraddizioni che oppongono purtroppo la sanità alla società.

Per cui non solo credo che il problema della sostenibilità non è domato ma che per la sua risoluzione dal momento che per liberare risorse razionalizzare non basta più, si debba mettere mano ancora una volta ad una seconda fase riformatrice nella quale non è possibile non ripensare l’azienda, cioè il ruolo della gestione in relazione a un ruolo più grande di governo. Non credo che basti gestire bene per ridurre i costi strutturali del sistema che rammento, son riducibili ma solo con un ripensamento dei modelli. Insomma proprio per ragioni di sostenibilità e non solo, secondo me, l’azienda esattamente come modello dovrà essere ripensata e anche profondamente.
 
Gestione e governo
La Fiaso in luogo del concetto di riforma preferisce quello di innovazione. Ho già spiegato, in polemica con il forum per il risk management, la differenza tra innovazione e riforma. (QS 18 marzo 2018) L’innovazione è uno strumento di gestione la riforma è uno strumento di governo. In futuro la gestione della sanità dovrà essere ri-commisurata in rapporto alle nuove sfide di governo della sanità.

Si tratta di ridiscutere la gestione non in quanto tale sia chiaro (pur sempre la sanità va gestita) ma come unico modo di governare.  In futuro saranno gli interventi di riforma a liberare risorse in luogo dei tagli lineari e delle misure di de-finanziamento. A parte la privatizzazione, che non auspico, non vedo altra strada. Forse in questo modo troveremo la maniera per risolvere l’annoso problema del rapporto tra gestione e politica.
 
Quale azienda?
Circa due mesi fa ho lanciato, su questo giornale, un allarme sul pericolo di controriforma rappresentato dal regionalismo differenziato (QS 19 settembre 2018). Recentemente ho spiegato le mie riserve verso il documento della conferenza delle regioni sul regionalismo differenziato (QS 29 ottobre 2018). Con piacere ho visto che, su questo giornale, altri, in questi giorni, hanno ripreso il problema anzi addirittura hanno sollecitato, bontà loro, la necessità di una discussione. Ho sostenuto la tesi che il regionalismo differenziato è un modo per riaffermare le ragioni di una vecchia idea di decentramento ammnistrativo, ragioni che oggi debbono cedere il passo ad altre concezioni più avanzate di governo. Sostengo con forza che la sanità oggi per una infinità di motivi deve rinnovare la forma di governo che sino ad ora l’ha sia gestita che governata.
 
Non si tratta solo di rispondere alla domanda “quale regione per quale sanità” ma anche a quella “quale azienda per quale regione” ben sapendo che in una concezione di governo, ad esempio federale, l’idea di fondo resta quella di un genere di governo non monocratico ma partecipato. Un’azienda coerente con un governo regionale partecipato non può che essere una azienda, se restiamo in questa tipologia concettuale, a management diffuso nella quale i medici per esempio diventano, in un modo da definire, co-gestori e i cittadini, in un modo da definire, controllori. Dove il “dipendente” descritto sino ad ora per competenze (compitiere) diventa “autore” definito per impegni e per risultati quindi pagato sugli uni e sugli altri.
 
Oltre l’azienda
Personalmente non escludo la possibilità, in questo lavoro di ripensamento della forma di governo, di abbandonare l’ambito concettuale di azienda e di adottarne un altro più adeguato alle sfide che ci aspettano e questo per tre ragioni di fondo:
- per segnare un discrimine tra una prima fase di riforme, quella iniziata nel 78 continuata nel 92 e conclusasi nel 99 e una seconda fase, tutta da definire, e che personalmente ho riassunto nell’espressione “quarta riforma”
- per sostenere che il processo riformatore iniziato 40 anni fa non è ne esaurito ne attuato e meno che mai è esente da difetti lacune e contraddizioni gravato come è da macroscopiche invarianze soprattutto culturali, e che esso va continuato sviluppato corretto reinterpretato
- per disporre di qualcosa che non abbia i difetti tipici dell’azienda cioè che abbia ben altre connotazioni e che segni nella percezione sociale un passaggio dove il diritto alla salute, pur restando finanziariamente condizionato, torni ad essere non il prodotto della cura ma una condizione di vita.
 
Conclusione
Vorrei da ultimo rivolgermi ai direttori generali. In questi anni ho conosciuto molti di voi alcuni davvero molto bravi, con una grande professionalità, ma anche con una grande sensibilità e ottime qualità relazionali, (non faccio nomi per non compromettere il loro futuro) altri autentici figli della politica clientelare quindi mediocri per definizione. Ho conosciuto Dg che hanno sempre svolto la loro professione in “piano di rientro” e a costoro va la mia massima stima e solidarietà. Ho conosciuto Dg che sono riusciti a cavare sangue dalle rape cioè a ottenere dei risultati ammirevoli non perché hanno risparmiato tanto ma perché hanno risparmiato senza tradire i valori morali della sanità pubblica. Cioè Dg con la fissa dell’etica non solo del bilancio.
 
A voi DG dico molto semplicemente grazie, aggiungendo di non fare l’errore che la Fiaso ha fatto in questi anni ma non solo lei, penso ad alcuni papaveri della Bocconi, cioè di considerare la critica all’esperienza aziendale come contro l’azienda. Non sono mai stato un anti-aziendalista e lo dimostra quel volume che ho citato del ‘94 e non solo quello.

Nello stesso tempo se l’azienda è uno strumento e lo strumento per tanti motivi nel tempo risulta inadeguato anche perché gli scopi sono cambiati, non trovo scandaloso rifletterci sopra. Anzi, nel vostro interesse, trovo scandaloso che una convention sull’azienda dopo 26 anni di storia, non lo faccia.
 
Ivan Cavicchi

12 novembre 2018
© Riproduzione riservata


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